I promessi sposi. - 43

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provvedeva scarsamente, anche in parole; s'arrivò a quest'eccesso
d'impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come
delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per
esempio, d'abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte
le madri di peste: la Sanità propose che s'instituisse un ricovero
per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse
per loro; e non potè ottener nulla. «Si doueua non di meno,» dice il
Tadino, «compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si
trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldadesca senza regola,
et rispetto alcuno; come molto meno nell'infelice Ducato, atteso che
aggiutto alcuno, nè prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se
non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li
Soldati»[37]. Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode
del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si
combatta!
[37] Pag. 117.
Così pure, trovandosi colma di cadaveri un'ampia, ma unica fossa,
ch'era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in
quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri,
che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato
braccia per il tristo lavoro, s'eran ridotti a dire di non saper più
che partito prendere. Nè si vede come sarebbe andata a finire, se non
veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ricorse,
per disperato, con le lacrime agli occhi, a que' due bravi frati che
soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s'impegnò a dargli,
in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a
otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a
quello che si potesse preveder di peggio nell'avvenire. Con un frate
compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò
fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l'autorità del
tribunale, parte con quella dell'abito e delle sue parole, ne raccolse
circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedi poi
dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno
prefisso, la sua promessa si trovò adempita.
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse
paghe e d'onori, a fatica e non subito, se ne potè avere; ma molto
men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a
segno di temere che ci s'avesse a morire anche di fame; e più d'una
volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il
bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono
di misericordia privata: chè, in mezzo allo stordimento generale,
ali'indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sè, ci
furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri
in cui la carità nacque al cessare d'ogni allegrezza terrena; come,
nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e
di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di
coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà,
assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati
per impiego.
Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai
doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai
lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si
pativa, ce n'era; sempre si videro mescolati, confusi co' languenti,
co' moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai
soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali;
prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di
sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto
noni, all'incirca.
[Illustrazione: Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre
crescendo.... (pag. 470)]
Federigo dava a tutti, com'era da aspettarsi da lui, incitamento ed
esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e
facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini,
che s'allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò
un tal consiglio, e resistette all'istanze, con quell'animo, con
cui scriveva ai parrochi: «siate disposti ad abbandonar questa vita
mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra:
andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una
vita, quando ci sia da guadagnare un'anima a Cristo[38].» Non trascurò
quelle cautele che non gl'impedissero di fare il suo dovere (sulla
qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non
curò il pericolo, nè parve che se n'avvedesse, quando, per far del
bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici,
coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare
chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti
dove altri eran morti, volle che fosse aperto l'adito a chiunque
avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione
agl'infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando
soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto
le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di
consolazione e di coraggio. Si cacciò insomma e visse nel mezzo della
pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne uscito illeso.
[38] Ripamonti, pag. 164.
Così, ne' pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual
si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di
virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d'ordinario
ben più generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni
che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion
comune, nel rilasciamento d'ogni forza pubblica, una nuova occasione
d'attività, e una nuova sicurezza d'impunità a un tempo. Che anzi,
l'uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle
mani de' peggiori tra loro. All'impiego di monatti e d'apparitori non
s'adattavano generalmente che uomini sui quali l'attrattiva delle
rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni
naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole,
intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de'
commissari; sopra questi e quelli eran delegati, come abbiam detto,
in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l'autorità di provveder
sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose
camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni
giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via,
di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più
nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente,
arbitri d'ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e,
senza parlar de' rubamenti, e come trattavano gl'infelici ridotti
dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette
e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando
di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano
riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi,
ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti
scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli
altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse,
e l'afferma anche il Tadino[39], che monatti e apparitori lasciassero
cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la
pestilenza, divenuta per essi un'entrata, un regno, una festa. Altri
sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a
un piede, com'era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso
del loro avvicinarsi, s'introducevano nelle case a farne di tutte le
sorte. In alcune, aperte e vôte d'abitanti, o abitate soltanto da
qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva,
a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan
lo stesso, e anche cose peggiori. Del pari con la perversità, crebbe
la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo
sbalordimento, e dall'agitazione delle menti, una forza straordinaria,
produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a
rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell'unzioni, la quale,
ne' suoi effetti, ne' suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto,
un'altra perversità. L'immagine di quel supposto pericolo assediava e
martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente.
«E mentre,» dice il Ripamonti, «i cadaveri sparsi, o i mucchi di
cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra' piedi, facevano della
città tutta come un solo mortorio, c'era qualcosa di più brutto, di
più funesto, in quell'accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e
mostruosità di sospetti... Non del vicino soltanto si prendeva ombra,
dell'amico, dell'ospite; ma que' nomi, que' vincoli dell'umana carità,
marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore:
e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto
nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio.»
[39] Pag. 102.
