Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 37

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enormi che ne' casi straordinarii solevano concedersi anche per la sola
persecuzione de' fuorusciti, ed aggravato dalla necessità di servirsi
di tanti Commissionati avidi e ladri, onde le regioni sottoposte a
simili flagelli rimanevano veramente disertate[491]. È naturalissimo
che lo Spinelli abbia seguito anche in Calabria il sistema scellerato
di quell'età, e si può ritenere per certo che i suoi Commissionati
ne abbiano fatte d'ogni genere, non essendo neanche quelli di ordine
più elevato rimasti paghi alle ricompense di nobiltà, alle quali ci
è pervenuta notizia che aspiravano; poichè, come del Visitatore e di
fra Cornelio si disse che attendevano Vescovati, parimente si disse
di D. Carlo Ruffo che pretendeva essere Principe di Stilo, di Gio.
Geronimo Morano che pretendeva un Marchesato, di Ottavio Gagliardo
che pretendeva una Baronia[492]. Ma i profitti non doverono essere
tanto grandi in persona dello Spinelli, sapendosi, come abbiamo
già avuta occasione di notare altrove, che egli rimase pur sempre
nelle strettezze (ved. pag. 237): tuttavia un documento rinvenuto
nell'Archivio di Stato ci mostra che lo Spinelli dovè ottenere dal
Vicerè anche prima di partire dalla Calabria, in data del 31 ottobre,
una sanatoria straordinaria, mediante ordine all'Audienza di Calabria
ultra di «non intromettersi nelli negotii da lui fatti nella predetta
provincia, etiam per la sua absentia»[493]. Ciò comproverebbe che le
affermazioni del Campanella non furono del tutto infondate, e che i
carcerati messi insieme per essere tradotti in Napoli rappresentarono
realmente la parte residuale di un più gran numero, il quale forse
andò diminuendo al punto, da dover essere negli ultimi tempi rinforzato
anche con individui a' quali fin allora non si era data importanza; la
qualità degli ecclesiastici, che abbiamo visto carcerati negli ultimi
tempi, menerebbe perfino a una simile conclusione. Ripetiamo poi che
vi doverono essere molti fuggiaschi, e la Turchia dovè offrire anche
questa volta il luogo di rifugio agli esuli: se dovessimo credere alle
voci corse allora, fino a tre mesi dopo la partenza de' carcerati
continuava ancora l'emigrazione in Turchia, ed aveva raggiunta una
cifra esorbitante[494]. Queste voci erano senza dubbio esagerate;
ma vedremo nelle Allegazioni del fisco in Napoli posti a carico del
Campanella, oltre gl'infelici giustiziati, i «molti altri contumaci che
erano fuggiti e che aveano perduto i beni e la patria»!
Alla fine di ottobre D. Garzia di Toledo, Consigliere del Collaterale
anche lui come lo Spinelli, Castellano di S. Elmo in Napoli, Comandante
le Regie galere per quegli anni, era già con quattro galere a Tropea
«per imbarcare i prigioni Calavresi»; questo ci mostra il carteggio del
Residente di Venezia, con la notizia di una lettera a lui scritta da
D. Garzia da quel luogo e in quella data, a proposito di certi schiavi
e cannoni che egli avea comperati da un capitano veneziano[495].
