Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 10

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di eresia, ma non poteva non tenerne conto: con ogni probabilità si
preoccupava anche di qualche altra possibile eresia nelle opere che il
Campanella intendeva di stampare, e quindi vedeva indispensabile farle
esaminare scrupolosamente. Possiamo con ciò spiegarci pure molto bene
quanto accadeva in sèguito.
Come abbiamo detto, andando a Padova il Campanella si fermò in Bologna:
non sappiamo quanto tempo vi sia rimasto, ma verosimilmente vi rimase
ben poco, ed ecco ciò che nel _Syntagma_ si legge essergli avvenuto.
«Mentre stava in Bologna mi furono portati via di soppiatto tutti i
sopradetti libri e certe Poesie latine non dispregevoli, come pure
il primo libro della Fisiologia composto di dispute contro tutte le
sette, al quale doveano far sèguito altri 19 libri già meditati». E
più oltre: «di poi tutti i libri perduti in Bologna li trovai (a Roma)
nel S.^to Offizio, ove interrogato li difesi, nè pertanto li richiesi,
essendo sul punto di rifarli migliori». Ecco una prima perdita completa
delle opere sin allora scritte dal Campanella, all'infuori della
_Philosophia sensibus demonstrata_ già data alle stampe, e rifacendone
l'elenco abbiamo: 1º l'opera _De investigatione rerum_; 2º quella
_De sensitiva rerum facultate_ o _De sensu rerum_; 3º il Carme _De
Philosophia Pithagoreorum_; 4º il Carme _De Philosophia Empedoclis_;
5º il trattato _De insomniis_; 6º il trattato _De Sphera Aristarchi_;
7º i due primi libri _De rerum universitate_ o _De Metaphysica_; 8º
il primo libro della _Physiologia_, come il Campanella si compiacque
denominare la Filosofia naturale. Facciamo avvertire che quando il
Campanella ricompose l'opera _De sensu rerum_, definì un furto la
perdita di questa sua opera con le altre, e l'attribuì a «falsi frati»;
notiamo inoltre che potrebbero un giorno tutte queste opere tornare
alla luce del sole, poichè dovrebbero tuttora trovarsi nell'Archivio
del S.^to Officio, e sarebbe ad ogni modo curioso il vedere se e quali
modificazioni successive di sostanza sieno state dall'autore introdotte
nell'opera che ebbe speciale premura di ricomporre, vogliamo dire
nell'opera _De sensu rerum_. — Non è difficile frattanto interpetrare
come abbiano dovuto veramente passare le cose in Bologna. Mettendo
il fatto in riscontro con la lettera del P.^e Generale al Gran Duca,
sembra ben chiaro questo, che il P.^e Generale si attendeva dal
Campanella l'invio de' manoscritti per la revisione, la quale egli
non poteva ignorare esser necessaria; il Campanella non se ne dovè
curare, e il P.^e Generale, nell'impegno di compiacere il Gran Duca con
la maggior sollecitudine, comandò che i manoscritti fossero presi ed
inviati immediatamente al S.^to Officio. Vedremo pure che il Campanella
trovò poi il P.^e Generale in Padova nel suo arrivo in quella città,
mentre la lettera di lui al Gran Duca fu spedita da Milano: si
potrebbe quindi affermare che il P.^e Generale medesimo sia andato a
Padova per affrettare la presa de' manoscritti, e che il Campanella,
conosciuta questa circostanza in Bologna, vi si sia trattenuto, ma il
P.^e Generale ebbe facilmente modo di colpirlo anche in Bologna, ed
egli, cessato il motivo di trattenervisi e naturalmente disgustato, se
ne partì in fretta, sicchè nello stesso mese di 9bre dovè trovarsi in
Padova. Ad ogni modo i frati di Bologna, che certamente non avevano
alcun motivo di portargli odio, furono _falsi_ verso di lui sol
perchè presero i manoscritti a sua insaputa, ma la loro condotta non
fu spontanea, e lo dimostra l'invio che ne fecero al S.^to Officio.
