Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 08
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di uomini illustri, e fatte predizioni che formavano la meraviglia
universale; il Principe di Stigliano, Vincenzo Luigi Carafa, che lo
stimava e lo ricercava sempre, onorandolo pure con molti donativi,
conservava nella sua Biblioteca un grosso volume delle natività da lui
scritte. Del rimanente era uomo modestissimo quanto religiosissimo,
e motteggiava suo fratello Gio. Battista, perchè era così facile a
comporre libri e a stamparli. Egli scrisse sulle antichità di Pozzuoli
e vicinanze, e si vuole che di questo scritto si sia servito Scipione
Mazzella nella composizione del libro suo: scrisse pure _Commentarii_
sopra l'Almagesto e il Quadripartito di Tolomeo che non si sa qual
sorte abbiano avuta, un libro _De emendatione temporum_ che essendosi
trovato conforme a quanto avea detto lo Scaligero fu da lui disfatto,
un altro libro della _Emendazione del Calendario_ che non fu finito
in tempo per essere inviato a Roma e quindi fu condannato alla stessa
sorte. Morì nel 1606. — È del tutto verosimile che il Campanella abbia
frequentato le conversazioni di Gio. Vincenzo, non meno che quelle di
Gio. Battista, e con Gio. Vincenzo siasi più direttamente inteso circa
l'astrologia pratica, le predizioni, le compilazioni delle genesi e
natività allora tanto ricercate, e tanto dal Campanella amate. Oramai
le lettere sue scoperte dal Berti ci hanno insegnato che perfino
nel carcere di Napoli, e poi in quello del S.^to Officio di Roma, il
Campanella siasi occupato di genesi e natività, e i documenti da noi
scoperti mostreranno che ne era richiesto perfino nel periodo della
sua pazzia; nè sarà mai approfondito abbastanza siffatto suo gusto, che
fu tanta cagione delle sue sventure. Forse anche presso Gio. Vincenzo
egli conobbe il Marthos Gorostiola, dal quale poi affermò essere stato
eccitato a scrivere intorno alla Monarchia spagnuola, come pure Gio.
Paolo Vernalione, col quale vedremo che conferì poco prima del tempo
della congiura.
Quanto a Gio. Battista Della Porta, tutti sanno che egli si spinse
assai più in alto. Studiò presso Gio. Antonio Pisano medico e filosofo
riputatissimo, e gli si mostrò grato dedicando una delle sue opere
al figliuolo di lui: fu ricercatore infaticabile, e all'amore per le
buone lettere e per la drammaturgia unì la cultura della matematica,
della fisica, dell'alchimia, di tutte le scienze naturali; fu
anche vaghissimo della medicina, ed amante oltremodo della magia,
dell'astrologia, delle scienze divinatorie in genere, ma combattendo
la magia demoniaca e fondando la così detta da lui magia naturale[78].
Tutti sanno che per lo meno contribuì potentemente all'invenzione
del cannocchiale e della camera oscura, notando anche varii fenomeni
fisici di alta importanza, che investigò e raccolse da ogni lato,
percorrendo anche tutta l'Italia, la Francia, la Spagna, ma sempre
con una tendenza verso il maraviglioso e lo strano, che veramente fa
gran torto a lui e gran pena a chi si fa a leggere i suoi numerosi
libri. Eppure è indubitato che precisamente per questo richiamò sulla
persona sua l'attenzione e la stima universale de' contemporanei,
rimanendone pregiudicata quella de' posteri. Così il Card.^l Luigi
d'Este lo volle presso di sè per qualche tempo; il Gran Duca di Toscana
gli mandò il suo medico Punta per averne secreti; il Duca di Mantova
Vincenzo Gonzaga si trattenne un pezzo in Napoli e ne frequentò sempre
la casa; infine Rodolfo II Imperatore (nel 1604) gli scrisse e gli
mandò il suo cappellano Cristiano Harmio per sollecitarlo che gli
spedisse qualche suo discepolo pratico dell'arte. Ed egli allora, dopo
di avere pubblicate tante opere ed avendone pure altre fra mano, si
decise ancora a scrivere quel libro della Taumatologia etc. rimasto
incompiuto e inedito, ora esistente in Montpellier, nel quale, in
grazia certamente dell'Imperatore, diè prova di una grande smania
pe' segreti comunque mostruosi, mentre già da molti anni se ne era
abbastanza corretto. Ci asteniamo dal parlare delle sue opere, della
sua Accademia de' Segreti, della sua partecipazione all'Accademia
de' Lincei di Roma. Appena menzioneremo che egli ebbe un processo di
S.^to Ufficio, procuratogli certamente dall'astrologia giudiziaria
ed esercizio de' pronostici: un documento autentico capitato nelle
nostre mani ci rivela essere state fatte per lui le «ripetizioni» de'
testimoni avanti il 1580, reggendo il S.^to Officio in Napoli Mons.^r
Carlo Baldini Arcivescovo di Sorrento, e trovandosi Maestro d'atti
Francesco Joele; il processo quindi è di data diversa dalla proibizione
di stampare, che gli venne inflitta nel 1592, che durò fino al 1598, ma
che pure impedì consecutivamente la pubblicazione della Taumatologia e
della Chiromanzia[79].
Il Campanella, giovane ed infiammato scrittore di una nuova filosofia
che accennava ad essere sperimentale, oltracciò venuto da Calabria con
la mente già eccitata verso la magia e le arti divinatorie, non poteva
non frequentare la casa de' Della Porta e non avervi lieta accoglienza.
Verosimilmente le arti divinatorie e i pronostici furono il soggetto
di molte conversazioni, trovandosi il Campanella sotto l'impressione
dell'altissimo pronostico fattogli dall'Ebreo; ma a noi è pervenuto
solamente il ricordo della conversazione (non disputa pubblica)
avuta con Gio. Battista intorno al non potersi dar ragione della
simpatia ed antipatia delle cose, come Gio. Battista aveva scritto
nella Fisognomia, «mentre esaminavano insieme il libro già stampato»,
la quale conversazione, oltre a una disputa pubblica avuta altrove
precedentemente, diede occasione al Campanella di scrivere l'opera _De
sensu rerum_; in quest'opera c'è talvolta il ricordo di qualche altro
discorso passato tra lui e Gio. Battista, come p. es. a proposito delle
formazioni dendritiche dell'argento[80]. Ebbe inoltre il Campanella
a profittare egli pure de' consigli e de' rimedii, che Gio. Battista
dispensava ed amministrava personalmente a coloro i quali andavano
a consultarlo; ne diremo or ora qualche cosa. Presso i Della Porta
anche dovè conoscere Giulio Cortese, Colantonio Stigliola, Gio. Paolo
Vernalione. Sicuramente conobbe il Cortese in questa sua prima venuta
in Napoli, poichè lo vedremo da lui posto come interlocutore nel suo
_Dialogo contro i Luterani_ che scrisse in Roma nel 1595; ma lo vedremo
del pari citato insieme allo Stigliola e al Vernalione a proposito
di un discorso passato tra loro intorno alla vicina fine del mondo,
allorchè tornò per la prima volta in Napoli poco avanti la congiura;
avremo quindi campo di parlare di tutti costoro a tempo e luogo più
opportuni.
Dicemmo che il Campanella ebbe a profittare de' consigli e rimedii
di Gio. Battista Della Porta. Egli medesimo infatti, nella sua opera
_Medicinalium_, ci lasciò scritto che guarì subito da una infiammazione
di occhio mediante un collirio meraviglioso che il Della Porta usava,
e che gl'instillò con le sue mani in presenza di molte persone.