D'altro lato lo Spinelli, che avea dovuto recarsi a Catanzaro per
presedere alla nuova elezione del «reggimento» della città, il 3
novembre giungeva al Pizzo, come si rileva dal luogo e dalla data
dell'indulto concesso al Soldaniero ed al Bruno: con lui trovavasi la
massa de' carcerati, la quale fu fatta fermare propriamente in Bivona,
borgata oggi diruta, posta sulla spiaggia al sud del Pizzo, ed ecco
quanto sappiamo intorno al viaggio fatto da quegl'infelici. Da Gerace
i carcerati furono condotti in lunga catena a coppie, percorrendo un
buon tratto di paese e dando uno spettacolo straordinario alle città
e terre per le quali passavano. Massime i più gravemente incolpati
si facevano notare per la loro età giovanile: poichè de' frati, il
Campanella non avea che 31 anno, fra Pietro Ponzio 30, fra Dionisio
probabilmente 32 o poco meno, fra Pietro di Stilo 27, il Petrolo 26,
il Lauriana 28, il Bitonto 32, il Pizzoni 35, fra Paolo 38; de' laici
e clerici poi Maurizio non avea che 27 anni, il Caccìa e il Pisano 25,
Giulio Contestabile 32, Geronimo di Francesco 26, Felice Gagliardo
22, Geronimo Conia 21, Giuseppe Grillo 19 etc. etc. Per ogni verso
essi avrebbero dovuto destare una profonda pietà; non di meno dalle
rivelazioni avute in Napoli col processo di eresia conosciamo che il
volgo, cioè a dire l'immensa maggioranza, li chiamava «inimici di Dio
e del Re». L'avere essi trattato co' turchi, l'aver voluto dare la
provincia a' turchi, l'essersi imbevuti di eresia, l'essersi proposti
di far la vita dissoluta, come n'erano corse le voci, avea certamente
eccitato ognuno contro di loro, senza contare l'odio e il disprezzo che
suole accompagnare chi non riesce in altrettali imprese: il Campanella,
già prima tanto esaltato, venne allora mostrato a dito con gioia feroce
dalle moltitudini, che esalavano la loro ignoranza e i loro istinti
di brutale malvagità, invano negati dagli adulatori del popolo ancora
più spregevoli degli adulatori de' Principi; dovè quindi convincersi
appieno che
«Il popolo è una bestia varia e grossa»
come di poi cantò. In Monteleone vi fu una fermata della carovana,
e Padri Gesuiti confortarono a ben morire alcuni de' carcerati, che
avrebbero dovuto essere «quattro de' più colpevoli» aggiuntovi poi
«benanco Maurizio de Rinaldis», secondo gli ordini dati dal Vicerè
fin da' primi di ottobre: ma effettivamente sappiamo solo i nomi di
Maurizio e di Gio. Battista Vitale, che sarebbero stati confortati,
e sappiamo che il Vitale non volle dare ascolto alle esortazioni de'
Padri Gesuiti, ripetendo le eresie insinuategli da fra Dionisio[496].
Ma presto la carovana si rimise in via e poggiò a Bivona, dove la
raggiunsero fra Cornelio e fra Gio. Battista di Polistina, i quali con
la loro presenza e la loro unione contristarono ancora gli infelici
frati prigionieri. Secondo il Pizzoni, che trovavasi legato a mano
a mano con fra Paolo della Grotteria in un magazzino di sali, il
Campanella, mediante un soldato del Capitano Figueroa, l'avrebbe quivi
minacciato di porlo in più grave intrigo laddove non attendesse a
ritrattarsi: secondo fra Pietro di Stilo ed anche secondo il Petrolo,
fra Gio. Battista di Polistina avrebbe detto a ciascuno di loro che
badassero bene a deporre contro fra Dionisio, aggiungendo a queste
raccomandazioni lusinghe e minacce, come vedremo nel processo di eresia
svoltosi in Napoli. Che era intanto avvenuto, perchè in Monteleone
non si facessero più le esecuzioni capitali prescritte? Ce lo dice
il Carteggio Vicereale e quello del Residente di Venezia, il quale
ultimo ci fornisce a tale proposito notevoli particolari. Secondo
il Residente, «haveva d.^to Spinelli sentenciato Mauritio Rinaldi,
Capo secolare della congiura, di essere à Monteleone segato vivo à
traverso, ma non havendo per tempi fortunevoli potuto le galee prender
porto in quella parte, hà riservato così fatto spettacolo da farsi
in questa città a beneplacito del Vicerè»[497]. Anche in un'altra
lettera posteriore, scritta con più di un mese e mezzo di intervallo,
il Residente tornò a menzionare l'atroce ed insolita condanna di