La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i
giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da
principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi
dall'ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette
che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell'ungere,
un'attrattiva che dominasse le volontà. I vaneggiamenti degl'infermi
che accusavan sè stessi di ciò che avevan temuto dagli altri,
parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile
d'ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se
accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che
s'erano figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto
probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e
dell'affermazioni di molti scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo
de' processi per stregoneria, le confessioni, non sempre estorte,
degl'imputati, non serviron poco a promovere e a mantener l'opinione
che regnava intorno ad essa: che, quando un'opinione regna per lungo
tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte
le maniere, a tentar tutte l'uscite, a scorrer per tutti i gradi della
persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che
una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di
farla.
Tra le storie che quel delirio dell'unzioni fece immaginare, una
merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per
il giro che fece. Si raccontava, non da tutti nell'istessa maniera
(che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di
presso, che un tale, il tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza
del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran personaggio, con
una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti,
e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a
guardare, la carrozza s'era fermata; e il cocchiere l'aveva invitato a
salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano
smontati alla porta d'un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la
compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne
e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente, gli erano
state fatte vedere gran casse di danaro, e detto che ne prendesse
quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto
d'unguento, e andasse con esso ungendo per la città. Ma non avendo
voluto acconsentire, s'era trovato, in un batter d'occhio, nel medesimo
luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal
popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo
di peso[40], girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una
stampa: l'elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo,
per domandargli cosa si dovesse credere de' fatti maravigliosi che si
raccontavan di Milano; e n'ebbe in risposta ch'eran sogni.
[40] Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat irrisa. De peste
etc., pag. 77.
D'ugual valore, se non in tutto d'ugual natura, erano i sogni de'
dotti; come disastrosi del pari n'eran gli effetti. Vedevano, la più
parte di loro, l'annunzio e la ragione insieme de' guai in una cometa
apparsa l'anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove,
«inclinando,» scrive il Tadino, «la congiontione sodetta sopra questo
anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. _Mortales
parat morbos, miranda videntur._» Questa predizione, cavata, dicevano,
da un libro intitolato _Specchio degli almanacchi perfetti_, stampato
in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un'altra cometa,
apparsa nel giugno dell'anno stesso della peste, si prese per un nuovo
avviso; anzi per una prova manifesta dell'unzioni. Pescavan ne' libri,
e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano,
manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i
molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti:
di moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent'altri
autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di
veleni, di malíe, d'unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il
Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla,
quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in
ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb'essere
uno de' più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più
uomini che l'imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui
_Disquisizioni Magiche_, (il ristretto di tutto ciò che gli uomini
avevano, fino a' suoi tempi, sognato in quella materia) divenute il
testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d'un secolo,
norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.
Da' trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva
accomodar con le sue idee; da' trovati della gente istruita, il volgo
prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si
formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici
che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il
Tadino, il quale l'aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d'occhio,
per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che
l'era peste, e s'attaccava col contatto, che non mettendovi riparo,
ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti
medesimi cavare argomento certo dell'unzioni venefiche e malefiche;
lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano,
aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi
addurre in prova dell'unzioni e della congiura diabolica, un fatto di
questa sorte: che due testimoni deponevano d'aver sentito raccontare
da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in
camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le
case del contorno; e come, al suo rifiuto, quelli se n'erano andati, e
in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra,
«che sino al far del giorno vi dimororno[41].»
[41] Pag. 123, 124.
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire
che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di
parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così la storia dello
spirito umano, e da occasion d'osservare quanto una serie ordinata e
ragionevole d'idee possa essere scompigliata da un'altra serie d'idee,
che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli
uomini più riputati del suo tempo.
Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal
Federigo dubitasse del fatto dell'unzioni[42]. Noi vorremmo poter
dare a quell'inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e
rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant'altre cose,
superiore alla più parte de' suoi contemporanei, ma siamo in vece
costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d'un'opinione
comune anche sulle menti più nobili. S'è visto, almeno da quel che
ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio:
ritenne poi sempre che in quell'opinione avesse gran parte la
credulità, l'ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d'aver così
tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto
ci fosse d'esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero.
Nella biblioteca ambrosiana si conserva un'operetta scritta di sua mano
intorno a quella peste; e questo sentimento c'è accennato spesso, anzi
una volta enunciato espressamente. «Era opinion comune,» dice a un di
presso, «che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che
molte fossero l'arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion
vere, altre inventate.» Ecco le sue parole: _Unguenta vero hæc aiebant
componi conficique multifariam, fraudisque vias fuisse complures;
quorum sane fraudum, et artium, aliis quidem assentimur, alias vero
fictas fuisse commentitiasque arbitramur_[43].
[42] Muratori: Del governo della peste; Modena, 1714, pag. 117.--P.
Verri; opuscolo citato, pag. 261.
[43] De Pestilentia, quæ Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit.
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che
vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro,
chè nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento
così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo
deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d'alcuni,
un errore che non s'attentava di venire a disputa palese, ma che pur
viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione.
«Ho trovato gente savia in Milano,» dice il buon Muratori, nel luogo
sopraccitato, «che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era
molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi.» Si
vede ch'era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica:
il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso
comune.
