Fra Tommaso Campanella, Vol. 1 - 23

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il Campanella, avrebbero fatta conoscere la verità, essendo stata già
da loro preparata e disposta ogni cosa per l'insurrezione; che vi era
l'intesa di diversi Vescovi ed anche di parecchi Nobili desiderosi
di uscire dalla servitù della Corona di Spagna; che era importante ed
utile il prender parte all'impresa, e bisognava far entrare incogniti
e di notte in Catanzaro tre a quattrocento uomini armati, i quali
sarebbero rimasti sotto gli ordini di alcuni Catanzaresi e in un
momento designato avrebbero servito per la rivolta. E nominava città e
terre impegnate nell'impresa, nominava individui aderenti fuorusciti e
non fuorusciti, nominava perfino i Vescovi ed i Nobili che vi avrebbero
partecipato[294]. Così de' Vescovi fu nominato in primo luogo quello
di Mileto, Marcantonio del Tufo, che sapevasi tanto battagliero nelle
cose giurisdizionali, oltrechè in ottime relazioni col Campanella ed
accanito fautore de' fuorusciti; dippiù il Vescovo di Nicastro, Pier
Francesco Montorio, che dopo quella lotta giurisdizionale così ardente,
e dopo l'accomodamento fatto col Governo fin dal marzo, trattenevasi
pur sempre in Roma senza sapersene il motivo, e dicevasi dover venire
incognito in Calabria al momento opportuno; furono infine nominati
ancora i Vescovi di Oppido e di Gerace e parimente quello di Catanzaro,
il quale ultimo, per essersi impegnato presso il Visitatore in favore
di fra Dionisio, si poteva far credere impegnato nell'impresa che
costui promoveva, se non che, mentre era compreso tra' congiurati,
per taluno di costoro era compreso al tempo medesimo tra le autorità
da doversi uccidere in Catanzaro al primo momento della rivolta. Ma
bisognerebbe essere di una ingenuità colossale, per voler trovare
tutte coerenti e sensate le voci che si fanno circolare quando si
prepara un'insurrezione. De' Nobili poi fu nominato un numero ancora
più grande. In primo luogo, naturalmente, D. Lelio Orsini, il quale per
verità era stato nominato da un pezzo, come colui che avendo in passato
grandemente favorito il Campanella ne' travagli sofferti, essendo
pur sempre in corrispondenza epistolare con lui, e dovendo venire a
governare lo Stato di Bisignano, sarebbesi trovato non lontano dal
campo della rivolta e in condizioni da poterla favorire ottimamente:
si è visto che il Campanella medesimo avea già fatta balenare questa
speranza a Maurizio, forse ne parlò pure a fra Gio. Battista di Pizzoni
il quale non mancò di affermarlo nella prima deposizione sua, e stando
così le cose, probabilmente egli dovè parlarne anche a fra Dionisio.