Maurizio «di esser segato vivo tra due tavole», e ciò dà motivo di
ritenere che non sia stata questa una delle ordinarie frottole in
corso per la città; quanto poi al motivo per cui la condanna non fu
eseguita, bisogna dire che le galere non poterono tenersi al sicuro ed
aspettare impunemente qualche giorno. Infatti una lettera Vicereale,
scritta quando i carcerati vennero in Napoli, ci dice che «si aveano
da giustiziare in Monteleone sei che erano convinti e confessi, e
per non far trattenere le galere, li condussero con gli altri», ciò
che spiega pure quanto sappiamo de' conforti a ben morire prestati ad
alcuni da' Gesuiti in Monteleone. Vi fu dunque una semplice mancanza
di tempo, avendo dato verosimilmente fretta il mare procelloso in un
posto di poco sicuro ancoraggio. Ma alfine i carcerati s'imbarcarono,
e con loro, oltre lo Spinelli e lo Xarava, anche fra Cornelio e il
Visitatore; e si imbarcarono dippiù taluni di quelli che si erano
distinti nella repressione della congiura. Certamente s'imbarcò sulla
capitana di D. Garzia il Principe della Roccella accompagnato da molti
dei suoi servitori «con l'occasione dell'anno santo», vale a dire del
Giubileo che era stato indetto, come abbiamo rilevato da un'altra
Informazione di S.^to Officio; e ben s'intende che costui, al pari
degli altri suoi socii in benemerenza, andava a riceversi i sorrisi, le
lodi e i favori, che il Vicerè si sarebbe benignato di accordargli.
Lasciamo ora che gl'infelici prigioni arrivino in Napoli, ove
ripiglieremo la cronaca de' loro strazii, e fermiamoci ancora a vedere
ciò che accadde in Calabria durante e dopo la loro partenza, sempre in
rapporto al nostro argomento.
Il fatto più importante per noi fu la novella Informazione, che il
Vescovo di Squillace ebbe a prendere sulle cose del Campanella, per
commissione di Roma. Avuta la copia dell'Informazione presa dal Vescovo
di Gerace, la Sacra Congregazione Romana evidentemente non poteva
rimanerne soddisfatta: per lo meno, essendo stato affermato così da
fra Cornelio come dal Vicerè che Stilo con le sue vicinanze fosse
tutto imbevuto delle eresie del Campanella, la cosa non risultava
menomamente chiarita; sorgeva dunque l'assoluto bisogno di una
ulteriore Informazione, e questa fu subito commessa al Vescovo di
Squillace, nella cui diocesi erano comprese la città di Stilo e le
altre terre delle quali volea conoscersi la condizione vera. Il testo
dell'Informazione o «Processo di Squillace» non ci è pervenuto, ma ce
ne sono pervenuti i Sommarii molto precisi, redatti in Roma e mandati
a' Giudici dell'eresia in Napoli, e ci è pervenuto anche tutto intero
un Supplimento alla detta Informazione commesso da uno di cotesti
Giudici, il Vescovo di Termoli. Tra le deposizioni, che fanno parte
del Supplimento, ve ne sono due che ricordano le deposizioni anteriori
del 5 novembre e del 19 dicembre 1599[498], le quali date servono a
mostrare quella del processo di cui parliamo, cominciato anche un po'
prima che il Campanella e socii partissero dalla Calabria, proseguito
per due mesi e verosimilmente anche più, atteso il gran numero di
coloro che furono chiamati a deporre: il Supplimento stesso ci mostra
che presedè alla formazione del processo il Vescovo in persona, Tommaso
Sirleto, insigne uomo appartenente all'insigne famiglia de' Sirleti
di Guardavalle patria di Maurizio, assistito dal suo Vicario generale
Agazio Mantegna[499]. Furono chiamati a deporre tutti i frati dei
conventi di Stilo e di quelli delle terre vicine, p. es. di quelli
di S.^ta Caterina, come ne diè notizia una delle deposizioni raccolte
nel processo di eresia fatto in Napoli[500]; ma furono chiamati anche
molti ecclesiastici secolari e molti laici delle migliori famiglie di
Stilo e luoghi vicini, come si rileva da' nomi che si leggono a capo
di ciascuna deposizione. Gioverà ricordare quelli che sono stati già
citati finora, e qualche altro che si dovrà ancora citare nel corso
di questa narrazione, segnatamente quelli che si fanno notare per
qualche condizione speciale; poichè ricordarli tutti sarebbe perfino
inutile, mentre si possono rilevare da' Sommarii del processo[501].