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi,
tutta, per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci,
l'impiegarono a cercar di questi untori. Tra le carte del tempo
della peste, che si conservano nell'archivio nominato di sopra, c'è
una lettera (senza alcun altro documento relativo) in cui il gran
cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il governatore
d'aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de' fratelli
Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in
tanta quantità, che quaranta uomini erano occupati _en este exercicio_,
con l'assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir
materiali dal veneziano, _para la fábrica del veneno_. Soggiunge che
lui aveva preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là
il podestà di Milano e l'auditore della Sanità, con trenta soldati di
cavalleria; che pur troppo uno de' fratelli era stato avvertito a tempo
per poter trafugare gl'indizi del delitto, e probabilmente dall'auditor
medesimo, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non partire;
ma che non ostante, il podestà co' soldati era andato _a reconocer la
casa, y a ver si hallará algunos vestigios_, e prendere informazioni, e
arrestar tutti quelli che fossero incolpati.
La cosa dovè finire in nulla, giacchè gli scritti del tempo che parlano
de' sospetti che c'eran su que' gentiluomini, non citano alcun fatto.
Ma pur troppo, in un'altra occasione, si credè d'aver trovato.
I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi
d'un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella
storia della giurisprudenza. Chè, per tacere dell'antichità, e accennar
solo qualcosa de' tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in
Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del
1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino,
del 1599, e di nuovo, in quel medesim'anno 1630, furon processati e
condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove
molti infelici, come rei d'aver propagata la peste, con polveri, o con
unguenti, o con malíe, o con tutto ciò insieme. Ma l'affare delle così
dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors'anche il
più osservabile; o, almeno, c'è più campo di farci sopra osservazione,
per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici. E
quantunque uno scrittore lodato poco sopra se ne sia occupato, pure,
essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia,
quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o
certo di più immediata importanza, c'è parso che la storia potesse
esser materia d'un nuovo lavoro. Ma non è cosa da uscirne con poche
parole; e non è qui il luogo di trattarla con l'estensione che merita.
E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que' casi, il lettore non
si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro
racconto. Serbando però a un altro scritto la storia e l'esame di
quelli, torneremo finalmente a' nostri personaggi, per non lasciarli
più, fino alla fine.


CAPITOLO XXXIII.

Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste,
tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel
Griso, l'uno de' tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran
rimasti vivi. Tornava da un ridotto d'amici soliti a straviziare
insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n'eran
de' nuovi, e ne mancava de' vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato
uno de' più allegri; e tra l'altre cose, aveva fatto rider tanto la
compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato
via dalla peste, due giorni prima.
[Illustrazione: ...gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o
con altro, lo pigiasse a sinistra.... (pag. 482)]
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza
di gambe, una gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe
voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non
aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu
d'ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando
ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con
gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perchè,
in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si
dice, l'occhio medico.
«Sto bene, ve',» disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il
pensiero che gli passava per la mente. «Sto benone; ma ho bevuto, ho
bevuto forse un po' troppo. C'era una vernaccia!... Ma, con una buona
dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno... Levami un po' quel lume
dinanzi, che m'accieca... mi dà una noia...!»
«Scherzi della vernaccia,» disse il Griso, tenendosi sempre alla larga.
«Ma vada a letto subito, chè il dormire le farà bene.»
«Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui
vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi
bisogno di qualche cosa: e sta attento, ve', se mai senti sonare. Ma
non avrò bisogno di nulla... Porta via presto quel maledetto lume,»
riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l'ordine, avvicinandosi meno
che poteva. «Diavolo! che m'abbia a dar tanto fastidio!»
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se
n'andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò,
per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l'occhio,
si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto
a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta
la smania. Ricorreva col pensiero all'agosto, alla vernaccia, al
disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste
idee si sostituiva sempre da sè quella che allora era associata con
tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era ficcata
in tutti i discorsi dello stravizio, giacchè era ancor più facile
prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a
fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d'uno in un altro,
gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a
una folla; di trovarcisi, che non sapeva come ci fosse andato, come
gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n'era
arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti,
con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta
gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si vedevano
macchie e bubboni. «Largo canaglia!» gli pareva di gridare, guardando
alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un
viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non
toccar que' sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni
parte. Ma nessuno di quegl'insensati dava segno di volersi scostare,
e nemmeno d'avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto
gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo
pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura
dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene,
subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo.
Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per
la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo
premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada,
e senti invece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt'affannato,
e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que' visi si
rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal
parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e
luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi
due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor
del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato
uno sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo
fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine
appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto.
Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per
islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli
andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo;
e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò
alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; chè la luce del giorno
già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera
avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto
era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito;
tutto fuorchè una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si
sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un
ronzío, un fischio continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte
le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento,
prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì,
ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido
paonazzo.
L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso
per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti,
d'esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d'evitare
quest'orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi,
sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non
quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello,
e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava
all'erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente
il padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
«Griso!» disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: «tu sei
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