D'altro lato nulla autorizza veramente a credere che egli abbia in
Bologna trattato di avere una cattedra, secondochè il Berti ha creduto
di vedere.
Ecco ora il Campanella in Padova, verosimilmente nel 9bre 1592, e
certamente nel convento di S. Agostino, come egli medesimo ricordò
poi nella sua lettera al Galilei che è stata pubblicata dal Berti.
Poniamo qui la notizia che si fece assegnare nello studio di Padova
come spagnuolo, e non come calabrese: egli rammentò più tardi tale
circostanza, allorchè si trovò carcerato in Napoli fra le mani degli
spagnuoli, e l'addusse in prova della sua devozione alla Spagna[111].
Questa «assegnazione nello studio» conduce naturalmente a credere che
si tratti della iscrizione nell'Albo della nazione spagnuola come si
usava da coloro i quali accorrevano allo studio pubblico mantenuto con
tanto lustro dal Governo Veneto; essi aveano cura di dare il loro nome
alla _Nazione_ rispettiva. Se non che l'_assegnazione_ è veramente un
termine fratesco sinonimo di destinazione, trovandosi anche non di rado
denominato _Studio_ tra' frati quel convento o parte di convento in
cui si raccoglievano i frati studenti; e i Domenicani, almeno a quei
tempi, si dicevano «studenti formali» persino varii anni dopo di essere
stati ordinati sacerdoti; ne incontreremo qualche esempio tra' frati
calabresi che figureranno più tardi ne' processi della congiura ed
eresia del Campanella. Tuttavia non ci ripugna menomamente ritenere che
il Campanella si sia iscritto nell'Albo degli spagnuoli, conoscendosi
che mediante una piccola moneta da pagarsi nell'atto dell'iscrizione
si venivano ad acquistare alcuni vantaggi, diversi secondo gli statuti
e i diritti consuetudinarii appartenenti alle diverse Nazioni, e che
s'iscrivevano nell'Albo, con la menzione delle rispettive qualità e
della moneta pagata, non solo gli studenti, ma anche i visitatori dello
Studio, che si trattenevano qualche tempo in Padova non propriamente
per seguire i corsi delle lezioni. Come si vede, la cosa è ben diversa
dall'«iscrizione nelle matricole dello Studio di Padova»: e dobbiamo
dire che in una delle nostre escursioni in quella città abbiamo avuto
cura di ricercare nell'Archivio dello Studio se vi fosse rimasta
traccia del Campanella; ma degli Atti delle Nazioni non abbiamo trovato
che sei volumi della Nazione alemanna, due della Nazione polacca, uno
solo della Nazione ultramarina e contenente appena la serie e gli scudi
de' consiglieri, sindaci, esattori ed altri officiali della Nazione.
Pertanto fin da' primi giorni della dimora in Padova, il Campanella
si trovò involto in un brutto processo, che non intendiamo come
sia stato confuso con gli altri venuti in sèguito[112]. «Quasi tre
giorni» dopo il suo arrivo, secondochè egli scrisse in una delle sue
lettere, trovandosi il P.^e Generale nel convento di Padova, accadde
di notte uno di que' fatti scandalosi, proprii di giovani scostumati
ed immorali, come ve n'erano tanto spesso tra' frati di quel tempo:
il P.^e Generale patì una violenza che non occorre specificare; il
Campanella, di recente venuto, ne fu incolpato da certi suoi compagni,
e si noti che egli dormiva con un altro in un letto comune, la qual
cosa era allora ammessa per l'abbondanza degli ospiti nei conventi,
come ne vedremo più oltre esempi diversi. Tanto per la data, quanto pel
genere d'imputazione, il Campanella fu chiamato in giudizio insieme con
altri frati. Questo risulta dalle sue stesse lettere, e risulta del
pari essersi difeso adducendo, che l'altro compagno il quale dormiva
con lui avrebbe dovuto rispondere egualmente della imputazione, e poi
egli non avea la vista buona e non avrebbe potuto facilmente accedere
presso il P.^e Generale. «Ma l'iniquità, egli dice, non cercava
il delitto, bensì cercava di farmi delinquente»; e ciò indurrebbe
a credere che dovè rimanere carcerato e maltrattato per qualche
tempo. Giunse tuttavia a riacquistare la libertà, naturalmente per
insufficienza d'indizii, o per avere «purgato gl'indizii» con qualche
tormento; ma rimase la memoria di questo processo, e forse ad esso
mette capo l'affermazione del Parrino e del Giannone, che il Campanella
era stato già prima carcerato anche «per la sua vita poco esemplare e
pe' suoi difformi costumi».