Veramente potè forse questo accadere nella sua seconda venuta in
Napoli; ma senza dubbio nella sua prima venuta gli accadde di soffrire
una doppia sciatica, che lo tenne per più mesi a letto «essendo
giovane di 23 anni», come ci lasciò scritto nella medesima opera; la
quale notizia della sua età non deve indurre in un errore di data,
riferendo la cosa all'anno 1591 anzichè all'anno 1590, perchè avremo
altre volte occasione di vedere essere stato il Campanella solito
di fare i suoi còmputi calcolando anche la cifra dell'anno da cui il
còmputo cominciava. Egli intraprese la cura de' bagni e delle stufe di
Pozzuoli e di Agnano, naturalmente nell'està del 1590, e se ne trovò
bene; ma la malattia non l'abbandonò del tutto che due anni dopo,
succedendole una terzana. E deve essere notata la cagione che assegnò
alla comparsa della malattia, alla sua durata, al suo miglioramento:
aveva fatta, egli scrisse, una lunga e forte cavalcata, beveva col
ghiaccio e desinava lautamente presso un nobile uomo; cessate tutte
queste comodità, dimagrato nelle successive peregrinazioni, si avviò
a guarire. Da ciò si vede l'ottimo trattamento che godeva presso Mario
del Tufo, e la ben diversa vita che ebbe a menare in sèguito[81]. — Ma
egli pure, quantunque si riconoscesse «poco erudito ne' medicinali»,
curò dal letargo il P.^e M.º Mattia Aquario, e tale cura deve riferirsi
egualmente al tempo della sua prima venuta in Napoli. Abbiamo infatti
rinvenuto nell'Arch. di Stato, che questo Mattia Aquario, Domenicano,
era pubblico lettore di Metafisica, successo a Colanello Pacca il 12
marzo 1588, e morì poi nel 1592, succedendogli il 20 giugno di detto
anno D. Jacobo Marotta[82]. Da ciò già si rileva che il Campanella non
mancava di frequentare il convento di S. Domenico, e ne avremo ancora
altre prove in sèguito. Naturalmente ebbe così occasione di conoscere
il P.^e Fra Serafino da Nocera (Serafino Rinaldi), il quale era
allora, o fu poco dopo, Reggente lo studio de' frati di quel convento
e divenne grande amico del Campanella, suo instancabile fautore negli
anni delle sventure. Entrato in Religione nel 1586, già vi godeva
moltissima stima, e al tempo de' tumulti de' frati di S. Domenico,
benchè si fosse tenuto lontano ritirandosi fra' Certosini nel convento
di S. Martino, fu ritenuto dal Nunzio qual promotore principale della
ribellione; fu quindi per ordine di lui carcerato più tardi, e tenuto
sotto processo per parecchi anni: ma giunto a liberarsi, divenne
presto superiore di S. Domenico, in sèguito anche Provinciale, non
che lettore di S. Tommaso nello studio pubblico, e infine chiuse la
sua carriera coll'Episcopato. Vedremo a tempo e luogo i beneficii
grandissimi e l'assistenza paterna che quest'uomo benemerito prodigò al
Campanella[83].
Dobbiamo ora dir qualche cosa delle opere composte dal Campanella
durante la sua permanenza in Napoli, e gioverà anzi cominciare ad
occuparci del Catalogo delle sue opere: bisogna una volta sforzarsi di
avere questo catalogo nelle migliori condizioni possibili, quantunque
esso riesca malagevole a farsi perchè tra le sventure sofferte
dall'autore diverse sue opere furono composte e ricomposte anche
con diversi titoli successivamente; è indispensabile conoscere con
esattezza tra quali circostanze ciascun'opera fu composta o ricomposta,
mentre le fortunose circostanze della vita dell'autore doverono
certamente influire di molto sopra le idee in esse sviluppate. Senza
curarci delle cose minori, delle versificazioni dell'adolescenza, de'
sunti delle lezioni compilati su' banchi della scuola etc. abbiamo
finquì per ordine di data le opere seguenti. In primo luogo il trattato
_De investigatione rerum_: esso fu composto certamente prima della
Filosofia, come appunto si rileva dalla prefazione di quest'opera,
fonte incomparabilmente preferibile a quello del _Syntagma_, che fu
redatto quarant'anni dopo e in modo tale da dover offrire di necessità
molte inesattezze; si può tutt'al più dire che in Napoli vi fu posta
l'ultima mano. Con ogni probabilità il trattato fu scritto in Nicastro,
dove il Campanella si emancipò totalmente dalle dottrine Aristoteliche,
il 1586-87, prima dell'andata a Cosenza, dove egli rimase ben poco
tempo per avere agio di scriverlo[84]. Esso costava di due libri, come
risulta da varii documenti[85]; risulta poi dal _Syntagma_ che vi si
contemplavano nove generi di cose sensibili, con le quali si poteva
giungere a ragionare e vi si dimostrava la definizione esser fine
non principio di scienza. Vedremo più in là come e dove andò perduto
insieme ad altri trattati, e dove si dovrebbe ancora trovare. Segue la
_Philosophia sensibus demonstrata_, composta in Altomonte in 7 mesi,
dal 1º gennaio all'agosto 1589, stampata in Napoli durante il 1590,
pubblicata il 1591, dedicata a Mario del Tufo, il quale sostenne forse
le spese della stampa, come traspare dalla dedica. I molti errori
tipografici incorsi «propter absentiam auctoris» e in parte corretti
nell'ultima pagina dell'opera, si spiegano con la malattia sofferta e
con l'andata a Pozzuoli ed Agnano. Segue l'opera _De sensitiva rerum
facultate_, o _De sensu rerum_, composta dopo la disputa pubblica e
la conversazione col Porta già dette. Essa era già composta quando
si stampava la prefazione della Filosofia, come si legge appunto in
termine di questa prefazione; può dirsi quindi scritta nell'inverno
del 1590. E fu scritta in latino, come risulta da ciò che se ne dice
nell'opera stessa rifatta più tardi in italiano e successivamente
tradotta, dopochè andò perduta insieme col trattato «De investigatione»
e con altre opere[86]. Verosimilmente ebbe dapprima per titolo «De
sensitiva rerum facultate», e così la troveremo difatti ancora nominata
in un documento del tempo in cui l'autore passò a Firenze; ma ben
presto egli dovè nella sua mente sostituirgli il titolo «De sensu
rerum» che adottò in sèguito, e così difatti si trova già annunziata
nella prefazione della Filosofia. Vedremo come e dove l'autore l'abbia
rifatta, e metteremo in vista parecchie cose appartenenti agli anni
posteriori a quelli de' quali ci stiamo occupando: ma si sa che il
Campanella aveva una memoria tale, da essere in grado di tornare a
scrivere un'opera perduta, anche dopo varii anni, pressochè con le
medesime parole con le quali l'aveva dapprima scritta; c'imbatteremo
poi in qualche esempio notevole del suo sistema di serbare fedelmente
le cose come già stavano quando ebbe a rivedere e compiere qualche
sua opera, e generalmente anche quando ebbe a tradurla dall'italiano
in latino per darla alle stampe. Non dubitiamo quindi di affermare
che questa prima composizione dell'opera _De sensu rerum_ sia stata
essenzialmente quella medesima che oggi possediamo ricomposta. E
dobbiamo notare che l'influenza del Della Porta riesce evidente in
essa anche così ricomposta come ci è pervenuta, vedendovisi abbondare
lo strano e il maraviglioso ad esuberanza; ma pure, in ispecie nel 4º
libro che rappresenta la Magia, dove naturalmente il nome del Della
Porta figura più volte, il Campanella comincia col fargli l'appunto
che ha trattato quella scienza «solo historicamente senza rendere
causa», e soggiunge che «lo studio d'Imperato può esser base in parte
di retrovarla»[87]. D'onde si vede che egli voleva la Magìa fondata
sulle nozioni positive della storia naturale, e dava la più grande
importanza al celebre Museo, che Ferrante Imperato teneva in sua casa,
presso l'attuale palazzo delle Poste già de' Duchi di Gravina, e che
egli avea dovuto visitare come del resto lo visitavano tutte le persone
non ignoranti che venivano a Napoli. Succede all'opera _De sensu
rerum_ il Carme Lucreziano _De Philosophia Pithagoreorum_, ispiratogli
dalla lettura di Ocello Lucano e de' detti di Platone: intorno ad esso
sappiamo che non era di poco rilievo, poichè costava di tre libri;
così difatti trovasi registrato ne' documenti sopra citati, vale a
dire negli elenchi delle opere del Campanella da lui medesimo formati
ed annessi ad alcune sue lettere e ad un memoriale al Papa. Viene
infine l'_Esordio di una Nuova Metafisica_ co' tre principii della
necessità, fato ed armonia, che riteniamo avere avuto propriamente
per titolo _De rerum universitate_; giacchè di un'opera appunto con
questo titolo vedremo fatta menzione nel documento già citato del tempo
in cui il Campanella passò a Firenze[88], e poi ancora in tutti gli
altri elenchi delle sue opere che diè fuori durante la sua prigionia
di Napoli, senza che nel _Syntagma_ apparisca mai. L'opera in Napoli
fu solamente iniziata, e però ci è sembrato doverla porre in ultimo
luogo; vedremo che nel tempo dell'andata a Firenze (1592) trovavasi
tuttora incompiuta, ed era stimata l'opera maggiore che egli avesse
tra mano; negli elenchi sopra mentovati dicesi composta di due libri,
la qual cosa non implicherebbe che fosse stata condotta a termine.