Furono nominati ancora Mario del Tufo e Geronimo del Tufo figlio
di Fabrizio, amici notissimi del Campanella e parenti del Vescovo
di Mileto: in ispecie si diede una grande importanza a Geronimo che
risedeva nel castello di Squillace, come ci mostra uno de' documenti
rinvenuti in Simancas, e dicevasi che avrebbe dato quel castello
a' rivoltosi, come di poi rivelò Gio. Paolo di Cordova. Non ci è
riuscito finora di trovare a qual titolo egli risedesse nel castello di
Squillace; abbiamo tuttavia trovato un documento che mostra essergli da
non molto tempo morto il padre Governatore appunto della provincia di
Calabria ultra, sicchè Geronimo anche per questo solo fatto avea potuto
conoscere ben da vicino gli uomini e le cose di quella regione; ed
abbiamo pure trovati due documenti di più anni dopo, che ce lo mostrano
Capitano di Tropea, sicchè può presumersi aver tenuto egualmente nel
1599 l'ufficio di Capitano in Squillace, ufficio ripigliato più tardi
in Tropea quando per la persona sua rimasero cancellati i ricordi della
tentata ribellione[295]. Fu nominato inoltre il Duca di Vietri Fabrizio
di Sangro, che abbiamo visto congiunto per doppia parentela a' Signori
Del Tufo, conosciuto certamente dal Campanella, carcerato già dal
Conte Olivares ed in isperanza d'imminente liberazione per parte del
successore Conte di Lemos giunto in Napoli fin dal 16 luglio; dippiù il
Marchese di S.^to Lucido Francesco Carafa, che abbiamo visto fuoruscito
in campagna ricercato dalla giustizia, e che perdurava tuttora in
questa condizione; infine il Principe di Bisignano Nicola Bernardino
Sanseverino, che abbiamo visto lungamente carcerato non che privato
dell'amministrazione de' suoi beni, e che allora sapevasi fuggito da
Napoli, ma disposto a tornare e desideroso di andarsene agli Stati
suoi in Calabria. Sommando tutto, si dicevano partecipanti e fautori
della congiura, oltre il Papa e in suo nome il Card.^l S. Giorgio,
cinque Vescovi e sei Nobili di famiglie primarie napoletane, senza
contare i Nobili di provincia, de' quali, al tempo cui siamo pervenuti,
si conosceva solamente il Barone di Cropani, come risulta dalla
confessione di Maurizio, mentre poi ne' processi se ne vide un certo
numero tra gl'inquisiti, a ragione od a torto. Questo fatto, ritenuto
da alcuni un grave argomento che la congiura fosse stata ben grossa,
tanto che il Campanella dovè avervi solamente una piccola parte,
ritenuto invece da altri un grave argomento che la congiura non avesse
mai esistito, sicchè tutto dovè essere un'invenzione degli ufficiali
Regii, può oramai ridursi al suo giusto valore e merita bene di essere
ponderato.
Certamente dall'esposizione minuta ed ordinata de' fatti si rileva
che il nome del Papa, sotto i cui auspicii avrebbe dovuto sorgere
la repubblica, e così pure i nomi de' Vescovi, furono messi innanzi
addirittura tardi, all'ultima ora, mentre per varii mesi non se
n'era parlato in tal guisa, ed anzi se n'era parlato in dispregio.
Si era detto che il Campanella avrebbe fatto nuove leggi e tolti gli
abusi nella Chiesa di Dio, gli abusi introdotti appunto dal Papa,
da' Cardinali e da' Vescovi, e si erano enunciati principii niente
ortodossi e del tutto ereticali che avrebbero dovuto imperare nella
repubblica. Non deposero mai altrimenti coloro i quali figurarono
sin da principio ne' convegni col Campanella anche essendo stati a
contatto di fra Dionisio prima dell'andata sua a Catanzaro (p. es.
il Caccìa, il Pisano, Maurizio); nemmeno parlarono mai del Papa quale
ispiratore del movimento Gio. Tommaso di Franza, Gio. Paolo di Cordova
e lo stesso Cesare Mileri; appena il Franza dichiarò vagamente che si
diceva trattarsi «di un negotio di gran qualità e _servitio di Dio_»,
la qual cosa neanche implicava propriamente gli auspicii del Papa.
Invece quelli di Catanzaro dell'ultima ora, sollecitati esclusivamente
da fra Dionisio, massime Biblia e Lauro, parlarono tanto del Papa e
de' Vescovi, da far credere che la mutazione di Stato fosse voluta e
promossa appunto dal Papa in servigio di Dio e della Santa Chiesa.