Venuto in libertà, probabilmente con la clausola di dover essere pronto
a rispondere _novis supervenientibus inditiis_ giusta la procedura del
tempo, egli ricominciò a scrivere ed anche ad insegnare e a disputare.
Le notizie di ciò che egli scrisse in Padova trovansi al solito nel
_Syntagma_, bensì in molto disordine, vedendosi stranamente intralciato
il ricordo di ciò che scrisse in Padova e di ciò che scrisse in Roma
allorchè ebbe a fermarsi per la 2.ª volta in questa città; ecco quanto
se ne può cavare di più sicuro, e preghiamo di tenerlo presente poichè
costituisce il sèguito del Catalogo delle opere del Campanella. «Niente
sconfortato da queste perdite (le perdite fatte in Bologna) cominciai
di poi in Padova ad instaurare la _Filosofia di Empedocle_, e scrissi
una _nuova Fisiologia_ secondo i proprii principii indirizzandola
a Lelio Orsini. Similmente, per ordine dello stesso Orsini, un
_Apologetico dell'origine delle vene de' nervi e delle arterie e
della pulsazione_, per commentario del Telesio sul tema, che l'Animal
universo etc., contro Andrea Chioco medico Veronese che avea scritto
contro Telesio, e mandai questo opuscolo ad Antonio Persio Telesiano,
dimorante in Roma presso Lelio Orsini. Dettai anche una nuova
_Rettorica_ ad alcuni nobili scolari Veneti. Di poi tradotto a Roma
perdei tutti questi libri». Fermandoci a questo punto per ora, notiamo
che il Campanella cominciò dal rifare non l'opera «De sensu rerum»,
ma il suo lavoro sulla _Filosofia d'Empedocle_ che avea già scritto
altra volta in versi latini; inoltre scrisse una _Fisiologia_, che
probabilmente fu un trattato destinato a servire per dettare lezioni;
nè deve sfuggire la dedica fattane a D. Lelio, e la composizione
dell'_Apologetico_ per ordine dello stesso D. Lelio, ciò che mostra una
corrispondenza continua con lui, come non deve sfuggire la scrittura
della _Rettorica_ per uso accertato di un privato insegnamento.