Furono dunque tra coloro che deposero, naturalmente a carico, dei
Contestabili Paolo e Fabio, che sappiamo essere l'uno padre e l'altro
fratello di Giulio e di Marcantonio; de' Carnevali poi Gio. Francesco
e Fabrizio, che abbiamo veduto altrove essere ecclesiastici, l'uno
zio e l'altro fratello di Gio. Paolo, dippiù Fabio altro fratello,
Prospero padre e Minico (Domenico) altro zio. Vi fu ancora Giulio
Presterà, che sappiamo giovane e medico, amico del Campanella, Gio.
Jacovo Prestinace che ci risulta cugino di Gio. Gregorio l'intrinseco
del Campanella, Francesco Plutino il capitano nominato dal Campanella
nella sua Dichiarazione, Francesco Vono che abbiamo visto del pari
amico del Campanella, che vedremo nominato da lui nella sua pazzia
e che sappiamo essersi liberato dalle persecuzioni per la congiura
mercè molte libbre di seta[502]. Potremmo citare altri nomi degni di
menzione, come uno Scipione Presterà, un Gio. Maria Gregoraci, diversi
Jeracitano, qualcuno de' Crea, Vigliarolo, Principato etc. tutti
di Stilo, e parecchi che ci risultano di Guardavalle, di Stignano,
di S.^ta Caterina, di Riaci, di Camini, di Girifalco. Ci limiteremo
ad aggiungere che vi fu pure quel Tiberio Lamberti che presentò la
denunzia di D. Marco Petrolo, vi furono due donne (Francesca Scivara e
Caterina di Francesco), infine anche un Marcello Salinitri e un Carlo
Licandro, i quali, deponendo contro il Campanella, non nascosero di
essergli nemici, senza che ne apparisca il motivo[503]. E noteremo
che il non esservi stati taluni altri conosciuti come stretti amici
del Campanella, p. es. Tiberio e Scipione Marullo, i fratelli D. Gio.
Jacobo e Ottavio Sabinis, rende sempre più credibile che costoro
si tenessero nascosti; la qual cosa può dirsi con fondamento anche
maggiore per quelli egualmente conosciuti come parenti di fra Tommaso,
p. es. Paolo e Fabrizio Campanella, de' quali si deposero alcune
proposizioni già manifestate dal Campanella e commentate da loro, senza
vederli interrogati e senza saperli carcerati e partiti per Napoli.
Assai ci pesa il dover dare un cenno di ciò che emerse da questo
processo di Squillace, poichè da una parte riesce impossibile
esporre tutta la colluvie di cose che si raccolse, e d'altra parte
esponendo con un po' d'ordine le cose principali riesce inevitabile
una riproduzione di quanto si è detto a proposito delle opinioni
manifestate dal Campanella nel periodo della congiura. Ma gioverà
conoscere testualmente le cose principali co' nomi di coloro che le
rivelarono, e apprezzarne il valore e l'importanza. Cominciando dalle
cose riferibili al nuovo Stato, si affermò che il Campanella «volea
fondare una nuova setta per vivere liberamente et fare il _crescite_»
(test. Fabrizio Carnevale, Marcello Salinitri, Gio. Consueva), che
«voleva far mutare habito et vestimenti et dire che ci era libertà di
coscienza» (Gio. Jacobo Prestinace), che nella «nuova setta di libertà»
s'indosserebbero «certi habitelli et copulini» (Ottavio Buccina), che
gli uomini si abbiglierebbero «con veste bianche sino al ginocchio,
con una tovaglia alla testa che pendi à dietro, et con un capellino in
testa» (Gio. Jacobo di Reggio), ed era con altri salito sul monte di
Stilo, dove mangiarono ed intitolarono quel monte «monte pingue e di
libertà» (Scipione Presterà, Francesco Bartolo etc.); che era Profeta,
che volea farsi chiamare il Messia di Dio della verità etc. (Gio.