Ben si vede che il Campanella in Napoli spese gran parte del suo tempo
nel comporre opere; e vogliamo tener conto anche della notizia dataci
dal _Syntagma_, che compose «molti discorsi ed orazioni per amici
che andavano a prendere la laurea», solo per dire che realmente dal
«Liber juramentorum» rimastoci nell'Arch. di Stato si rileva essersi
dalla fine del 1589 al principio del 1591 laureati parecchi amici suoi
ed anche un suo parente. Si laurearono Fulvio Vua de Marulla, Paolo
Campanella, Gio. Paolo Carnevale, tutti di Stilo, e Ferrante Ponzio di
Nicastro, leggisti: per alcuni di costoro, fra gli altri, il Campanella
verosimilmente prestò l'opera sua, e pur troppo vedremo tutti
costoro figurare più o meno nel processo della congiura, insieme con
taluni altri come Giulio Contestabile e Tiberio Carnevale, che dalle
«Matricole» si rileva essersi trovati del pari in Napoli studenti[89].
Ci rimane a dire di un ultimo incidente avvenuto al Campanella in
Napoli, del tutto ignorato finora e frattanto importantissimo, vale
a dire un processo non lieve d'Inquisizione, che lo strappò a' suoi
ospiti ed a' suoi amici, e lo fece andare suo malgrado a Roma.
Egli frequentava il convento di S. Domenico, dove trovavasi allora lo
studio pubblico ed inoltre una biblioteca molto accreditata. Nello
studio i frati non avevano alcuna ingerenza: essi davano in fitto o
come allora dicevasi «in alloghiero», ricevendone 50 ducati l'anno, tre
sale a pian terreno su' due lati del cortile che serve di atrio alla
Chiesa, ancor'oggi visibili ma convertite in Oratorii, eccetto l'ultima
nella quale aveva già insegnato S. Tommaso: e sappiamo dal Lasena
(Dell'antico Ginnasio napoletano, Rom. 1641 pag. 3), che delle due
poste di rimpetto alla porta della Chiesa, la prima era addetta alle
letture del dritto canonico, e poi lo fu anche a quelle del greco, la
seconda era addetta alle letture del dritto civile, l'ultima posta in
fondo del cortile era addetta alle letture della filosofia e medicina,
e però dicevasi la sala degli Artisti (artium et medicinae doctorum).
A questo si limitava il «generale studio di Napoli», là trasportato
dall'antico posto delle scuole detto originariamente «lo scogliuso»
divenuto poi il monastero di Donna Romita presso la Chiesa di S.
Andrea: dell'antico posto si mantenea veramente sempre vivo il ricordo
con una processione nella vigilia del Santo, prescritta puntualmente
ogni anno per un editto del Cappellano maggiore, che ordinava e
comandava «alli magnifici lettori et studenti di l'una et l'altra
professione secondo l'antiqua et laudabile consuetudine di congregarsi
in li studii di sandomenico, et dallà partirne con devotione et
silentio processionalmente, con intorcie et candele in mano, et recto
tramite visitare la detta ecclesia de Santo Andrea et pregare Iddio per
la salute et felice stato di sua Santità come di S. M.^tà Cattolica
et extirpatione d'heretici». Alla quale consuetudine, nella stessa
circostanza, più anticamente aggiungevasi l'altra dell'uccisione di
un maiale per darne un pezzo a ciascuno delli magnifici lettori! Il
Campanella, autore di un libro di filosofia, dovè con ogni probabilità
tenersi in relazione con la maggior parte de' lettori segnatamente di
filosofia, che appunto nell'anno 1590-91 erano: 1.º il medico Gio.
Berardino Longo per la lettura della mattina, con d.^ti 300 l'anno
oltre gli straordinarii; 2.º il medico Gio. Geronimo Provenzale, che
fu poi Vescovo ed Archiatro di Clemente VIII (giacchè Napoli ed anche
le Provincie napoletane fornivano allora molto spesso gli Archiatri
Pontificii) per la lettura della sera con d.^ti 80 l'anno; 3.º il
medico Francesco Ant.º Vivolo per le posteriora et topica con d.^ti 60,
successo al Sarnese parimente medico e maestro di Giordano Bruno[90];
4.º il P.^e fra Mattia Aquario per la metafisica con d.^ti 80,
successo da poco tempo al medico Colanello Pacca. Abbiamo veduto che
il Campanella curò questo P.^e Aquario, sicchè almeno con costui ebbe
certamente stretta relazione; d'altronde doveva invogliarlo a mostrarsi
nello studio la presenza in esso de' parecchi amici suoi di Stilo, che
abbiamo avuto più sopra occasione di nominare. Ma indubitatamente,
essendo occupato a comporre le sue diverse opere, egli ebbe a
frequentare la Biblioteca di S. Domenico, e tutto mena a far ritenere
essergli là precisamente toccata quell'avventura che andiamo a narrare.