Aggiungeremo poi qualche notizia intorno a quell'Andrea Chiocco medico
Veronese, contro cui ebbe a scrivere l'Apologetico per Telesio. Il
Chiocco, o Chioco, è ben noto a' cultori della letteratura medica,
come medico, filosofo, poeta, naturalista, istorico: l'opera nella
quale parlò de' polsi, e rimbeccò il Telesio, fu quella intitolata
«Quaestionum philosophicarum et medicarum libri tres, Veron. 1593», ed
essa è divenuta estremamente rara come la più gran parte delle opere
sue. Qualche altra notizia più intima intorno a lui ci è accaduto di
trovare nell'Archivio di Urbino oggi trasportato a Firenze, essendovi
stata occasione di parlare del Chiocco quando il Duca di Urbino, nel
1600, commise al suo Agente di Roma di cercargli un medico: il Card.^l
di Verona propose in primo luogo il Chiocco, e lo disse molto giovane
(avrebbe nel 1593 avuto circa 29 anni), non molto agiato, ma molto
dotto, con buon fondamento di lettere greche e di filosofia; era dunque
una persona distinta, ed è superfluo dire che non fu prescelto[113]. —
Continuando la notizia delle opere composte dal Campanella in Padova,
per quanto possiamo decifrarla dal _Syntagma_, ecco un altro brano di
questo libro che ne compie la serie. «Dippiù, richiestone scrissi in
lingua volgare una _Consultazione, se convenga alla Repubblica Veneta
permettere che gli Oratori degli altri Principi parlino nella propria
lingua in Senato_, e la diedi ad Angelo Correo Patrizio Veneto. Avea
pure scritto un _Commentario sulla Monarchia de' Cristiani_, tale
da non avermene a dolere, dove mostrava con quali arti la potenza
Cristiana crebbe e crescerà, con quali suole decrescere, con quali
sia da recuperarsi, politicamente parlando, ed istituiva un parallelo
tra il Regno e i Re degli Ebrei, e il Regno i Re e gl'Imperatori
de' Cristiani. Parimente scrissi al Pontefice _Sul Reggimento della
Chiesa_, con quali modi, non soggetti alla contraddizione dei Principi,
il Pontefice massimo mediante le sole armi ecclesiastiche può di tutto
il mondo fare un solo ovile sotto un solo Pastore, i quali ultimi
libri diedi a Lelio Orsini e Mario Tufo, ma l'autografo lo rubarono
in Calabria amici infedeli». Queste furono le numerose opere composte
in Padova, cioè a dire durante tutto il 1593 e buona parte del 1594,
in mezzo a molte angustie come vedremo tra poco. Indubitatamente
il Campanella in tale periodo diè buona prova di quella grandissima
operosità, che si può dire essere stata sempre la sua gloria maggiore,
e si può dire anche essere stata la salvezza sua: non avrebbe potuto
reggere a tanti colpi avversi, ma l'occupazione continua glie li fece
sentire meno vivamente, e forse impedì che ne rimanesse schiacciato.
Una sola osservazione intanto vogliamo fare sulle opere anzidette,
ed essa è che le due ultime, quelle _Della Monarchia de' Cristiani_
e _Del Regime della Chiesa_, entrambe di ordine politico-religioso,
trovandosi in coda all'elenco debbono rannodarsi all'ultimo periodo
della permanenza del Campanella in Padova, al periodo de' nuovi e gravi
travagli che vi soffrì; e bisogna tener conto di questa circostanza,
per intendere non tanto lo spirito, quanto la misura delle dottrine che
vi si fece a sostenere.
Con ogni probabilità il Campanella, non ostante il suo privato
insegnamento, dovea menare in Padova una vita molto misera, e
sospettiamo che i frequenti invii di opere a D. Lelio Orsini e a Mario
del Tufo, tra gli altri significati, aveano anche quello di un certo
modo di chiedere sussidii usato ed abusato in ogni tempo da' letterati
poveri; oltracciò il processo già sofferto dovea farlo tenere sotto
una sorveglianza speciale ed anche puntigliosa, come si argomenta dal
vederlo continuamente oppresso da imputazioni diverse, talune insulse
e talune serie, piene di grave pericolo sempre. Così ci spieghiamo
in pari tempo una sua nuova e curiosa pratica presso il Gran Duca di
Toscana, per sollecitare la concessione della cattedra, mentre l'opera
_De sensu rerum_ con la dedica già fatta non avea potuto più stamparsi,
e le informazioni ulteriori del P.^e Generale non avrebbero potuto
riuscire altrimenti che pessime: era un tentativo disperato, che solo
uno stringente bisogno poteva suggerire. Ad ogni modo il tentativo fu
fatto con una lettera al Gran Duca in data del 13 agosto 1593, che è
quella pubblicata dal Palermo. Il Campanella vi dice essergli stata
proposta in Padova una lezione di Metafisica da alcuni gentiluomini,
ma egli si riteneva impegnato con S. A., cui rammenta la parola data,
e dichiara non poter mai immaginare che S. A. abbia mutato parere,
«non essendo proprio di Signori». Si mostra per altro informato di ciò
che accadde negli ultimi giorni della sua dimora in Firenze: «mi si
scrive che alcuni, gonfi di quella vana sorte che suole apportar la
ipocrisia, abbian proposto a V. A., per la mutazione che avverrà da
le nuove mie dottrine, che non doveva ricevermi, e questo il medesimo
dì che io mi partii da lei» (allusione evidente a Baccio Valori, che
avea scritto appunto in tal senso e in tale data con molta ipocrisia).