Sembrerebbe questo un artificio ideato da costoro al momento in
cui si rendevano denuncianti, per accrescere l'importanza del fatto
che svelavano al Governo Vicereale; ma abbiamo la Dichiarazione del
Campanella scritta in un momento in cui i garbugli non si erano ancora
tanto moltiplicati, ed essa attesta egualmente la partecipazione del
Papa e de' Vescovi essere stata divulgata da fra Dionisio, sicchè
intorno al fatto non può elevarsi alcun dubbio; nè deve sfuggire che
ne risultano smentite le affermazioni tardive del Campanella, espresse
nelle lettere del 1606-07 al Card.^l S. Giorgio, al Papa etc. che
cioè la partecipazione della Curia Romana, come la partecipazione
de' turchi, al pari delle eresie, furono invenzioni sue e de' frati
inquisiti per salvarsi[296]. Relativamente alla partecipazione di que'
parecchi Nobili, per certo anche da questo lato fra Dionisio si fece a
parlare con la più grande disinvoltura, dando per fatto sicuro il loro
aiuto morale e materiale; ma il Campanella medesimo avea dovuto dirne
qualche cosa, e per lo meno avea dovuto comunicare i discorsi fatti col
maggior numero di loro intorno alle prossime mutazioni, forse cercando
d'illudere, forse illudendosi egli pure sulla parte che avrebbero presa
allorchè il movimento si fosse mostrato serio e vigoroso. Ad ogni
modo è pure degno di nota che da principio si parlò solamente di D.
Lelio Orsini, e più tardi, assolutamente all'ultima ora, in Catanzaro
e da fra Dionisio, si parlò di tutti gli altri. — In fondo poi questa
miscela di elementi affatto eterogenei, resi anche più eterogenei dalla
partecipazione del Turco, quest'accordo del Papa e del Turco che allora
erano nemici davvero, e si facevano la guerra sul mare preparandosi a
farsela di nuovo anche in Ungheria, quest'accordo de' Vescovi e de'
Nobili che usurpavano a vicenda le rispettive giurisdizioni, e si
trovavano in lotte continue, questa tolleranza del Papa, de' Vescovi
e de' Nobili non solo pel Turco, ma anche per una repubblica nella
quale dovea viversi con comunanza de' beni e perfino delle donne, tutte
queste baie avrebbero fatto sorridere ognuno se le menti non fossero
state eccitate al maggior segno; ma si sa che quando si aspettano
mutazioni, le dicerie più strane possono correre e trovar credito senza
ombra di difficoltà. Vedremo che il Vicerè, non appena seppe queste
cose, le disse «una grande stravaganza, un'invenzione de' frati», e
non si ingannò; tuttavia, abbondando sempre in tenerezza verso la Curia
Romana, non lasciò mai di tenere gli occhi bene aperti sulle possibili
mire ambiziose di essa. In quanto a' Vescovi, potevano dar da pensare
specialmente quello di Mileto, che avea tollerato ed anche protetto
un principio di ribellione in Seminara con le grida di Viva il Papa,
più ancora quello di Nicastro, che malgrado gli accordi fatti non
si era mosso da Roma forse per qualche disegno occulto, e del resto,
dipendendo tutti dal Papa, bastava aver ritenuto la partecipazione del
Papa per ritenere la partecipazione di tutti loro; difatti veramente
il Vescovo di Nicastro teneva allora mano ad un intrigo nel Regno
e giunse fino a provvedere armi per esso, ma l'intrigo si riferiva
all'isola di Tremiti, non alla Calabria[297]. Quanto a' Nobili, una
nozione più esatta della condizione di ciascuno de' nominati bastava a
fare eliminare per quasi tutti la possibilità della loro partecipazione
alla congiura. Difatti D. Lelio Orsini, benchè avesse con la sua andata
a Madrid ottenuta una risoluzione favorevole intorno all'ufficio di
curatore ed amministratore de' beni di Bisignano assegnatogli dal
R.º Consiglio, aspettava ancora il _placet_ Regio, e l'aspettò poi
un bel pezzo, come si rileva da una sua lettera che abbiamo rinvenuta
nell'Archivio Mediceo: curatore di Bisignano, dopo la carcerazione del
Duca di Vietri, era stato nominato Gio. Serio di Somma, il quale già
trovavasi in Calabria anche con commissione contro i fuorusciti. Il
Principe di Bisignano poteva ritornare in Napoli sicuro di non esservi
ulteriormente carcerato, poichè sin dal gennaio 1599 S. M.^ta aveva
dato quest'ordine, ma tutte le sue pratiche dopo la fuga da Napoli
mostravano in lui ben altra intenzione che quella di ribellarsi;
difatti, dietro accordi col Duca di Sessa Ambasciatore spagnuolo a
Roma, il 13 agosto 1599 tornò nel Regno, ed in ottima intelligenza
col Vicerè andò ad abitare il suo palazzo a Chiaia. Il Duca di Vietri
non poteva esser liberato prima che fosse compiuta la sua causa, la
quale era appena cominciata; inutilmente, ad occasione dell'entrata in
Napoli del Vicerè Conte di Lemos, innanzi al suo palazzo al largo di S.