La Biblioteca trovavasi nel corridoio che guarda il gran chiostro,
presso la cella abitata già da S. Tommaso d'Aquino, dove in questo
momento risiede l'Accademia Pontaniana: vi si accedeva non solo dal
lato del cortile in cui era posto lo studio, ma anche da un ingresso
più diretto aperto verso la via di S. Sebastiano, presso il locale che
ancor'oggi è adibito ad uso di Farmacia. Entrando da questa parte e
percorrendo il lato settentrionale del gran chiostro, si passava sulle
antiche carceri del S.^to Officio, carceri del tempo in cui attendevano
al S.^to Officio i frati di S. Domenico con un Inquisitore speciale del
loro Ordine: se ne veggono ancora a fior di terra le piccole finestre,
ed esse servivano di argomento a' sostenitori di un tribunale speciale
di S.^to Officio diverso da' tribunali Diocesani, quando la città di
Napoli affermava di non averlo mai avuto. In quel gran chiostro, se
deve credersi al Poggio Bracciolini seguìto dal Gravina e dal Paramo,
nel 1447 il celebre Lorenzo Valla, condannato a morte dal S.^to Officio
e poi risparmiato nella vita, dovè fare una pubblica abiura e soffrire
niente meno che la frusta. Giungendo alla Biblioteca, nel piccolo
vestibolo innanzi alla porta di essa vedevasi e vedesi ancor'oggi
sul muro di destra una lapide, che reca tutto un Breve di Pio V, nel
quale è decretata la scomunica maggiore a coloro i quali senza licenza
del Papa o almeno del P.^e M.º Generale tolgano ed estraggano libri
«dalla Libraria seu Biblioteca»[91]. È probabilissimo che appunto
in quel posto, nell'attendere l'ora dell'apertura della Biblioteca,
leggendosi quel Breve e rilevandosi la pena della scomunica, con quel
suo modo burlesco che vedremo ancora da lui usato altre volte, il
Campanella abbia detto, «com'è questa scomunica? si mangia?» Certo è
che queste parole furono da lui profferite «parlando di extrahere libri
dalla libraria di S. Domenico sotto pena di scomunica», e nei giorni
seguenti «in S. Domenico fu preso carcerato e condotto nelle carceri di
Mons.^r Nunzio». Nel processo di eresia che fu più tardi dibattuto in
Napoli, pe' fatti del 1599, tutto ciò venne deposto da un fra Francesco
Merlino, il quale avea conosciuto il Campanella fin dal primo anno che
entrò nel sodalizio di S. Domenico in Placanica, era suo familiare, e
nel tempo al quale siamo pervenuti trovavasi studente in S. Domenico.
Egli, parlando nel 1600, disse che ciò accadde «nove anni prima»,
vale a dire nel 1591, quando il Campanella «era a Napoli in casa di
Mario del Tufo»; la stessa data trovasi poi registrata dal Card.^l di
S.^ta Severina in una sua lettera, nella quale rammenta le risultanze
del processo che ne seguì, cioè la condanna avuta dal Campanella in
Roma. Soggiunse fra Francesco che si disse la carcerazione essere
avvenuta perchè il Campanella «avea spiriti sopra», ma poi si trovò
che era stato carcerato per quelle parole profferite intorno alla
scomunica nelle circostanze suddette; ed interrogato affermò di avere
udito che il Campanella aveva avuto pratica con un certo Abramo, e
che molti volevano che quanto sapeva lo sapeva non per suo studio ma
per arte diabolica, io però, egli disse, «non credo questo, perchè ho
conosciuto che ha bello ingegno ed ha studiato assai». Abbiamo voluto
specificatamente riportare tutte queste circostanze, per mostrare
che il fatto non venne deposto da qualcuno poco bene affetto verso il
Campanella.
Vi fu dunque un processo, primo per tempo, motivato dall'avere emesso
proposizioni ereticali in dispregio della scomunica e dal possedere
spiriti familiari: la prima accusa, molto grave, fu sempre taciuta
dal Campanella; invece la seconda, piuttosto ridevole ma non già a
que' tempi, fu da lui ricordata in parecchie occasioni, e una volta
anche con la circostanza che per essa venne «citatus in judicium»[92].
Questa circostanza della chiamata in giudizio è rimasta poco avvertita
da' suoi biografi, i quali hanno ritenuto che l'accusa, limitata al
possedere spiriti, fosse rimasta vaga, non propriamente articolata
con un processo in piena regola. Del resto il Campanella medesimo
ricinse di nubi questo suo processo e ne fece perdere le tracce: basta
infatti ricordare le parole del _Syntagma_, «Nell'anno 1592 (e qui
o la memoria non l'assiste bene, o più veramente egli ebbe premura
di saltare sull'infausto 1591) me n'andai a Roma fuggendo gli emuli
accusatori che dicevano, come sa di lettere costui mentre non le ha mai
imparate?» Vedremo che pure in sèguito, perfino co' suoi amici intimi,
quando veniva interrogato su' travagli patiti dal S.^to Officio, egli
avea cura di confondere questo processo con un altro fattogli più
tardi e finito con un'assolutoria, negando addirittura di avere avuta
una condanna, mentre si sapeva che era stato condannato una volta
all'abiura. — Un denso velo fu sempre disteso su questo processo. Alla
carcerazione avvenuta entro il convento di S. Domenico deve riferirsi
senza dubbio ciò che scrisse l'Agente di Toscana in Napoli Giulio
Battaglino in quella lettera del 1599 trovata e pubblicata da Francesco
Palermo, là dove lo disse «ricoverato da una furia di birri, eccitatili
contra per conto che avea scritto in difesa del Tilesio»[93]; e vedremo
più in là un'altra lettera dello stesso Battaglino da noi trovata,
più vicina al tempo di cui qui trattiamo, dove lo disse chiaramente
carcerato per causa di religione, menzionando la sola accusa
«facilmente superata» dell'avere spiriti familiari, e mostrandosi male
informato dello svolgimento vero del processo[94]. La qual cosa non
deve far maraviglia. Secondo lo stile de' processi ecclesiastici in
materia di fede, guardavasi il più rigoroso silenzio su tutto, ed anche
a ciascun testimone era ingiunto il silenzio su quanto avea deposto,
sebbene poi il testimone non sempre badasse a mantenerlo: d'altra
parte la semplice carcerazione per causa di fede rendeva il carcerato
_notatus infamia_, e però gli amici suoi aveano premura di attenuare
o di nascondere il vero. Ma nel convento di S. Domenico, se dapprima
si parlò dell'accusa di «avere spiriti sopra», ciò che mostra tale
opinione molto diffusa, più tardi, verosimilmente per le rivelazioni
di qualche testimone chiamato a deporre, si giunse a conoscere un po'
meglio ogni cosa e si ebbe cura di tenerla celata. Forse fra Serafino
da Nocera cominciò dal rendere questo primo servigio al Campanella;
forse anche il Battaglino medesimo, in tale circostanza, volle esser
pietoso verso il povero filosofo.
Nulla possiamo dire de' particolari di questo processo. Anche pel fatto
dell'avere spiriti, si deve ritenere fino a un certo punto ciò che
il Campanella scrisse poi allo Scioppio, che cioè si era discolpato
rispondendo aver lui consumato olio più che gli accusatori vino etc.
etc.; potè questa essere la sostanza, non la forma della sua risposta.