Del resto afferma che saprebbe anche meglio degli altri dettare le
dottrine Aristoteliche (la qual cosa conferma quanto fosse stringente
il suo bisogno), e supplica che faccia scrivere se egli debba avere
quella lezione o aspettare ancora. — Non è dubbio che S. A. gli abbia
scritto o fatto scrivere in suo nome evasivamente; tale risposta
dovè essere portata al Campanella nel convento di S. Agostino dal
Galilei lettore in Padova, come si può argomentare da' ricordi che
poi ne fece il Campanella medesimo al Galilei ed anche a Ferdinando
più tardi, quali si leggono nelle lettere pubblicate dal Berti e dal
Fabroni. Aggiungiamo che per colmo di dolore il Campanella, 4 anni
dopo, potè forse conoscere che ad insegnare in Pisa era chiamato quel
dot.^r Marta, contro cui egli avea fatto le prime armi combattendo
Aristotile[114]; bensì era chiamato ad insegnare jus Cesareo, non già
filosofia[115].
Vennero intanto successivamente istituiti in Padova nuovi processi
contro il Campanella, e per verità non sapremmo affermare che al tempo
in cui mandò la lettera al Gran Duca non ne avesse già avuto ancora
un altro dopo quello relativo all'insulto gravissimo patito dal P.^e
Generale: poichè conosciamo molti capi di accusa a' quali fu chiamato a
rispondere, e certamente ve ne furono anche altri, mentre egli sempre
costumò non propalarli o non specificarli appieno; ma non conosciamo
in che modo que' capi di accusa sieno stati aggruppati per aversi i
«cinque processi», che nella lettera allo Scioppio pubblicata dallo
Struvio chiaramente affermò avere avuti. A quanto pare, due nuovi
processi egli dovè avere in Padova, venendo poi l'ultimo, assai più
grave dell'altro, compiuto in Roma, con la giunta di ulteriori capi
di accusa sorti in sèguito, e dell'esame delle opinioni sospette
consegnate nel libro _De sensu rerum_; ciò nel corso del 1593 e
1594, poichè vedremo da un documento irrecusabile trovarsi nella fine
del 1595 già esaurito in Roma l'ultimo processo sorto in Padova, ed
esaurito anzi da qualche tempo. — Meditando sulla lettera allo Scioppio
pubblicata dallo Struvio, la quale offre in modo più ordinato i capi
di accusa, ed aggiungendovi ciò che si rileva dalla lettera al Papa,
apparirebbe plausibile il dire che in uno di questi nuovi processi
(3º per data) gli siano state fatte due imputazioni, aver composto
il libro _De tribus impostoribus_, ed essere seguace delle dottrine
di Democrito; nell'altro poi (4º per data) dovè rispondere ancora
a due imputazioni, divenute non si sa quante per via, professare
dottrine eretiche, e non aver denunziato un giudaizzante col quale avea
disputato _de Fide_; nè occorre dire che l'ultimo suo processo (il 5º)
fu quello sostenuto in Napoli, con le accuse di tentata ribellione ed
eresia.