Domenico per tre giorni si era fatta gran festa con una spettacolosa
illuminazione, e due fontane di vino aveano per tre ore ogni giorno
rallegrato il popolino a sue spese; la durata della causa si protrasse
sino al febbraio del 1600, e non prima di tale data potè uscire di
carcere. Mario del Tufo per lo meno non era così potente da recare
aiuti considerevoli in una faccenda come quella di ribellarsi al Re
di Spagna; invece Geronimo del Tufo, per la sua speciale posizione,
poteva recare un aiuto da non doversi disprezzare, e vedremo infatti
che non appena fu conosciuta dal Governo la voce della partecipazione
di lui alla congiura, fu subito carcerato. Infine anche il Marchese
di S.^to Lucido, egualmente per la sua speciale condizione, confortata
da notevole ricchezza ed influenza, avrebbe potuto recare un aiuto da
doversi tanto meno disprezzare; ma appunto con costui il Campanella non
aveva mai avuta alcuna relazione, e come ci hanno mostrato le nostre
ricerche egli trovavasi allora rifugiato a Roma ed attendeva solo a
grandeggiare, sicchè la voce della sua partecipazione alla congiura
non avea davvero ombra di fondamento[298]. Non di meno, col mettere
innanzi i nomi di quegli alti personaggi, fra Dionisio potè dare un
prestigio grandissimo alla congiura, e col mettere innanzi i nomi de'
Vescovi, del Card.^l S. Giorgio e del Papa, potè ad un tempo farle
acquistare sempre maggiore prestigio ed anche attenuare l'impressione
destata dall'aiuto del Turco e dalla professione di principii
eterodossi, notizia che si era abbastanza diffusa e che non avea
potuto riuscire gradita a moltissimi fra coloro i quali avrebbero forse
preso parte alla ribellione: d'altronde l'ora della venuta del Turco
si avvicinava nè c'era più tempo da perdere, e questa circostanza,
ancor più dell'altra della sua esasperazione per la condanna avuta dal
Visitatore, ci apparisce un motivo plausibile dell'essere ricorso a
mezzi di eccitamento d'ogni genere, anche a mezzi del tutto diversi da
quelli che avea fin allora prescelti. Ed essi fruttarono molto bene,
giacchè fu raggranellato in Catanzaro un numero di congiurati non
indifferente, massime se si considera il breve tempo impiegatovi, come
ne' processi avremo occasione di vedere. In conclusione dunque l'aver
fatto figurare nella congiura alti personaggi fu un tardo e industrioso
ripiego di fra Dionisio: vedremo poi che nella sua confessione _in
tormentis_ il Campanella rivelò di aver detto, che dovendovi essere
_unum ovile et unus pastor_, egli ed altri avrebbero «predicato in
favore di questa repubblica profetizata in favore del Papa, et che
il Papa li avrebbe esaltati perchè si voleano pigliare alcuna parte
della Provintia»; ma evidentemente fu questo anche da parte sua un
tardo ed industrioso ripiego, che pur troppo riuscì ad aggravare la
posizione sua, mentre nè il Papa poteva proteggerlo come egli sperava,
nè il Governo poteva udire il nome del Papa senza un aggravamento de'
suoi sospetti. Ma se non si ebbe una congiura tanto grossa, se n'ebbe
tuttavia una abbastanza seria; nè deve sfuggire, che pur quando si
fecero figurare gli alti personaggi, il Campanella non fu lasciato
nell'ombra, ma invece fu sempre tenuto nel posto principale. Vedremo
che coloro i quali rivelarono la congiura al Governo, non posero a capo
di essa altri che lui, con la grande scienza, con l'assistenza del
