I promessi sposi. - 36

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«Ebbene, cosa credi?» rispose Agnese: «glieli manderò davvero. Povero
giovine! Perchè pensi tu ch'io fossi così contenta di que' danari?
Ma...! io era proprio venuta qui tutta contenta. Basta, io glieli
manderò, povero Renzo! ma anche lui... so quel che dico; certo che i
danari fanno piacere a chi n'ha bisogno; ma questi non saranno quelli
che lo faranno ingrassare.»
Lucia ringraziò la madre di quella pronta e liberale condiscendenza,
con una gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l'avesse
osservata, che il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più
che lei medesima non lo credesse.
«E senza di te, che farò io povera donna?» disse Agnese, piangendo
anch'essa.
«E io senza di voi, povera mamma? e in casa di forestieri? e laggiù
in quel Milano...! Ma il Signore sarà con tutt'e due; e poi ci farà
tornare insieme. Tra otto o nove mesi ci rivedremo; e di qui allora,
e anche prima, spero, avrà accomodate le cose Lui, per riunirci.
Lasciamo fare a Lui. La chiederò sempre sempre alla Madonna questa
grazia. Se avessi qualche altra cosa da offrirle, lo farei; ma è tanto
misericordiosa, che me l'otterrà per niente.»
Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di
conforto, di rammarico e di rassegnazione, con molte raccomandazioni e
promesse di non dir nulla, con molte lacrime, dopo lunghi e rinnovati
abbracciamenti, le donne si separarono, promettendosi a vicenda di
rivedersi il prossimo autunno, al più tardi; come se il mantenere
dipendesse da loro, e come però si fa sempre in casi simili.
Intanto cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse
saper nulla di Renzo. Nè lettere nè imbasciate da parte di lui, non
ne veniva: di tutti quelli del paese, o del contorno, a cui potè
domandare, nessuno ne sapeva più di lei.
E non era la sola che facesse invano una tal ricerca: il cardinal
Federigo, che non aveva detto per cerimonia alle povere donne, di
voler prendere informazioni del povero giovine, aveva infatti scritto
subito per averne. Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuto
la risposta in cui gli si diceva che non s'era potuto trovar recapito
dell'indicato soggetto; che veramente era stato qualche tempo in casa
d'un suo parente, nel tal paese, dove non aveva fatto dir di sè; ma,
una mattina, era scomparso all'improvviso, e quel suo parente stesso
non sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che ripetere certe voci
in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovine arrolato
per il Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un
fiume: che non si mancherebbe di stare alle velette, se mai si potesse
saper qualcosa di più positivo, per farne subito parte a sua signoria
illustrissima e reverendissima.
Più tardi, quelle ed altre voci si sparsero anche nel territorio di
Lecco, e vennero per conseguenza agli orecchi d'Agnese. La povera donna
faceva di tutto per venire in chiaro qual fosse la vera, per arrivare
alla fonte di questa e di quella, ma non riusciva mai a trovar di più
di quel dicono, che, anche al giorno d'oggi, basta da sè ad attestar
tante cose. Talora, appena glien'era stata raccontata una, veniva uno e
le diceva che non era vero nulla; ma per dargliene in cambio un'altra,
ugualmente strana o sinistra. Tutte ciarle: ecco il fatto.
Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo
Fernandez di Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor
residente di Venezia in Milano, perchè un malandrino, un ladrone
pubblico, un promotore di saccheggio e d'omicidio, il famoso Lorenzo
Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato
sommossa per farsi liberare, fosse accolto e ricettato nel territorio
bergamasco. Il residente avea risposto che la cosa gli riusciva nuova,
e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella
spiegazione che il caso avesse portato.
A Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l'inclinazione
degli operai di seta milanesi a trasportarsi nel territorio
bergamasco, e quindi di far che ci trovassero molti vantaggi e,
soprattutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza.
Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che
sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in
confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese,
e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando
anche nome per qualche tempo. Bortolo intese per aria, non domandò
altro, corse a dir la cosa al cugino, lo prese con sè in un calessino,
lo condusse a un altro filatoio, discosto da quello forse quindici
miglia, e lo presentò, sotto il nome d'Antonio Rivolta, al padrone,
ch'era nativo anche lui dello stato di Milano, e suo antico conoscente.
Questo, quantunque l'annata fosse scarsa, non si fece pregare a
ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e abile, da un
galantuomo che se n'intendeva. Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi
dell'acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine
dovesse essere un po' stordito, perchè, quando si chiamava: Antonio! le
più volte non rispondeva.
Poco dopo, venne un ordine da Venezia, in istile pacato, al capitano
di Bergamo, che prendesse e desse informazione, se nella sua
giurisdizione, e segnatamente nel tal paese, si trovasse il tal
soggetto. Il capitano, fatte le sue diligenze, come aveva capito che
si volevano, trasmise la risposta negativa, la quale fu trasmessa al
residente in Milano, che la trasmettesse a don Gonzalo Fernandez di
Cordova.