Alle imputazioni dell'avere scritto il libro _De tribus impostoribus_,
e dell'essere seguace delle dottrine di Democrito, il Campanella
potè rispondere, che aveva appunto scritto contro Democrito e che il
libro attribuitogli era stato già stampato 30 anni prima che egli
nascesse. Vede ognuno quanto sarebbe importante possedere gli atti
di tale processo, mentre a tutt'oggi nulla è stato posto ancora in
sodo circa il libro in quistione, e si dubita perfino che esso sia
mai esistito[116]. Con la sua immensa erudizione il Campanella potea
fare meglio di chicchessia la storia di questo libro: per lo meno
egli dovè fornire tutte le particolarità dell'edizione, che ci lasciò
appena accennata e ci riesce affatto ignota. Noi siamo convinti che
dandosi agli eruditi l'accesso all'Archivio del S.^to Officio, la
Chiesa medesima vi guadagnerebbe da tutti i lati, e vorremmo avere
tanta autorità da meritarci credito: per lo meno non si vedrebbero
più malamente confuse l'Inquisizione di Spagna e quella di Roma,
che funzionarono con una misura ben diversa, e senza dubbio si
modificherebbe radicalmente l'opinione tanto sparsa de' procedimenti
iniqui usati dall'Inquisizione Romana. Nel caso presente, si vedrebbe
anche come il Campanella abbia avuto tutto l'agio di difendersi e
guadagnarsi l'assoluzione.
Più malagevole dovè riuscire il discolparsi del non aver rivelato il
giudaizzante col quale avea disputato _de Fide_, e di essersi reso
colpevole di eretica pravità come allora si diceva. La denunzia era
di obbligo assoluto, e la mancanza di essa nelle circostanze indicate
bastava a far nascere il sospetto di eresia. Forse il Campanella potè
dapprima addurre essersi l'opponente dichiarato vinto nella disputa,
e quindi a lui rimanere il merito di averlo convertito; ma ciò non
lo disobbligava dal farne parola al S.^to Officio, e d'altronde il
giudaizzante dovè mostrarsi pervicace: nè diciamo ciò a caso, ma dopo
la matura considerazione di quanto il Campanella ne lasciò scritto, e
dopo il fatto di un giudaizzante da noi rinvenuto nelle scritture di
questo periodo, da potersi riferire appunto a' travagli del Campanella.
Cominciamo dal notare che questi travagli avuti pel giudaizzante
son citati dal Campanella non solo nella lettera al Papa, dove son
posti in primo luogo (mentre nella lettera allo Scioppio pubblicata
dallo Struvio mancano affatto), ma son citati anche nella Narrazione
pubblicata dal Capialbi, dove figurano quasi come i soli travagli avuti
dal S.^to Officio, prima de' travagli di Napoli. Le parole testuali
della lettera sono, «primo ex dicto unius Judaizantis molestatus»;
quelle della Narrazione (pag. 52) sono, «fu travagliato.... nel
S. Officio perchè non rivelò un fugitivo hebraizante con cui esso
Campanella disputò _de Fide_ in Padova, e quello fu poi carcerato a
Verona». La parola «fuggitivo» nella terminologia del S.^to Officio
significa uno che è scappato dal carcere od anche si è sottratto
alla forza mandata a catturarlo, ciò che bastava a costituirlo in una
certa convinzione della colpa appostagli; invece nella terminologia
fratesca significa un frate che ha abbandonato l'ordine monastico, e
nella terminologia de' disputanti significa uno che usa un ripiego per
cessare dalla disputa sentendosi vinto; non ci pare dubbio che in uno
di questi due ultimi sensi la parola «fuggitivo» abbia dovuto essere
adoperata dal Campanella. Questo frate dunque, mostratosi ebraizzante
nella disputa avuta col Campanella in Padova, fu poi carcerato in
Verona, e pel detto di lui solo il Campanella venne travagliato.