diavolo, con l'intesa de' Nobili, de' Vescovi, del Papa e del Turco,
con le armi del gran numero de' congiurati specialmente fuorusciti,
e con la lingua de' molti predicatori di varii ordini monastici;
nè soltanto per queste rivelazioni, ma in verità per tutto ciò che
sappiamo del modo in cui la congiura si svolse, è chiarissimo che il
Campanella non vi prese una parte indiretta con le sue profezie, bensì
una parte direttissima con pratiche e maneggi d'ogni sorta.
Ci rimane ora a narrare cosa abbia fatto e detto il Campanella in
quest'ultimo periodo, durante l'agosto 1599, mentre fra Dionisio
compiva il suo lavoro in Catanzaro, riassumere i concetti che lasciò
intendere circa la futura repubblica ed i principii che avrebbero
dovuto imperarvi, vedere fino a qual punto poteva sperare in un felice
successo dell'insurrezione.
Egli non si mosse mai più da Stilo, avendo a fianco fra Domenico
Petrolo come compagno abituale, e fra Pietro di Stilo come Superiore
del convento. Non pare dubbio che in questo tempo abbia mantenute
corrispondenze epistolari anche in cifra: vedremo che il Petrolo,
al quale, malgrado i suoi terrori e tentennamenti, non si può negar
fede, disse e sostenne sempre di aver avuto sott'occhi, segnatamente
nel tempo della fuga, lettere in cifra venute al Campanella, che
il Campanella medesimo gli affermò essere di fra Gio. Battista di
Pizzoni; ed aggiungiamo che pure i delatori della congiura dissero
aver viste cifre e segni nelle mani di fra Dionisio, la qual cosa
verrebbe indirettamente confermata da quanto rivelava il Petrolo.
Nè sappiamo di altre relazioni personali di una certa intimità,
acquistate dal Campanella in tale periodo, oltre quelle già conosciute.
Nelle passeggiate l'accompagnava quasi sempre il Petrolo, il quale
ebbe poi a ricordare specialmente una contrada presso il convento
denominata Lanzari, dove il Campanella, che la ricorda pure nella
sua Dichiarazione, passeggiando gli avrebbe tenuto qualche discorso
confidenziale segnatamente intorno a principii religiosi[299]. Nella
cella, come ebbe a dire lo stesso Petrolo e in parte pure qualche
altro, continuarono i colloquii massimamente col Prestinace ed anche
col Vua, inoltre co' due Marullo, con Giulio Contestabile e il Di
Francesco, Paolo e Fabrizio Campanella, Giulio Presterà, Francesco
Vono e fra Scipione Politi. Una volta con taluni di costoro si
fece una scampagnata sul monte Consilino, il monte di Stilo lodato
dal Campanella anche nelle sue Poesie, e non vi mancò il discorso
della montagna, come quello del Redentore: ma di esso conosciamo
appena qualche frase, la quale del rimanente basta a mostrare che
vi si svolsero le più rosee speranze in un lieto avvenire; il monte
fu chiamato «monte pingue e di libertà». E senza dubbio a misura
che le speranze crescevano, vedendo le cose della congiura avviate
tanto bene, con gl'individui sopra nominati, e con altri anche, il
Campanella fu all'ultim'ora un po' meno guardingo, e di tratto in
tratto enunciò alcuni principii politici e religiosi, che ci fanno
capire con bastante larghezza quali idee fervessero nella sua mente:
gli stessi aderenti suoi furono allora più espansivi co' loro parenti
ed amici, onde accadde che solo durante la persecuzione venissero a
galla molte notizie del detto genere, le quali sembrarono di nuovo