Andrea Crea, Geronimo Jeracitano, Gio. Francesco Carnevale, Giuseppe
Ranieri ed altri). Venendo alle cose riferibili alla Religione ed
alla Chiesa, bisogna notare che in questo processo non vi fu alcuna
deposizione intorno all'opinione della non esistenza di Dio attribuita
al Campanella pei processi anteriori, ma intorno a Gesù, alla sua
resurrezione, a' miracoli, non che intorno al Crocifisso, si depose
avere il Campanella detto, che Gesù «non è stato figliolo di Dio» (Gio.
Andrea Crea), che «fu bravo huomo e capo di sette» (Marcello Salinitri
a detto di Giulio Contestabile, Francesco Plutino etc.), che nella
predica avea dichiarato essere il precetto _quod tibi non vis alteri ne
feceris_ stato detto da un filosofo gentile prima di Cristo (Tiberio
Vigliarolo), che «non bisognava si adorasse il Crocifisso perchè era
un pezzo di legno» (Paolo Contestabile e Fabio Contestabile a detto di
Marco Antonio che l'aveva udito dal Caccìa), che «non si doveva credere
ad un appiccato» (Giulio Presterà, Luzio Paparo, Lorenzo Politi,
Desiderio Lucane), che «Cristo avea potuto fare che ci fosse un altro
in croce e che esso non fosse morto» (fra Scipione Barili a detto di
fra Scipione Politi), che «le cose che si dice haver fatto Moisè tutte
sono state per ingannare li popoli» (fra Francesco Merlino), che «bravo
huomo era stato Mosè e Maumetto e Christo, e che se bene Martino Lutero
haveva acquistato 26 o 27 Provincie non haveva fatto nulla» (Francesco
Plutino). Quanto alla Trinità, a' Sacramenti, all'Eucaristia,
all'inferno, purgatorio e paradiso, si depose avere il Campanella
detto, «che tutte le cose della nostra fede si possono passare eccetto
che questa cosa della Trinità, che vi sieno tre persone in una» (Gio.
Gregorio Argiro), che era stato udito Paolo Campanella parlare al
fratello Fabrizio di proposizioni di fra Tommaso intorno alla Trinità
ed ai Sacramenti, dicendo che «non credeva si consacri hostia», e
soggiungendo «havrei pagato cinquanta ducati a non intendere queste
cose» (Gio. Domenico Pilegi), che il Campanella medesimo avea detto a
Fabrizio «provarsi che il sacramento non era sacramento» (Gio. Jacobo
Vigliarolo), che «aveva uno spirito nell'unghia» (fra Berardino), che
non credeva esservi il diavolo, chiamandolo _babao_ per far temere
le genti (Carlo Licandro), che avea detto a Fabio Contestabile «si
pigliasse spassi e piaceri... che del resto è pensiero di chi è»
(Fabio Contestabile), ritenendo non esservi inferno (Fabio Carnevale,
Desiderio Lucane ed altri). Quanto ad orazioni, che il Campanella avea
cancellato da un libro di preghiere, appartenente alla Congregazione
del Rosario e presentato allora al Vescovo, alcune invocazioni a
Maria, a S. Domenico, a S. Giacinto, a S.^ta Caterina, per ottener
grazia, «che non voleva si dicessero» (Gio. Francesco Carnevale), ed
era stato direttamente veduto quando le cancellava (Fabio Carnevale,
Fabio Contestabile). Ed ancora avea detto «la fornicazione non essere
peccato,... essere cose naturali» (fra Gio. Battista di Placanica);
e una volta «con altri nella propria cella fece il crescite con una
certa Giulia» (Gio. Maria Gregoraci). Ed avea mangiato carne in giorni
proibiti (molti), anche in casa di Geronimo di Francesco e del suo
zio Domenico Campanella (Fabrizio Carnevale, Fabio Contestabile),
adducendo la regola Apostolica _comedite quod appositum est vobis_
(Gio. M.ª Gregoraci); e una volta chiese chi avesse prescritto tali
proibizioni e gli fu risposto, la Chiesa, e il Campanella soggiunse
«chi è la Chiesa? li fu detto che sono il Papa, Cardinali et altri
Prelati, et il Campanella rispose, il Papa e Cardinali chi sono?