Ma se non conosciamo i particolari del processo, ne conosciamo tuttavia
la specie, la sede ed anche l'esito, le imputazioni fatte, il tribunale
che giudicò, la condanna che ne seguì; e ciò può bastare alla nostra
narrazione. Gioverà intanto dir qualche cosa del tribunale, della
Corte, delle carceri del Nunzio, della maniera di condurvi i processi
e di trattare i carcerati, secondo le notizie raccolte da qualche
processo che abbiamo potuto vedere, e specialmente dal Carteggio del
Nunzio Aldobrandini, che abbiamo avuto cura di percorrere in tutti
i suoi molti volumi esistenti nell'Arch. di Firenze. Queste notizie
serviranno a chiarire le cose del Campanella tanto nel processo attuale
quanto ne' processi posteriori, e non poche circostanze di diversi
travagli da lui patiti; nè si credano un lusso di erudizione, mentre
invece il non averle rilevate ha fatto cadere i biografi del Campanella
in diverse e non lievi inesattezze. Alla giurisdizione propriamente del
Nunzio appartenevano i processi di qualche importanza contro i frati;
ma in materia di fede non mancavano di occuparsene ancora, quando
glie ne capitava l'occasione, da una parte il Vicario Arcivescovile
che menava innanzi il servizio del tribunale Diocesano, e d'altra
parte il Commissario della S.^ta Inquisizione universale, che Roma
universale; il Principe di Stigliano, Vincenzo Luigi Carafa, che lo
stimava e lo ricercava sempre, onorandolo pure con molti donativi,
conservava nella sua Biblioteca un grosso volume delle natività da lui
scritte. Del rimanente era uomo modestissimo quanto religiosissimo,
e motteggiava suo fratello Gio. Battista, perchè era così facile a
comporre libri e a stamparli. Egli scrisse sulle antichità di Pozzuoli
e vicinanze, e si vuole che di questo scritto si sia servito Scipione
Mazzella nella composizione del libro suo: scrisse pure _Commentarii_
sopra l'Almagesto e il Quadripartito di Tolomeo che non si sa qual
sorte abbiano avuta, un libro _De emendatione temporum_ che essendosi
trovato conforme a quanto avea detto lo Scaligero fu da lui disfatto,
un altro libro della _Emendazione del Calendario_ che non fu finito
in tempo per essere inviato a Roma e quindi fu condannato alla stessa
sorte. Morì nel 1606. — È del tutto verosimile che il Campanella abbia
frequentato le conversazioni di Gio. Vincenzo, non meno che quelle di
Gio. Battista, e con Gio. Vincenzo siasi più direttamente inteso circa
l'astrologia pratica, le predizioni, le compilazioni delle genesi e
natività allora tanto ricercate, e tanto dal Campanella amate. Oramai
le lettere sue scoperte dal Berti ci hanno insegnato che perfino
nel carcere di Napoli, e poi in quello del S.^to Officio di Roma, il
Campanella siasi occupato di genesi e natività, e i documenti da noi
scoperti mostreranno che ne era richiesto perfino nel periodo della
sua pazzia; nè sarà mai approfondito abbastanza siffatto suo gusto, che
fu tanta cagione delle sue sventure. Forse anche presso Gio. Vincenzo
egli conobbe il Marthos Gorostiola, dal quale poi affermò essere stato
eccitato a scrivere intorno alla Monarchia spagnuola, come pure Gio.
Paolo Vernalione, col quale vedremo che conferì poco prima del tempo
della congiura.
Quanto a Gio. Battista Della Porta, tutti sanno che egli si spinse
assai più in alto. Studiò presso Gio. Antonio Pisano medico e filosofo
riputatissimo, e gli si mostrò grato dedicando una delle sue opere
al figliuolo di lui: fu ricercatore infaticabile, e all'amore per le
buone lettere e per la drammaturgia unì la cultura della matematica,
della fisica, dell'alchimia, di tutte le scienze naturali; fu
anche vaghissimo della medicina, ed amante oltremodo della magia,
dell'astrologia, delle scienze divinatorie in genere, ma combattendo
la magia demoniaca e fondando la così detta da lui magia naturale[78].
Tutti sanno che per lo meno contribuì potentemente all'invenzione
del cannocchiale e della camera oscura, notando anche varii fenomeni
fisici di alta importanza, che investigò e raccolse da ogni lato,
percorrendo anche tutta l'Italia, la Francia, la Spagna, ma sempre
con una tendenza verso il maraviglioso e lo strano, che veramente fa
gran torto a lui e gran pena a chi si fa a leggere i suoi numerosi
libri. Eppure è indubitato che precisamente per questo richiamò sulla
persona sua l'attenzione e la stima universale de' contemporanei,
rimanendone pregiudicata quella de' posteri. Così il Card.^l Luigi
d'Este lo volle presso di sè per qualche tempo; il Gran Duca di Toscana
gli mandò il suo medico Punta per averne secreti; il Duca di Mantova
Vincenzo Gonzaga si trattenne un pezzo in Napoli e ne frequentò sempre
la casa; infine Rodolfo II Imperatore (nel 1604) gli scrisse e gli
mandò il suo cappellano Cristiano Harmio per sollecitarlo che gli
spedisse qualche suo discepolo pratico dell'arte. Ed egli allora, dopo
di avere pubblicate tante opere ed avendone pure altre fra mano, si
decise ancora a scrivere quel libro della Taumatologia etc. rimasto
incompiuto e inedito, ora esistente in Montpellier, nel quale, in
grazia certamente dell'Imperatore, diè prova di una grande smania
pe' segreti comunque mostruosi, mentre già da molti anni se ne era
abbastanza corretto. Ci asteniamo dal parlare delle sue opere, della
sua Accademia de' Segreti, della sua partecipazione all'Accademia
de' Lincei di Roma. Appena menzioneremo che egli ebbe un processo di
S.^to Ufficio, procuratogli certamente dall'astrologia giudiziaria
ed esercizio de' pronostici: un documento autentico capitato nelle
nostre mani ci rivela essere state fatte per lui le «ripetizioni» de'
testimoni avanti il 1580, reggendo il S.^to Officio in Napoli Mons.^r
Carlo Baldini Arcivescovo di Sorrento, e trovandosi Maestro d'atti
Francesco Joele; il processo quindi è di data diversa dalla proibizione
di stampare, che gli venne inflitta nel 1592, che durò fino al 1598, ma
che pure impedì consecutivamente la pubblicazione della Taumatologia e
della Chiromanzia[79].
Il Campanella, giovane ed infiammato scrittore di una nuova filosofia
che accennava ad essere sperimentale, oltracciò venuto da Calabria con
la mente già eccitata verso la magia e le arti divinatorie, non poteva
non frequentare la casa de' Della Porta e non avervi lieta accoglienza.
Verosimilmente le arti divinatorie e i pronostici furono il soggetto
di molte conversazioni, trovandosi il Campanella sotto l'impressione
dell'altissimo pronostico fattogli dall'Ebreo; ma a noi è pervenuto
solamente il ricordo della conversazione (non disputa pubblica)
avuta con Gio. Battista intorno al non potersi dar ragione della
simpatia ed antipatia delle cose, come Gio. Battista aveva scritto
nella Fisognomia, «mentre esaminavano insieme il libro già stampato»,
la quale conversazione, oltre a una disputa pubblica avuta altrove
precedentemente, diede occasione al Campanella di scrivere l'opera _De
sensu rerum_; in quest'opera c'è talvolta il ricordo di qualche altro
discorso passato tra lui e Gio. Battista, come p. es. a proposito delle
formazioni dendritiche dell'argento[80]. Ebbe inoltre il Campanella
a profittare egli pure de' consigli e de' rimedii, che Gio. Battista
dispensava ed amministrava personalmente a coloro i quali andavano
a consultarlo; ne diremo or ora qualche cosa. Presso i Della Porta
anche dovè conoscere Giulio Cortese, Colantonio Stigliola, Gio. Paolo
Vernalione. Sicuramente conobbe il Cortese in questa sua prima venuta
in Napoli, poichè lo vedremo da lui posto come interlocutore nel suo
_Dialogo contro i Luterani_ che scrisse in Roma nel 1595; ma lo vedremo
del pari citato insieme allo Stigliola e al Vernalione a proposito
di un discorso passato tra loro intorno alla vicina fine del mondo,
allorchè tornò per la prima volta in Napoli poco avanti la congiura;
avremo quindi campo di parlare di tutti costoro a tempo e luogo più
opportuni.
Dicemmo che il Campanella ebbe a profittare de' consigli e rimedii
di Gio. Battista Della Porta. Egli medesimo infatti, nella sua opera
_Medicinalium_, ci lasciò scritto che guarì subito da una infiammazione
di occhio mediante un collirio meraviglioso che il Della Porta usava,
e che gl'instillò con le sue mani in presenza di molte persone.