Non mancavan poi curiosi, che volessero saper da Bortolo il perchè
quel giovine non c'era più, e dove fosse andato. Alla prima domanda
Bortolo rispondeva: «ma! è scomparso.» Per mandar poi in pace i più
insistenti, senza dar loro sospetto di quel che n'era davvero, aveva
creduto bene di regalar loro, a chi l'una, a chi l'altra delle notizie
da noi riferite di sopra: però, come cose incerte, che aveva sentite
dire anche lui, senza averne un riscontro positivo.
Ma quando la domanda gli venne fatta per commission del cardinale,
senza nominarlo, e con un certo apparato d'importanza e di mistero,
lasciando capire ch'era in nome d'un gran personaggio, tanto più
Bortolo s'insospettì, e credè necessario di risponder secondo il
solito; anzi, trattandosi d'un gran personaggio, diede in una volta
tutte le notizie che aveva stampate a una a una, in quelle diverse
occorrenze.
Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorte, l'avesse
proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse
del poco rispetto usato, e delle cattive parole dette da colui al
suo re moro incatenato per la gola, volesse fargliela pagare; o che
lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche
fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano
con Annibale. Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in testa, per
darsi tanto pensiero de' fatti di Renzo; e se parve che se ne desse,
nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio,
senza volerlo, e senza saperlo nè allora nè mai, si trovò, con un
sottilissimo e invisibile filo, attaccato, a quelle troppe e troppo
gran cose.


CAPITOLO XXVII.

Già più d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora
bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga,
secondo di quel nome; ma c'è occorso sempre in momenti di gran fretta:
sicchè non abbiam mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita.
Ora però, all'intelligenza del nostro racconto si richiede proprio
d'averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la
storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi
medesimi, dobbiam supporre che quest'opera non possa esser letta se non
da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per
infarinarne chi n'avesse bisogno.
Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato, in linea
di successione, Carlo Gonzaga, capo d'un ramo cadetto trapiantato in
Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhétel, era entrato al
possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta
appunto ce l'aveva fatto lasciar nella penna. La corte di Madrid, che
voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que' due
feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d'una ragione
(perchè le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s'era
dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova
un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo
Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di
Lorena. Don Gonzalo, ch'era della casa del gran capitano, e ne portava
il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo
di condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco,
perchè questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l'intenzioni e
precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col duca di
Savoia un trattato d'invasione e di divisione del Monferrato; e n'aveva
poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, facendogli
creder molto agevole l'acquisto di Casale, ch'era il punto più difeso
della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome di
questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino
alla sentenza dell'imperatore; il quale, in parte per gli ufizi altrui,
in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata l'investitura al
nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati
controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di
dovere. Cosa alla quale il Nevers non s'era voluto piegare.
Aveva anche lui amici d'importanza: il cardinale di Richelieu, i
signori veneziani, e il papa, ch'era, come abbiam detto, Urbano VIII.
Ma il primo, impegnato allora nell'assedio della Roccella e in una
guerra con l'Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre,
Maria de' Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla casa di
Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan
moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse
calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la
corte di Madrid e col governatore di Milano, stavano sulle proteste,
sulle proposte, sull'esortazioni, placide o minacciose, secondo i
momenti. Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo
favore presso gli avversari, faceva progetti d'accomodamento; di metter
gente in campo non ne voleva saper nulla.
Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente,
cominciar l'impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla
sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia,
l'assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che
s'era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La
corte non l'aiutava a seconda de' suoi desidèri, anzi gli lasciava
mancare i mezzi più necessari; l'alleato l'aiutava troppo: voglio dire
che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella
assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si
possa dire; ma temendo, se faceva appena un po' di rumore, che quel
Carlo Emanuele, così attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati, come
prode nell'armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio,
mandarla giù, e stare zitto. L'assedio poi andava male, in lungo,
ogni tanto all'indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto
degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche
storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la
verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente
così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia
restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, _ceteris
paribus_, anche soltanto un po' meno danneggiati i tegoli di Casale.
In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci
accorse in persona.
Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della
fuga ribelle e clamorosa di Renzo, de' fatti veri e supposti ch'erano
stati cagione del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo
tale s'era rifugiato sul territorio di Bergamo. Questa circostanza
fermò l'attenzione di don Gonzalo. Era informato da tutt'altra parte,
che a Venezia avevano alzata la cresta, per la sommossa di Milano; che
da principio avevan creduto che sarebbe costretto a levar l'assedio da
Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e in gran
pensiero: tanto più che, subito dopo quell'avvenimento, era arrivata
la notizia, sospirata da que' signori e temuta da lui, della resa
della Roccella. E scottandogli molto, e come uomo e come politico,
che que' signori avessero un tal concetto de' fatti suoi, spiava ogni
occasione di persuaderli, per via d'induzione, che non aveva perso
nulla dell'antica sicurezza; giacchè il dire espressamente: non ho
paura, è come non dir nulla. Un buon mezzo è di fare il disgustato,
di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente di
Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella sua
faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sè (notate tutto;
chè questa è politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver
parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a
tutto; fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo; come sapete
anche quel che ne venne in conseguenza. Dopo, non s'occupò più d'un
affare così minuto e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che fu
un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra Casale, dov'era
tornato, e dove aveva tutt'altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come
un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per farsi
tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che
un'ombra; si rammentò della cosa, ebbe un'idea fugace e confusa del
personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.
Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s'era fatto veder per aria,
doveva supporre tutt'altro che una così benigna noncuranza, stette
un pezzo senz'altro pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio,
che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove
alle donne, e d'aver le loro; ma c'eran due gran difficoltà. Una,
che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perchè il
poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso della
parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor
Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata,
come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere,
mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era
dunque costretto a mettere un terzo a parte de' suoi interessi, d'un
segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di
cui uno si potesse fidare, a que' tempi non si trovava così facilmente;
tanto più in un paese dove non s'avesse nessuna antica conoscenza.
L'altra difficoltà era d'avere anche un corriere; un uomo che andasse
appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e darsi
davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili
a trovarsi in un uomo solo.
Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non
sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credè bene di fare
accluder la lettera per Agnese in un'altra diretta al padre Cristoforo.
Lo scrivano prese anche l'incarico di far recapitare il plico; lo
consegnò a uno che doveva passare non lontano da Pescarenico; costui lo
lasciò, con molte raccomandazioni, in un'osteria sulla strada, al punto
più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato a un convento,
ci arrivò; ma cosa n'avvenisse dopo, non s'è mai saputo. Renzo, non
vedendo comparir risposta, fece stendere un'altra lettera, a un di
presso come la prima, e accluderla in un'altra a un suo amico di Lecco,
o parente che fosse. Si cercò un altro latore, si trovò; questa volta
la lettera arrivò a chi era diretta. Agnese trottò a Maggianico, se la
fece leggere e spiegare da quell'Alessio suo cugino: concertò con lui
una risposta, che questo mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla
ad Antonio Rivolta nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non
così presto come noi lo raccontiamo. Renzo ebbe la risposta, e fece
riscrivere. In somma, s'avviò tra le due parti un carteggio, nè rapido
nè regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.
Ma per avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come
andassero allora tali cose, anzi come vadano; perchè, in questo
particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.
Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si
rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra
quelli della sua condizione, perchè degli altri si perita, o si fida
poco; l'informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti:
e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il
letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio,
propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna,
mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li corregge,
li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo
gli pare che torni meglio alla cosa: perchè, non c'è rimedio, chi ne
sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro
mani; e quando entra negli affari altrui, vuoi anche fargli andare un
po' a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce
sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di
dire tutt'altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa.
Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente,
che anche lui non abbia pratica dell'abbiccì, la porta a un altro
dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono
delle questioni sul modo d'intendere; perchè l'interessato, fondandosi
sulla cognizione de' fatti antecedenti, pretende che certe parole
voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della
composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra. Finalmente
bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui
l'incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta,
va poi soggetta a un'interpretazione simile. Che se, per di più, il
soggetto della corrispondenza è un po' geloso; se c'entrano affari
segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che
la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche
l'intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per
poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra
di loro come altre volte due scolastici che da quattr'ore disputassero
sull'entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci
avesse poi a toccare qualche scappellotto.
Ora, il caso de' nostri due corrispondenti era appunto quello che
abbiam detto. La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte
materie. Da principio, oltre un racconto della fuga, molto più conciso,
ma anche più arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio
delle sue circostanze attuali; dal quale, tanto Agnese quanto il
suo turcimanno furono ben lontani di ricavare un costrutto chiaro e
intero: avviso segreto, cambiamento di nome, esser sicuro, ma dovere
star nascosto; cose per sè non troppo famigliari a' loro intelletti,
e nella lettera dette anche un po' in cifra. C'era poi delle domande
affannose, appassionate, su' casi di Lucia, con de' cenni oscuri e
dolenti, intorno alle voci che n'erano arrivate fino a Renzo. C'erano
finalmente speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell'avvenire,
e intanto promesse e preghiere di mantener la fede data, di non perder
la pazienza nè il coraggio, d'aspettar migliori circostanze.