li fu detto che sono huomini, il Campanella rispose, io ancora sono
huomo» (Prospero Vitale). E la sua scienza era «una Cabala che imparò
da un Armeno» (Gio. Jeracitano), ed «havea promesso a Geronimo di
Francesco uno spirito familiare per vincere al giuoco» (Gio. M.ª
Gregoraci). Che nel predicare a Stilo «metteva comparatione sopra
gl'idoli», e riteneva «che i figliuoletti de' Turchi morendo non vanno
all'inferno, perchè crescendo potriano conoscere la fede e si fariano
Christiani», oltracciò che «Dio ha altro modo di salvar l'homini che
per il battesmo» (diversi). Che non credeva alla scomunica, che nelle
prediche «essaltava più del dovere li filosofi et scrittori Gentili»
e ne' discorsi diceva che «S. Thomasso fù huomo et che alla dottrina
sua si può aggiungere, et che era cavata da altri Dottori antichi et
particolarmente da Lattantio firmiano, al quale havea gran credito»; nè
era vero che il Crocifisso avesse detto a S. Tommaso _bene scripsisti
de me Thoma_ (Tiberio Vigliarolo, Gio. Antonio Primerano, Lorenzo
Consueva). Nemmeno credeva che gli Atti degli Apostoli facessero
fede, «perchè quello che trattano lo trattano per traditione di S.
Paolo» (Gio. Battista Rinaldo). Che infine non mostrava di gradire
tante diverse Fraterie (fra Gio. Battista di Placanica), non credeva
che bisognasse «dire Paternostri che erano cose perse» (Paolo e Fabio
Contestabile a detto di Marcantonio), nè credeva giovare a' defunti
la Messa detta o fatta dire da chi si trovava in peccato mortale
(diversi).
Furono queste le cose essenziali rilevate col processo di Squillace,
in materia di eresia più che in materia politica, attesa la qualità
della Commissione data al Vescovo, e, come si vede, esse venivano a
colpire propriamente il Campanella e non altri; appena qualche volta,
da uno o due testimoni, fu nominato con lui fra Dionisio, segnatamente
ad occasione del voler fondare la nuova setta e del doversi disprezzare
il crocifisso. Invece fu da qualcuno tratto in iscena il povero
vecchio Geronimo padre del Campanella, come testimone ed anche come
principale. Si depose aver lui detto che richiedendo al figlio di voler
predicare a Stilo, il figlio rispose che non volea «fare l'officio di
Canta in banco» (Marcello Fonte), che inoltre «gli avea preconizzato
tanto il bene quanto il male da dover accadere a' suoi figliuoli»
(Callisto Jeracitano), che infine avea composto quel tale libro che
superava quelli degli Apostoli (Scipione Ciordo). Ne abbiamo già
parlato abbastanza altrove e non occorre insistervi ulteriormente.