conio e potrebbero tuttora credersi foggiate da' persecutori; ma
vedremo che non manca il modo di convincerci che tale opinione sarebbe
insostenibile, e che solamente può ammettersi la diffusione di una
parte di dette notizie per non avere gl'inquisitori serbato il silenzio
voluto dalle leggi. Vi furono per altro sempre cenni staccati, ed anche
semplici «motti» come li disse il Petrolo, giacchè que' principii,
in ispecie i religiosi, non riuscivano nemmeno graditi a tutti gli
aderenti: abbiamo infatti veduto che quando il Campanella diede qualche
barlume di riforma religiosa a Maurizio, costui dichiarò che non
vi avrebbe mai consentito; qui dobbiamo aggiungere che p. es. Paolo
Campanella, avendo una volta udite certe proposizioni intorno alla
Trinità ed all'Eucaristia, dichiarò al fratello Fabrizio che avrebbe
pagato 50 ducati per non udire quelle proposizioni; da ciò si vede
che gli uditori doverono di tempo in tempo rimanere scandalizzati, ma
sino a che durò il fascino della parola del Campanella, nessuno ebbe
ardire di fargli opposizione. Del resto, se con gli amici e parenti
spesso citati fu più o meno esplicito secondo il rispettivo grado di
familiarità, con tutti gli altri fece appena intendere qualche cosa
a sbalzi, bensì sempre in modo da destare un notevole entusiasmo,
segnatamente dal lato politico, acquistandosi il titolo di Messia, non
che di futuro Monarca del mondo.
Invano dunque si cercherebbe un quadro autentico, pieno ed intero,
delle istituzioni politiche e religiose che il Campanella si proponeva
di attuare con la futura repubblica; ma adunando le notizie sparse,
ed ordinandole, si potrà avere un quadro notevolissimo. Basterà
dare dapprima uno sguardo a ciò che fecero conoscere fra Pietro di
Stilo e il Petrolo, i quali si trovarono più strettamente uniti al
Campanella appunto all'ultima ora, e poi, per le convenienze della
causa, a suggestione del medesimo Campanella, non tacquero le eresie
da lui enunciate; quindi nel modo più sommario possibile, a fine
di non incorrere in eccessive ripetizioni, dare un cenno di ciò che
vedremo raccolto dal Vescovo di Squillace in un singolare processo, nel
quale tra moltissimi interrogati figurarono anche i parenti liberi di
Giulio e Marcantonio Contestabile, buona parte dei Carnevali, alcuni
parenti del Prestinace, di fra Pietro di Stilo ec., Giulio Presterà
e Francesco Vono con altri amici, conoscenti, estranei, dietro una
citazione larghissima; aggiungendovi anche le notizie più degne di
fede raccolte ne' processi principali, alcune delle quali abbiamo
già avuta occasione di narrare, e mettendo un po' d'ordine in tutta
questa farragine di cose, si avrà ciò che si cerca, non senza un
certo riscontro molto notevole, onde ne rimane accresciuto il grado
di credibilità. Naturalmente questa lunga serie di detti e fatti del
Campanella non appartiene tutta all'ultimo periodo della congiura, ma,
come abbiamo notato, vi appartiene per la più gran parte, essendosi
il Campanella reso mano mano più esplicito; se non che oramai, al
punto cui siamo pervenuti, una precisione cronologica, mentre riesce
impossibile, riesce anche superflua, e senza mettere interamente da
banda la cronologia, conviene sforzarsi di avere innanzi agli occhi
tutto il complesso delle idee manifestate dal Campanella, onde farsene
un concetto ben chiaro e meno fallace.