Veramente potè forse questo accadere nella sua seconda venuta in
Napoli; ma senza dubbio nella sua prima venuta gli accadde di soffrire
una doppia sciatica, che lo tenne per più mesi a letto «essendo
giovane di 23 anni», come ci lasciò scritto nella medesima opera; la
quale notizia della sua età non deve indurre in un errore di data,
riferendo la cosa all'anno 1591 anzichè all'anno 1590, perchè avremo
altre volte occasione di vedere essere stato il Campanella solito
di fare i suoi còmputi calcolando anche la cifra dell'anno da cui il
còmputo cominciava. Egli intraprese la cura de' bagni e delle stufe di
Pozzuoli e di Agnano, naturalmente nell'està del 1590, e se ne trovò
bene; ma la malattia non l'abbandonò del tutto che due anni dopo,
succedendole una terzana. E deve essere notata la cagione che assegnò
alla comparsa della malattia, alla sua durata, al suo miglioramento:
aveva fatta, egli scrisse, una lunga e forte cavalcata, beveva col
ghiaccio e desinava lautamente presso un nobile uomo; cessate tutte
queste comodità, dimagrato nelle successive peregrinazioni, si avviò
a guarire. Da ciò si vede l'ottimo trattamento che godeva presso Mario
del Tufo, e la ben diversa vita che ebbe a menare in sèguito[81]. — Ma
egli pure, quantunque si riconoscesse «poco erudito ne' medicinali»,
curò dal letargo il P.^e M.º Mattia Aquario, e tale cura deve riferirsi
egualmente al tempo della sua prima venuta in Napoli. Abbiamo infatti
rinvenuto nell'Arch. di Stato, che questo Mattia Aquario, Domenicano,
era pubblico lettore di Metafisica, successo a Colanello Pacca il 12
marzo 1588, e morì poi nel 1592, succedendogli il 20 giugno di detto
anno D. Jacobo Marotta[82]. Da ciò già si rileva che il Campanella non
mancava di frequentare il convento di S. Domenico, e ne avremo ancora
altre prove in sèguito. Naturalmente ebbe così occasione di conoscere
il P.^e Fra Serafino da Nocera (Serafino Rinaldi), il quale era
allora, o fu poco dopo, Reggente lo studio de' frati di quel convento
e divenne grande amico del Campanella, suo instancabile fautore negli
anni delle sventure. Entrato in Religione nel 1586, già vi godeva
moltissima stima, e al tempo de' tumulti de' frati di S. Domenico,
benchè si fosse tenuto lontano ritirandosi fra' Certosini nel convento
di S. Martino, fu ritenuto dal Nunzio qual promotore principale della
ribellione; fu quindi per ordine di lui carcerato più tardi, e tenuto
sotto processo per parecchi anni: ma giunto a liberarsi, divenne
presto superiore di S. Domenico, in sèguito anche Provinciale, non
che lettore di S. Tommaso nello studio pubblico, e infine chiuse la
sua carriera coll'Episcopato. Vedremo a tempo e luogo i beneficii
grandissimi e l'assistenza paterna che quest'uomo benemerito prodigò al
Campanella[83].
Dobbiamo ora dir qualche cosa delle opere composte dal Campanella
durante la sua permanenza in Napoli, e gioverà anzi cominciare ad
occuparci del Catalogo delle sue opere: bisogna una volta sforzarsi di
avere questo catalogo nelle migliori condizioni possibili, quantunque
esso riesca malagevole a farsi perchè tra le sventure sofferte
dall'autore diverse sue opere furono composte e ricomposte anche
con diversi titoli successivamente; è indispensabile conoscere con
esattezza tra quali circostanze ciascun'opera fu composta o ricomposta,
mentre le fortunose circostanze della vita dell'autore doverono
certamente influire di molto sopra le idee in esse sviluppate. Senza
curarci delle cose minori, delle versificazioni dell'adolescenza, de'
sunti delle lezioni compilati su' banchi della scuola etc. abbiamo
finquì per ordine di data le opere seguenti. In primo luogo il trattato
_De investigatione rerum_: esso fu composto certamente prima della
Filosofia, come appunto si rileva dalla prefazione di quest'opera,
fonte incomparabilmente preferibile a quello del _Syntagma_, che fu
redatto quarant'anni dopo e in modo tale da dover offrire di necessità
molte inesattezze; si può tutt'al più dire che in Napoli vi fu posta
l'ultima mano. Con ogni probabilità il trattato fu scritto in Nicastro,
dove il Campanella si emancipò totalmente dalle dottrine Aristoteliche,
il 1586-87, prima dell'andata a Cosenza, dove egli rimase ben poco
tempo per avere agio di scriverlo[84]. Esso costava di due libri, come
risulta da varii documenti[85]; risulta poi dal _Syntagma_ che vi si
contemplavano nove generi di cose sensibili, con le quali si poteva
giungere a ragionare e vi si dimostrava la definizione esser fine
non principio di scienza. Vedremo più in là come e dove andò perduto
insieme ad altri trattati, e dove si dovrebbe ancora trovare. Segue la
_Philosophia sensibus demonstrata_, composta in Altomonte in 7 mesi,
dal 1º gennaio all'agosto 1589, stampata in Napoli durante il 1590,
pubblicata il 1591, dedicata a Mario del Tufo, il quale sostenne forse
le spese della stampa, come traspare dalla dedica. I molti errori
tipografici incorsi «propter absentiam auctoris» e in parte corretti
nell'ultima pagina dell'opera, si spiegano con la malattia sofferta e
con l'andata a Pozzuoli ed Agnano. Segue l'opera _De sensitiva rerum
facultate_, o _De sensu rerum_, composta dopo la disputa pubblica e
la conversazione col Porta già dette. Essa era già composta quando
si stampava la prefazione della Filosofia, come si legge appunto in
termine di questa prefazione; può dirsi quindi scritta nell'inverno
del 1590. E fu scritta in latino, come risulta da ciò che se ne dice
nell'opera stessa rifatta più tardi in italiano e successivamente
tradotta, dopochè andò perduta insieme col trattato «De investigatione»
e con altre opere[86]. Verosimilmente ebbe dapprima per titolo «De
sensitiva rerum facultate», e così la troveremo difatti ancora nominata
in un documento del tempo in cui l'autore passò a Firenze; ma ben
presto egli dovè nella sua mente sostituirgli il titolo «De sensu
rerum» che adottò in sèguito, e così difatti si trova già annunziata
nella prefazione della Filosofia. Vedremo come e dove l'autore l'abbia
rifatta, e metteremo in vista parecchie cose appartenenti agli anni
posteriori a quelli de' quali ci stiamo occupando: ma si sa che il
Campanella aveva una memoria tale, da essere in grado di tornare a
scrivere un'opera perduta, anche dopo varii anni, pressochè con le
medesime parole con le quali l'aveva dapprima scritta; c'imbatteremo
poi in qualche esempio notevole del suo sistema di serbare fedelmente
le cose come già stavano quando ebbe a rivedere e compiere qualche
sua opera, e generalmente anche quando ebbe a tradurla dall'italiano
in latino per darla alle stampe. Non dubitiamo quindi di affermare
che questa prima composizione dell'opera _De sensu rerum_ sia stata
essenzialmente quella medesima che oggi possediamo ricomposta. E
dobbiamo notare che l'influenza del Della Porta riesce evidente in
essa anche così ricomposta come ci è pervenuta, vedendovisi abbondare
lo strano e il maraviglioso ad esuberanza; ma pure, in ispecie nel 4º
libro che rappresenta la Magia, dove naturalmente il nome del Della
Porta figura più volte, il Campanella comincia col fargli l'appunto
che ha trattato quella scienza «solo historicamente senza rendere
causa», e soggiunge che «lo studio d'Imperato può esser base in parte
di retrovarla»[87]. D'onde si vede che egli voleva la Magìa fondata
sulle nozioni positive della storia naturale, e dava la più grande
importanza al celebre Museo, che Ferrante Imperato teneva in sua casa,
presso l'attuale palazzo delle Poste già de' Duchi di Gravina, e che
egli avea dovuto visitare come del resto lo visitavano tutte le persone
non ignoranti che venivano a Napoli. Succede all'opera _De sensu
rerum_ il Carme Lucreziano _De Philosophia Pithagoreorum_, ispiratogli
dalla lettura di Ocello Lucano e de' detti di Platone: intorno ad esso
sappiamo che non era di poco rilievo, poichè costava di tre libri;
così difatti trovasi registrato ne' documenti sopra citati, vale a
dire negli elenchi delle opere del Campanella da lui medesimo formati
ed annessi ad alcune sue lettere e ad un memoriale al Papa. Viene
infine l'_Esordio di una Nuova Metafisica_ co' tre principii della
necessità, fato ed armonia, che riteniamo avere avuto propriamente
per titolo _De rerum universitate_; giacchè di un'opera appunto con
questo titolo vedremo fatta menzione nel documento già citato del tempo
in cui il Campanella passò a Firenze[88], e poi ancora in tutti gli
altri elenchi delle sue opere che diè fuori durante la sua prigionia
di Napoli, senza che nel _Syntagma_ apparisca mai. L'opera in Napoli
fu solamente iniziata, e però ci è sembrato doverla porre in ultimo
luogo; vedremo che nel tempo dell'andata a Firenze (1592) trovavasi
tuttora incompiuta, ed era stimata l'opera maggiore che egli avesse
tra mano; negli elenchi sopra mentovati dicesi composta di due libri,
la qual cosa non implicherebbe che fosse stata condotta a termine.