— Quale intanto deve dirsi il valore e l'importanza di siffatto
processo? In verità fa molta impressione il vedere che la massima parte
delle cose deposte si sia avuta con le clausole «de fama publica, de
auditu incerto», e non di rado pure, ciò che è sempre più notevole,
con la clausola «post carcerationem»; questo dà fondato motivo di
ritenere che le opinioni incriminabili poterono anche esser diffuse
in molta parte per colpa de' Giudici de' processi anteriori, che ne
fecero correre le voci per le piazze, dalle quali taluni testimoni
specificatamente affermarono di averle raccolte. Ma mettendo pure da
parte tutti i testimoni che deposero per voce pubblica, ne rimangono
sempre alcuni che deposero cose udite o viste direttamente, ovvero
cose udite o viste da persone state molto dappresso al Campanella, e
per la loro condizione speciale riescono a dare alle loro deposizioni
una gravità notevole. Basta dire che più d'uno affermò di avere
udito quanti deponeva da fra Scipione Politi conosciutissimo amico
del Campanella, e, a quel che pare, solito a mantenere vive le sue
conversazioni col riferire le opinioni delle quali il Campanella gli
avea tenuto discorso; qualche altro affermò di avere udito quanto
deponeva da D. Marco Petrolo, da D. Marco Antonio Pittella, da
Paolo e Fabrizio Campanella, da Giulio Contestabile, da Marcantonio
Contestabile; nè deve sfuggire che deposero i Carnevali malgrado
avessero Gio. Paolo e Tiberio carcerati, deposero i Contestabili
malgrado avessero Giulio carcerato e Marcantonio perseguitato, depose
Desiderio Lucane che sappiamo avere anche lui un figlio carcerato[504].
Adunque, per un certo numero di cose raccolte con questo processo,
non si può sconoscerne menomamente la provenienza dal Campanella,
essendovi anche una concordanza significante tra esse e quelle che
da altri fonti ci risultano appartenenti senza dubbio a lui; nè
deve sfuggire che molti, p. es. Giulio Presterà, Francesco Vono, il
capitano Plutino, i quali certamente ebbero relazioni col Campanella,
e così pure tanti altri, poterono deporre per voce pubblica ciò che
aveano saputo direttamente, non convenendo loro di dire che l'aveano
saputo direttamente da lui, perchè sarebbero divenuti responsabili
del non averlo denunziato. In conclusione poteva dirsi una calunnia
l'avere il Campanella imbevuto di eresie la città di Stilo e luoghi
circonvicini, ma non già l'avere di tempo in tempo enunciati principii
punto ortodossi. E risultava grandemente notevole la raccolta fatta
di simiglianti principii, perocchè di tutta la massa delle accuse,
che vedesi ridotta a 34 capi nel Sommario complessivo dell'ultimo
processo di eresia, 8 o 9 capi soltanto non riuscivano nè confermati
nè smentiti dalle deposizioni di Squillace, ma 13 ne riuscivano
confermati, e 9 altri ne sorgevano interamente nuovi. Oltracciò si
avevano elementi tali da mostrare il giusto valore della scusa che già
si meditava, che cioè i frati inquisiti di congiura avessero rivelato
e fatto rivelare cose di eresia a fine di scansare la Corte temporale.
È superfluo dire quanto le condizioni del Campanella ne divenissero
aggravate, e non è arrischiato l'ammettere che segnatamente per questo
processo di Squillace egli abbia dovuto rimanere tanto dolente di
«Stilo ingrato» che egli onorava; di Stilo infatti, e amici suoi per
giunta, erano principalmente coloro i quali avevano questa volta dato
materia a «fabbricare processi con processi» come egli cantò nelle sue
Poesie[505].