Guardiamo dapprima separatamente ciò che si seppe dalle rivelazioni
di fra Pietro di Stilo e fra Domenico Petrolo. Secondo fra Pietro
di Stilo, come abbiamo avuta occasione di dire anche altre volte,
in presenza di lui e poi in presenza pure del Prestinace, il
Campanella manifestò che era in aspettativa di divenire Monarca del
mondo, avendoglielo presagito anche un astrologo nelle carceri del
S.^to Officio. Inoltre diceva che il Papa e il Re si accordavano
a' latrocinii, che l'elezione del Papa non potea ritenersi canonica
essendo le voci corrotte e riducendosi più voci ad una sola pel piatto
che il Re donava a' Cardinali, che i Cardinali erano tiranni e propensi
alla lussuria della peggiore specie; dippiù si burlava de' peccati
della carne, de' quali «parlava assai largo» non ammettendo neanche
gran differenza tra essi, e dicendo del peccato contro natura che era
«un dito più sopra o un dito più giù nell'inferno» (evidentemente uno
de' motteggi del Campanella). Si burlava del pari de' miracoli dicendo
che erano «un'elavatione di mente..., un'applicatione de intentione
di quello alla cui persona si faceva il miracolo», e che a questo
modo ognuno potea farne ed egli ancora ne avrebbe fatti in prova
della sua scienza e delle sue opere; infine avea detto al Petrolo
essere il sacrificio dell'altare preferibile a quello della legge
antica, tuttavia non esser vero, non contenendosi nell'ostia il corpo
di Cristo. Secondo il Petrolo, era intenzione del Campanella mutare
la provincia in repubblica, servendosi di due mezzi, della lingua,
e delle armi specialmente de' banditi e del Turco, al quale avea
mandato Maurizio de Rinaldis; e per predicare la libertá facea gran
capitale del Pizzoni, di fra Dionisio, di fra Pietro e di lui ancora
(confessione a proprio danno che rende il Petrolo degno di fede, benchè
nelle cose di eresia, per insinuazione dello stesso Campanella, avesse
detto troppo e lasciato che gl'Inquisitori caricassero le tinte).
Dopo di avere discorso in pubblico delle profezie, il Campanella
privatamente gli diceva che quelle profezie parlavano di lui, e che
voleva predicare la libertá e contro gli abusi della Chiesa; e che
tutte le genti hanno avuto i loro sacrifizii e il nostro era migliore
di quello degli Ebrei, ma pure avea certe superstizioni e precisamente
quella che nell'ostia ci fosse Iddio; che non c'erano miracoli, e
ciò che dicevasi delle resurrezioni dovea attribuirsi ad «asmi et
occupationi di core», compresa la resurrezione di Lazzaro, la quale
era stata una finzione di Marta e Maddalena amiche di Cristo, avendo
esse anche preparate industriosamente le cose in modo da far sentire il
fetore del quatriduano; che la fornicazione non era quel peccato che si
diceva, potendosi ogni membro adoperare all'uso cui era destinato; che
non c'erano diavoli nè inferno nè paradiso, e se ne burlava, dicendo,
allorchè si parlava de' diavoli e dell'inferno, «si pigliano là alla
caldara della pece», ed allorchè si parlava della gloria del cielo, «oh
questo mondo è buono e bello»; infine diceva che Iddio era la natura,
ed all'ultima ora, parlandosi de' fichi pe' quali potè peccare Adamo,
disse che quelle erano baie.