Ben si vede che il Campanella in Napoli spese gran parte del suo tempo
nel comporre opere; e vogliamo tener conto anche della notizia dataci
dal _Syntagma_, che compose «molti discorsi ed orazioni per amici
che andavano a prendere la laurea», solo per dire che realmente dal
«Liber juramentorum» rimastoci nell'Arch. di Stato si rileva essersi
dalla fine del 1589 al principio del 1591 laureati parecchi amici suoi
ed anche un suo parente. Si laurearono Fulvio Vua de Marulla, Paolo
Campanella, Gio. Paolo Carnevale, tutti di Stilo, e Ferrante Ponzio di
Nicastro, leggisti: per alcuni di costoro, fra gli altri, il Campanella
verosimilmente prestò l'opera sua, e pur troppo vedremo tutti
costoro figurare più o meno nel processo della congiura, insieme con
taluni altri come Giulio Contestabile e Tiberio Carnevale, che dalle
«Matricole» si rileva essersi trovati del pari in Napoli studenti[89].
Ci rimane a dire di un ultimo incidente avvenuto al Campanella in
Napoli, del tutto ignorato finora e frattanto importantissimo, vale
a dire un processo non lieve d'Inquisizione, che lo strappò a' suoi
ospiti ed a' suoi amici, e lo fece andare suo malgrado a Roma.
Egli frequentava il convento di S. Domenico, dove trovavasi allora lo
studio pubblico ed inoltre una biblioteca molto accreditata. Nello
studio i frati non avevano alcuna ingerenza: essi davano in fitto o
come allora dicevasi «in alloghiero», ricevendone 50 ducati l'anno, tre
sale a pian terreno su' due lati del cortile che serve di atrio alla
Chiesa, ancor'oggi visibili ma convertite in Oratorii, eccetto l'ultima
nella quale aveva già insegnato S. Tommaso: e sappiamo dal Lasena
(Dell'antico Ginnasio napoletano, Rom. 1641 pag. 3), che delle due
poste di rimpetto alla porta della Chiesa, la prima era addetta alle
letture del dritto canonico, e poi lo fu anche a quelle del greco, la
seconda era addetta alle letture del dritto civile, l'ultima posta in
fondo del cortile era addetta alle letture della filosofia e medicina,
e però dicevasi la sala degli Artisti (artium et medicinae doctorum).
A questo si limitava il «generale studio di Napoli», là trasportato
dall'antico posto delle scuole detto originariamente «lo scogliuso»
divenuto poi il monastero di Donna Romita presso la Chiesa di S.
Andrea: dell'antico posto si mantenea veramente sempre vivo il ricordo
con una processione nella vigilia del Santo, prescritta puntualmente
ogni anno per un editto del Cappellano maggiore, che ordinava e
comandava «alli magnifici lettori et studenti di l'una et l'altra
professione secondo l'antiqua et laudabile consuetudine di congregarsi
in li studii di sandomenico, et dallà partirne con devotione et
silentio processionalmente, con intorcie et candele in mano, et recto
tramite visitare la detta ecclesia de Santo Andrea et pregare Iddio per
la salute et felice stato di sua Santità come di S. M.^tà Cattolica
et extirpatione d'heretici». Alla quale consuetudine, nella stessa
circostanza, più anticamente aggiungevasi l'altra dell'uccisione di
un maiale per darne un pezzo a ciascuno delli magnifici lettori! Il
Campanella, autore di un libro di filosofia, dovè con ogni probabilità
tenersi in relazione con la maggior parte de' lettori segnatamente di
filosofia, che appunto nell'anno 1590-91 erano: 1.º il medico Gio.
Berardino Longo per la lettura della mattina, con d.^ti 300 l'anno
oltre gli straordinarii; 2.º il medico Gio. Geronimo Provenzale, che
fu poi Vescovo ed Archiatro di Clemente VIII (giacchè Napoli ed anche
le Provincie napoletane fornivano allora molto spesso gli Archiatri
Pontificii) per la lettura della sera con d.^ti 80 l'anno; 3.º il
medico Francesco Ant.º Vivolo per le posteriora et topica con d.^ti 60,
successo al Sarnese parimente medico e maestro di Giordano Bruno[90];
4.º il P.^e fra Mattia Aquario per la metafisica con d.^ti 80,
successo da poco tempo al medico Colanello Pacca. Abbiamo veduto che
il Campanella curò questo P.^e Aquario, sicchè almeno con costui ebbe
certamente stretta relazione; d'altronde doveva invogliarlo a mostrarsi
nello studio la presenza in esso de' parecchi amici suoi di Stilo, che
abbiamo avuto più sopra occasione di nominare. Ma indubitatamente,
essendo occupato a comporre le sue diverse opere, egli ebbe a
frequentare la Biblioteca di S. Domenico, e tutto mena a far ritenere
essergli là precisamente toccata quell'avventura che andiamo a narrare.