Ora ricercando le scritture di questo periodo noi abbiamo trovato il
ricordo di un frate Antonio da Verona coll'abito di cappuccino, il
quale per avere sostenuto che Cristo non avea redento il genere umano,
come eretico pervicace finì per essere bruciato vivo in Campo di Fiori
il 26 7bre 1599, dopo di essere stato varii anni nelle carceri del
S.^to Officio. Veggano i discreti se non sia plausibile mettere questo
fatto in rapporto con le cose del Campanella, e metterlo nel modo da
noi tenuto[117].
Merita intanto di essere considerata l'importanza di questo processo
pel povero Campanella, e ciò che andiamo a dire valga anche pel
successivo ed ultimo processo di Napoli. L'essere stato già una
volta condannato ad abiurare come veementemente sospetto di eresia
lo costituiva nella terribile condizione di «relapso», e qualora
fosse stata provata in tutta regola la sua colpa, il destino suo
non poteva esser dubbio: per la nota massima della giurisprudenza
del S.^to Officio «lapso non relapso parcitur», egli avrebbe dovuto
essere degradato e consegnato alla Curia secolare, con la solita
raccomandazione rutinaria di punirlo senza pericolo di morte e
senza effusione di sangue e mutilazione di membra, della quale
raccomandazione era bene inteso che la Curia secolare non tenesse
conto, o ne tenesse conto adoperando un genere di supplizio tale da
non recare nè effusione di sangue nè mutilazione di membra. Così il
condannato era bruciato vivo, quando si mostrava impenitente, od era
invece prima appiccato vicino al fuoco e poi bruciato, quando era
penitente, giusta la massima che tale ultimo supplizio «et humanius
est, et viam desperationis claudit, et ad poenitentiam provocat».
Nè si pensi che trattandosi di un'eresia diversa dalla precedente,
non fosse il caso vero del relapso: l'essere ricaduto nell'identica
eresia costituiva uno de' casi, e propriamente de' casi estremi del
relapso, ne' quali non doveva neanche accordarsi la difesa, e il
colpevole era «sine ulla penitus audientia brachio saeculari tradendus,
ultimo supplicio feriendus». Ma i casi del relapso erano varii,
c'era perfino quello di aver fatto semplicemente qualche favore ad
un eretico dopo di avere già una volta abiurato; e la conseguenza era
sempre la stessa, consegna al braccio secolare per l'amministrazione
dell'ultimo supplizio, previa la degradazione quando trattavasi di
un ecclesiastico. Solo si voleva che il colpevole fosse «legitime
convictus»; e parrebbe che il Campanella abbia avuto ricorso pure a
quest'àncora di salvezza sostenendo l'insufficienza del teste unico,
secondo la massima generalmente valevole in S.^to Officio «vox unius
vox nullius», come si può fino ad un certo punto argomentare da
quelle sue parole che implicano anche una discolpa, «ex dicto _unius_
Judaizantis molestatus»[118].
Dopo tutto ciò risulterà senza dubbio naturalissimo che il Campanella,
nell'ultimo periodo della sua dimora in Padova, e verosimilmente
durante la sua prigionia, non si sia tanto occupato di filosofia quanto
di politica e di religione, procurandosi buoni pezzi di appoggio
per la tempesta che minacciava sommergerlo. Così nacque l'opera
della _Monarchia de' Cristiani_, e subito dopo anche l'altra _Del
Regime della Chiesa_ indirizzata al Pontefice, sfoggio di dottrine
ultra-teocratiche e di fervore religioso; e ci pare che debba tenersi
conto delle circostanze nelle quali furono scritte queste opere,
semprechè si voglia portare sopra di esse un equanime giudizio.