Veniamo alle notizie più cospicue e più credibili, che si ebbero
dalle più diverse provenienze ne' processi principali, oltrechè nel
processo detto di Squillace. Ricordiamo che Maurizio seppe doversi
fondare una repubblica nella quale si vivrebbe in comune, si farebbe
la generazione da' soli valorosi, si brucerebbero i libri latini di
fede, si toglierebbero gli abusi della religione, e il Caccìa seppe che
si farebbe una legge migliore di quella de' Cristiani e si muterebbero
anche le vesti; aggiungiamo che Felice Gagliardo seppe da Cesare Pisano
(quindi per provenienza di fra Dionisio), che si sarebbe usata una
tabanella bianca, da scendere fino alle ginocchia con maniche lunghe,
e un berretto ligato a modo di turbante, si sarebbero bruciati i libri
(_sic_), composto un nuovo statuto, liberate le monache e fatto il
_crescite_. Queste notizie del fare il _crescite_ e dell'indossare
nuova foggia di abiti vennero confermate anche da diversi in Squillace,
segnatamente da Fabrizio Carnevale e da Gio. Jacovo Prestinace, ma
secondo una voce pubblica: e fu confermato egualmente da diversi che
il monte di Stilo dovesse dirsi monte pingue e di libertà. Parecchi
ne' processi principali affermarono che il Campanella avesse detto
non esistere Dio, Dio essere la natura etc., la Trinità essere una
chimera, viversi nel mondo a caso, non essere l'anima immortale, non
esistere nè paradiso, nè purgatorio, nè inferno, nè demonii; ma nel
processo di Squillace nulla venne in luce intorno al negar Dio, bensì
tutto il resto fu confermato; e non sembra dubbio che le proposizioni
del Campanella alludessero ad un concetto di Dio, della Trinità, de'
luoghi di premio e di pena, degli angeli buoni e tristi, diverso da
quello ricevuto, senza aver mai negato tutto ciò, massime poi senza
aver mai negato Dio creatore e l'immortalità dell'anima, e che le
proposizioni anzidette sieno state diffuse da fra Dionisio per progetto
e quindi attribuite al Campanella, ovvero anche ripetute dal volgo,
nel quale già circolavano insieme con diverse altre ed attribuite
sempre al Campanella[300]. Solamente intorno a Gesù, a' suoi miracoli,
all'ecclissi avvenuta nel tempo della sua morte, alla resurrezione,
le notizie raccolte in tutti i processi si accordarono a confermare
che egli non credesse alla divinità di Gesù (secondochè avea già
fatto per la prima volta tralucere a Maurizio), e quindi non credesse
nemmeno a tutto il resto compresa la verginità di Maria. Così avrebbe
detto che Gesù era stato capo di setta, brav'uomo al pari di Mosè e di
Maometto; che la resurrezione di Lazzaro era stata concertata da Marta
e Maddalena e da Lazzaro medesimo, persone amiche di Gesù; che tutti
gli altri miracoli erano stati narrati dagli Apostoli, i quali aveano
scritta la Bibbia per introdurre la fede e poi ogni nazione l'aveva
alterata per conto suo, e pure il miracolo di Mosè nel mar rosso era
dovuto al flusso e riflusso del mare e che ognuno poteva far miracoli
ed egli pure ne avrebbe fatti; che l'ecclissi nel tempo della morte di
Gesù era stata accidentale e particolare, non miracolosa ed universale;
che nella faccenda della resurrezione o poteva essere stato messo in
croce un altro invece sua, o poteva essere stato il corpo suo sottratto
e nascosto secondo il costume di varii legislatori. Del pari intorno a'
Sacramenti, le notizie raccolte in tutti i processi confermarono essere
da lui ritenuti istituzioni umane; segnatamente l'Eucaristia essere
non altro che una commemorazione di Gesù, ed il Battesimo non essere
indispensabile alla salvazione. È superfluo dire come considerasse gli
atti degli Apostoli, tutto l'organismo della Chiesa e i precetti di
essa, l'autorità del Papa, i Cardinali, i Prelati, la scomunica, il
precetto del non mangiare carne in determinati giorni. Nel processo di
Squillace vennero in luce diversi aneddoti su questi particolari, e li
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