Ci rimane a dire qualche cosa delle condizioni nelle quali la
Calabria si venne a trovare dopo la partenza dello Spinelli co'
carcerati. Abbiamo già avuto altrove occasione di vedere che le
quistioni giurisdizionali e le inimicizie private non ebbero alcuna
tregua; naturalmente i fuorusciti medesimi, pel rigore eccessivo e le
vessazioni spropositate, erano già cresciuti di numero, ed abbiamo un
documento il quale ci mostra esserne stato lo Spinelli medesimo, avanti
di partire, interpellato dal Vicerè[506]. I Governatori che successero
nella Calabria ultra, D. Pietro di Borgia, e poi D. Garzia di Toledo
sopra nominato, e poi D. Carlo de Cardines Marchese di Laino etc.,
come pure quelli della Calabria citra, D. Alonso de Lemos, D. Antonio
Grisone, e poi D. Lelio Orsini l'amico del Campanella, rivestiti essi
medesimi, più o meno, di poteri straordinarii, ed aiutati anche da
Commissarii speciali, si affaticarono per più anni alla «extirpatione
de' forasciti» senza mai venirne a capo. L'Audienza di Calabria
ultra, rimasta priva dell'Avvocato fiscale e poi provvedutane in
persona di Gio. Andrea Morra[507], fece conoscere al Vicerè il suo
imbarazzo per «l'ordine di non intromettersi in le cose ha fatto il
spettabile Carlo Spinelli», poichè si era preso un Carlo Logoteta di
Reggio che da tre anni scorreva la campagna, e così due altri, e se
ne trovavano ancora molti, tutti guidati dallo Spinelli: ma il Vicerè
nemmeno credè opportuno di revocare l'ordine, e comandò d'inviare
alla Vicaria i catturati ed a lui una nota particolare e distinta
di tutti i guidati, che naturalmente l'Audienza non avea modo di
conoscere[508]. La città di Catanzaro, già tanto conturbata dalle
fazioni municipali, si risentì pel nuovo «reggimento» istituito dallo
Spinelli, e l'Audienza fece sapere al Vicerè che la città pretendeva
«di non essere stata intesa in la busciola et forma dell'electione
fatta per il spettabile Carlo Spinello... e si era ordinato al
Capitaneo et Sindico di detta Città che apresse la cascia dove stava
tutto lo che si era fatto per raggione di detta busciola, la quale non
si ha possuto aprire per star'in poter'del rettore del Jesu di detta
Città con una delle chiave, al quale essendosi ciò notificato etiam in
scriptis non l'ha voluto dare»; ma il Vicerè anche in tale occasione
non volle scovrire lo Spinelli, diè ragione a' Gesuiti e comandò di
«non far altra diligentia per aprire la sopradetta cascia» dovendosi
solo «osservare la detta busciola che stava ordinata o pur farsi
l'electione del Governo come si faceva per prima»[509]. E nominati più
tardi gli Eletti deputati a far l'elezione del nuovo reggimento, si
trovò affisso nella piazza pubblica un «cartello infamatorio» contro
quegli Eletti; e si venne con poteri straordinarii alla cattura di
un Marcantonio Paladino ritenuto autore di detto cartello, ed allora
di notte fu rotto il carcere «di fora, con scarpelli et violentia
grande» e fu fatto fuggire il Paladino con gli altri carcerati, onde
si ebbero nuove Informazioni e nuove catture[510]. Ma un avvenimento
ancor più notevole fu l'uccisione di Marcantonio Biblia, fratello di
Gio. Battista denunziante della congiura, pugnalato verso la fine di
novembre in Catanzaro. Abbiamo già avuta occasione di dire altrove che
questo Marcantonio Biblia era credenziere della gabella della seta di
Catanzaro fin dal 1595. L'Archivio di Stato ci offre più memoriali
di Gio. Battista Biblia al Viceré, co' quali «fa intendere come per
havere scoverto esso supplicante la congiura et rebellione tentata
in disservitio d'Iddio et de sua M.^tà da Marco Antonio giovino et
altri... l'istesso Marco Antonio ha fatto occidere nella città di
Catanzaro a pugnalate Marc'Antonio suo frate da Gio. et Scipione
giovino fratelli del detto Marco Antonio», e ricordando altri omicidii
già commessi da costui conchiude col ricorrere «alli piedi di V. E. che
resti servita ordinare che il detto Marco Antonio sia afforcato come V.
E. s'è degnato ordinare acciò l'altri non presumano fare l'istesso in
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