Vedremo pure in sèguito il nostro filosofo, in determinati momenti
molto critici della sua vita, assumere un atteggiamento che per lo
meno deve dirsi di esagerazione, una volta anche verso i Principi,
un'altra volta di nuovo verso il Papa; ed egualmente di questo ci pare
che debba tenersi conto. Nè diremo già che in fondo egli non credesse
alla teocrazia come sistema di governo, che non amasse l'estirpazione
perfino violenta delle sètte religiose per vedere almeno tutta la parte
civile dell'umanità stretta in un fascio solo, che non ritenesse la
religione fortemente disciplinata indispensabile anche come strumento
di civiltà; ma ci periteremmo assaissimo di affermare che nel fondo
dell'animo suo egli volesse davvero la teocrazia rappresentata dal
Papa e da' Cardinali, la religione rappresentata da tutto il complesso
delle dottrine cattoliche etc.; tutti sanno che uomini non volgari,
e di eccellente odorato, dalle medesime sue opere politico-religiose
trassero già il convincimento che esse esprimessero ben altro di quello
che facevano le mostre di esprimere. Ma non possiamo nè dobbiamo
entrare in simili discussioni, e solo vogliamo giustificare il
nostro proposito di crederci nello strettissimo dovere di far sempre
rilevare in quali condizioni le sue diverse opere furono scritte;
segnatamente poi per quella _Del Regime della Chiesa_ notiamo anche
in anticipazione, che mentre chiaramente trovasi registrato nel
_Syntagma_ essere stata scritta in Padova senza che apparisca alcun
motivo per dubitarne, il filosofo medesimo, nella Difesa che presentò
ad occasione del 5º processo di eresia avuto in Napoli, la annunziò
siccome scritta in Stilo ne' tempi immediatamente anteriori a quelli
di tale processo, naturalmente pe' nuovi bisogni di quest'altra sua
gravissima causa[119]. Aggiungiamo inoltre che egli ebbe una cura
speciale della conservazione di entrambe queste opere, _Monarchia_
e _Regime_, facendone l'invio a D. Lelio Orsini e a Mario del Tufo,
sicchè non ebbe a perderle con le altre al momento in cui fu tradotto a
Roma, e ciò naturalmente perchè doveano servirgli allo scopo suddetto.
Nè vogliamo tacere che non ci apparisce realmente derivata da queste
opere, ossia dalle dottrine consegnate in queste opere, la persecuzione
continua sofferta dal Campanella in Padova, come lascerebbe sospettare
una proposizione emessa dal Naudeo tanti anni dopo[120]: il Naudeo,
amicissimo del filosofo, e durante la vita e dopo la morte di lui fu
solito d'ingarbugliare il ricordo delle cause, per le quali egli era
stato perseguitato; d'altra parte il Governo Veneto era solito di
perseguitare esso medesimo e di non lasciare impuniti i fautori della
supremazia Papale.
IV. Eccoci ora al trasferimento del Campanella da Padova a Roma.
Abbiamo già accennato che questo dovè accadere verso la fine del
1594, poichè il processo iniziato in Padova, certamente assai grave
ed aggravatosi sempre più per via, era già esaurito in Roma prima
della fine del 1595; e ci parrebbe superfluo dire che egli dovè essere
tradotto a Roma qual prigioniero, se non ci obbligasse a dichiararlo
il fatto che i biografi hanno tutti ammesso un'andata spontanea da
Padova a Roma. Il Berti è stato il solo ad avvedersi che l'andata
del Campanella a Roma segna il tempo di un suo processo da tutti
sconosciuto; se non che egli lo crede il 1º processo, avvenuto non più
tardi del 1595 o 96, ed ammette sempre un'andata spontanea del filosofo
a Roma, «o fosse irrequietezza sua, o timore di molestia per parte de'
frati od anche de' magistrati per causa delle dottrine teocratiche, e
più probabilmente per dare ragione di sè al S. Uffizio». Ma sebbene il
filosofo non abbia mai parlato molto chiaramente delle sue maniere di
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