Dopo un po' di tempo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire
nelle mani di Renzo una risposta, co' cinquanta scudi assegnatigli
da Lucia. Al veder tant'oro, Renzo non sapeva cosa si pensare; e
con l'animo agitato da una maraviglia e da una sospensione che non
davan luogo a contentezza, corse in cerca del segretario, per farsi
interpretar la lettera, e aver la chiave d'un così strano mistero.
Nella lettera, il segretario d'Agnese, dopo qualche lamento sulla poca
chiarezza della proposta, passava a descrivere, con chiarezza a un di
presso uguale, la tremenda storia di quella persona (così diceva); e
qui rendeva ragione de' cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto,
ma per via di perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e aperte,
il consiglio di mettere il cuore in pace, e di non pensarci più.
Renzo, poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete:
tremava, inorridiva, s'infuriava, di quel che aveva capito, e di quel
che non aveva potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il
terribile scritto, ora parendogli d'intender meglio, ora divenendogli
buio ciò che prima gli era parso chiaro. E in quella febbre di
passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla penna, e
rispondesse. Dopo l'espressioni più forti che si possano immaginare
di pietà e di terrore per i casi di Lucia, «scrivete,» proseguiva
dettando, «che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo
metterò mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e
che i danari non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito,
per la dote della giovine; che già la giovine dev'esser mia; che io
non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna
c'entra per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far
dispetto e per mancar di parola, non l'ho sentito mai; e che codesto
non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter su casa qui;
e che, se ora sono un po' imbrogliato, l'è una burrasca che passerà
presto;» e cose simili.
Agnese ricevè poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio
continuò, nella maniera che abbiam detto.
Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere
che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo,
e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o,
per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla.
Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile
riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo, per mandarla ad effetto.
Stava assidua al lavoro, cercava d'occuparsi tutta in quello: quando
l'immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni
a mente. Ma quell'immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non
veniva per lo più, così alla scoperta; s'introduceva di soppiatto
dietro all'altre, in modo che la mente non s'accorgesse d'averla
ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c'era. Il pensiero di Lucia
stava spesso con la madre: come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale
veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante
volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le
memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poverina si
lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì
compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò.
Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e
meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a
un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a
volerlo. Ma c'era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto
suo a levarle dall'animo colui, non aveva trovato miglior espediente
che di parlargliene spesso. «Ebbene?» le diceva: «non ci pensiam più a
colui?»
«Io non penso a nessuno,» rispondeva Lucia.
Donna Prassede non s'appagava d'una risposta simile; replicava che ci
volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle
giovani, le quali, diceva, «quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed
è lì che inclinano sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto,
ragionevole, d'un galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche
accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo,
è piaga incurabile.» E allora principiava il panegirico del povero
assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva
far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte, anche
al suo paese.
Lucia, con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno
che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna,
assicurava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva
mai fatto parlar di sè, altro che in bene; avrebbe voluto, diceva,
che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far testimonianza.
Anche sull'avventure di Milano, delle quali non era ben informata,
lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de' suoi
portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di
difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir
proprio la parola con la quale spiegava a sè stessa il suo sentimento,
come prossimo. Ma da queste apologie donna Prassede ricavava nuovi
argomenti per convincer Lucia, che il suo cuore era ancora perso dietro
a colui. E per verità, in que' momenti, non saprei ben dire come la
cosa stesse. L'indegno ritratto che la vecchia faceva del poverino,
risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai, nella
mente della giovine l'idea che vi s'era formata in una così lunga
consuetudine; le rimembranze compresse a forza, si svolgevano in folla;
l'avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima;
l'odio cieco e violento faceva sorger più forte la pietà: e con questi
affetti, chi sa quanto ci potesse essere o non essere di quell'altro
che dietro ad essi s'introduce così facilmente negli animi; figuriamoci
cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come
si sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato
molto in lungo; che le parole finivan presto in pianto.
Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da
qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l'avrebbero
tocca, e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti,
senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno
ben trattenere l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatto
però bene il suo dovere per quella volta, dalle stoccate e da' rabbuffi
veniva all'esortazioni, ai consigli, conditi anche di qualche lode, per
temperar così l'agro col dolce, e ottener meglio l'effetto, operando
sull'animo in tutti i versi. Certo, di quelle baruffe (che avevan
sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine), non rimaneva
alla buona Lucia propriamente astio contro l'acerba predicatrice, la
quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza; e anche in questo,
si vedeva una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una
sollevazione di pensieri e d'affetti tale, che ci voleva molto tempo e
molta fatica per tornare a quella qualunque calma di prima.
Buon per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far
del bene; sicchè le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre
il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o
meno, d'esser raddirizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni
di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era
obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sè;
aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da
pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate;
e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due
case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più
faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli,
e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache,
non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi
cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e
senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a
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