La Biblioteca trovavasi nel corridoio che guarda il gran chiostro,
presso la cella abitata già da S. Tommaso d'Aquino, dove in questo
momento risiede l'Accademia Pontaniana: vi si accedeva non solo dal
lato del cortile in cui era posto lo studio, ma anche da un ingresso
più diretto aperto verso la via di S. Sebastiano, presso il locale che
ancor'oggi è adibito ad uso di Farmacia. Entrando da questa parte e
percorrendo il lato settentrionale del gran chiostro, si passava sulle
antiche carceri del S.^to Officio, carceri del tempo in cui attendevano
al S.^to Officio i frati di S. Domenico con un Inquisitore speciale del
loro Ordine: se ne veggono ancora a fior di terra le piccole finestre,
ed esse servivano di argomento a' sostenitori di un tribunale speciale
di S.^to Officio diverso da' tribunali Diocesani, quando la città di
Napoli affermava di non averlo mai avuto. In quel gran chiostro, se
deve credersi al Poggio Bracciolini seguìto dal Gravina e dal Paramo,
nel 1447 il celebre Lorenzo Valla, condannato a morte dal S.^to Officio
e poi risparmiato nella vita, dovè fare una pubblica abiura e soffrire
niente meno che la frusta. Giungendo alla Biblioteca, nel piccolo
vestibolo innanzi alla porta di essa vedevasi e vedesi ancor'oggi
sul muro di destra una lapide, che reca tutto un Breve di Pio V, nel
quale è decretata la scomunica maggiore a coloro i quali senza licenza
del Papa o almeno del P.^e M.º Generale tolgano ed estraggano libri
«dalla Libraria seu Biblioteca»[91]. È probabilissimo che appunto
in quel posto, nell'attendere l'ora dell'apertura della Biblioteca,
leggendosi quel Breve e rilevandosi la pena della scomunica, con quel
suo modo burlesco che vedremo ancora da lui usato altre volte, il
Campanella abbia detto, «com'è questa scomunica? si mangia?» Certo è
che queste parole furono da lui profferite «parlando di extrahere libri
dalla libraria di S. Domenico sotto pena di scomunica», e nei giorni
seguenti «in S. Domenico fu preso carcerato e condotto nelle carceri di
Mons.^r Nunzio». Nel processo di eresia che fu più tardi dibattuto in
Napoli, pe' fatti del 1599, tutto ciò venne deposto da un fra Francesco
Merlino, il quale avea conosciuto il Campanella fin dal primo anno che
entrò nel sodalizio di S. Domenico in Placanica, era suo familiare, e
nel tempo al quale siamo pervenuti trovavasi studente in S. Domenico.
Egli, parlando nel 1600, disse che ciò accadde «nove anni prima»,
vale a dire nel 1591, quando il Campanella «era a Napoli in casa di
Mario del Tufo»; la stessa data trovasi poi registrata dal Card.^l di
S.^ta Severina in una sua lettera, nella quale rammenta le risultanze
del processo che ne seguì, cioè la condanna avuta dal Campanella in
Roma. Soggiunse fra Francesco che si disse la carcerazione essere
avvenuta perchè il Campanella «avea spiriti sopra», ma poi si trovò
che era stato carcerato per quelle parole profferite intorno alla
scomunica nelle circostanze suddette; ed interrogato affermò di avere
udito che il Campanella aveva avuto pratica con un certo Abramo, e
che molti volevano che quanto sapeva lo sapeva non per suo studio ma
per arte diabolica, io però, egli disse, «non credo questo, perchè ho
conosciuto che ha bello ingegno ed ha studiato assai». Abbiamo voluto
specificatamente riportare tutte queste circostanze, per mostrare
che il fatto non venne deposto da qualcuno poco bene affetto verso il
Campanella.
Vi fu dunque un processo, primo per tempo, motivato dall'avere emesso
proposizioni ereticali in dispregio della scomunica e dal possedere
spiriti familiari: la prima accusa, molto grave, fu sempre taciuta
dal Campanella; invece la seconda, piuttosto ridevole ma non già a
que' tempi, fu da lui ricordata in parecchie occasioni, e una volta
anche con la circostanza che per essa venne «citatus in judicium»[92].
Questa circostanza della chiamata in giudizio è rimasta poco avvertita
da' suoi biografi, i quali hanno ritenuto che l'accusa, limitata al
possedere spiriti, fosse rimasta vaga, non propriamente articolata
con un processo in piena regola. Del resto il Campanella medesimo
ricinse di nubi questo suo processo e ne fece perdere le tracce: basta
infatti ricordare le parole del _Syntagma_, «Nell'anno 1592 (e qui
o la memoria non l'assiste bene, o più veramente egli ebbe premura
di saltare sull'infausto 1591) me n'andai a Roma fuggendo gli emuli
accusatori che dicevano, come sa di lettere costui mentre non le ha mai
imparate?» Vedremo che pure in sèguito, perfino co' suoi amici intimi,
quando veniva interrogato su' travagli patiti dal S.^to Officio, egli
avea cura di confondere questo processo con un altro fattogli più
tardi e finito con un'assolutoria, negando addirittura di avere avuta
una condanna, mentre si sapeva che era stato condannato una volta
all'abiura. — Un denso velo fu sempre disteso su questo processo. Alla
carcerazione avvenuta entro il convento di S. Domenico deve riferirsi
senza dubbio ciò che scrisse l'Agente di Toscana in Napoli Giulio
Battaglino in quella lettera del 1599 trovata e pubblicata da Francesco
Palermo, là dove lo disse «ricoverato da una furia di birri, eccitatili
contra per conto che avea scritto in difesa del Tilesio»[93]; e vedremo
più in là un'altra lettera dello stesso Battaglino da noi trovata,
più vicina al tempo di cui qui trattiamo, dove lo disse chiaramente
carcerato per causa di religione, menzionando la sola accusa
«facilmente superata» dell'avere spiriti familiari, e mostrandosi male
informato dello svolgimento vero del processo[94]. La qual cosa non
deve far maraviglia. Secondo lo stile de' processi ecclesiastici in
materia di fede, guardavasi il più rigoroso silenzio su tutto, ed anche
a ciascun testimone era ingiunto il silenzio su quanto avea deposto,
sebbene poi il testimone non sempre badasse a mantenerlo: d'altra
parte la semplice carcerazione per causa di fede rendeva il carcerato
_notatus infamia_, e però gli amici suoi aveano premura di attenuare
o di nascondere il vero. Ma nel convento di S. Domenico, se dapprima
si parlò dell'accusa di «avere spiriti sopra», ciò che mostra tale
opinione molto diffusa, più tardi, verosimilmente per le rivelazioni
di qualche testimone chiamato a deporre, si giunse a conoscere un po'
meglio ogni cosa e si ebbe cura di tenerla celata. Forse fra Serafino
da Nocera cominciò dal rendere questo primo servigio al Campanella;
forse anche il Battaglino medesimo, in tale circostanza, volle esser
pietoso verso il povero filosofo.
Nulla possiamo dire de' particolari di questo processo. Anche pel fatto
dell'avere spiriti, si deve ritenere fino a un certo punto ciò che
il Campanella scrisse poi allo Scioppio, che cioè si era discolpato
rispondendo aver lui consumato olio più che gli accusatori vino etc.
etc.; potè questa essere la sostanza, non la forma della sua risposta.
Ma se non conosciamo i particolari del processo, ne conosciamo tuttavia
la specie, la sede ed anche l'esito, le imputazioni fatte, il tribunale
che giudicò, la condanna che ne seguì; e ciò può bastare alla nostra
narrazione. Gioverà intanto dir qualche cosa del tribunale, della
Corte, delle carceri del Nunzio, della maniera di condurvi i processi
e di trattare i carcerati, secondo le notizie raccolte da qualche
processo che abbiamo potuto vedere, e specialmente dal Carteggio del
Nunzio Aldobrandini, che abbiamo avuto cura di percorrere in tutti
i suoi molti volumi esistenti nell'Arch. di Firenze. Queste notizie
serviranno a chiarire le cose del Campanella tanto nel processo attuale
quanto ne' processi posteriori, e non poche circostanze di diversi
travagli da lui patiti; nè si credano un lusso di erudizione, mentre
invece il non averle rilevate ha fatto cadere i biografi del Campanella
in diverse e non lievi inesattezze. Alla giurisdizione propriamente del
Nunzio appartenevano i processi di qualche importanza contro i frati;
ma in materia di fede non mancavano di occuparsene ancora, quando
glie ne capitava l'occasione, da una parte il Vicario Arcivescovile
che menava innanzi il servizio del tribunale Diocesano, e d'altra
parte il Commissario della S.^ta Inquisizione universale, che Roma
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