I promessi sposi. - 12

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eran partiti, lasciando i loro rispetti: «e il conte Attilio?» domandò,
sempre camminando, don Rodrigo.
«È uscito con que' signori, illustrissimo.»
«Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la
cappa, il cappello: subito.»
Il servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò,
portando la ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si
buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò,
con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si
mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi tutti armati, i quali,
fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più burbero, più
superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando verso
Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan
rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi,
ai quali non rispondeva. Come inferiori, l'inchinavano anche quelli
che da questi eran detti signori; chè, in que' contorni, non ce
n'era uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome,
di ricchezze, d'aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò,
per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con una
degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva
che s'incontrasse col signor castellano spagnolo, l'inchino allora
era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due
potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per
convenienza, fanno onore al grado l'uno dell'altro. Per passare un
poco la mattana, e per contrapporre all'immagine del frate che gli
assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò,
quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e
dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch'è
riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a
notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche
lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la
quale, don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.
«Cugino, quando pagate questa scommessa?» disse, con un fare di malizia
e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i
servitori.
«San Martino non è ancor passato.»
«Tant'è che la paghiate subito; perchè passeranno tutti i santi del
lunario, prima che....»
«Questo è quel che si vedrà.»
«Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son
tanto certo d'aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra.»
«Sentiamo.»
«Che il padre.... il padre.... che so io? quel frate in somma v'ha
convertito.»
«Eccone un'altra delle vostre.»
«Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete
che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi
bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e
pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, nè con tutte
le reti. Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a
far qualche missione un po' lontano, parlerà de' fatti vostri. Mi par
di sentirlo.» E qui, parlando col naso, e accompagnando le parole con
gesti caricati, continuò, in tono di predica: «in una parte di questo
mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi,
e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, amico più delle femmine, che
degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d'ogni erba un fascio,
aveva messo gli occhi....»
«Basta, basta,» interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo
annoiato. «Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch'io.»
«Diavolo! che aveste voi convertito il padre!»
«Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino
deciderà.» La curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò
interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi
sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte
avversa disegni che non erano nè incamminati, nè assolutamente fissati.
La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L'apprensione
che quel _verrà un giorno_ gli aveva messa in corpo, era svanita del
tutto, co' sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata
anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. L'immagini più
recenti della passeggiata trionfale, degl'inchini, dell'accoglienze,
e il canzonare del cugino, avevano contribuito non poco a rendergli
l'animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso.--Cose
grosse,--disse tra sè il servitore a cui fu dato l'ordine; perchè
l'uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de'
bravi, quello a cui s'imponevano le imprese più rischiose e più inique,
il fidatissimo del padrone, l'uomo tutto suo, per gratitudine e per
interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato
ad implorar la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della
sua livrea, l'aveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia.
Così, impegnandosi a ogni delitto che gli venisse comandato, colui si
era assicurata l'impunità del primo. Per don Rodrigo, l'acquisto non
era stato di poca importanza; perchè il Griso, oltre all'essere, senza
paragone, il più valente della famiglia, era anche una prova di ciò che
il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le leggi; di
modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nell'opinione.
«Griso!» disse don Rodrigo: «in questa congiuntura, si vedrà quel che
tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.»
«Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando
dell'illustrissimo signor padrone.»
«Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti
par meglio; purchè la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che
non le sia fatto male.»
«Signore, un po' di spavento, perchè la non faccia troppo strepito....
non si potrà far di meno.»
«Spavento.... capisco.... è inevitabile. Ma non le si torca un capello;
e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?»
«Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a
vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.»
«Sotto la tua sicurtà. E.... come farai?»
«Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo
al paese. Abbiam bisogno d'un luogo per andarci a postare: e appunto
c'è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai
campi, quella casa.... vossignoria non saprà niente di queste cose....
una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da
riattarla, e l'hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è
sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d'ubbie, non ci
bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l'oro del
mondo: sicchè possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno
verrà a guastare i fatti nostri.»
«Va bene! e poi?»
Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finchè d'accordo
ebbero concertata la maniera di condurre a fine l'impresa, senza che
rimanesse traccia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con
falsi indizi, i sospetti altrove, d'impor silenzio alla povera Agnese,
d'incutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore, e il
pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontà di lagnarsi;
e tutte l'altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria
principale. Noi tralasciamo di riferir que' concerti, perchè, come il
lettore vedrà, non son necessari all'intelligenza della storia; e siam
contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir
parlamentare que' due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso
se n'andava, per metter mano all'esecuzione, don Rodrigo lo richiamò,
e gli disse: «senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse
nell'unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente
un buon ricordo sulle spalle. Così, l'ordine che gli verrà intimato
domani di stare zitto, farà più sicuramente l'effetto. Ma non l'andate
a cercare, per non guastare quello che più importa: tu m'hai inteso.»
«Lasci fare a me,» rispose il Griso, inchinandosi, con un atto
d'ossequio e di millanteria; e se n'andò. La mattina fu spesa in giri,
per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s'era inoltrato
a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il
quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran
suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una
cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non s'eran
più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.
Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e
fissò definitivamente il disegno dell'impresa; assegnò le parti,
diede istruzioni. Tutto ciò non si potè fare, senza che quel
vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi,
s'accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare
attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una
mezza di là, commentando tra sè una parola oscura, interpretando un
andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si
doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era già
poco lontana, e già una piccola vanguardia di bravi era andata a
imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque
sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura
di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la
scusa di prendere un po' d'aria, e s'incamminò in fretta in fretta al
convento, per dare al padre Cristoforo l'avviso promesso. Poco dopo, si
mossero gli altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una
compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola,
la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu
fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre di coloro
all'osteria del paesetto: uno che si mettesse sull'uscio, a osservar
ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti
fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere,
come dilettanti; e attendessero intanto a spiare se qualche cosa da
spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell'agguato ad
aspettare.
Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al
loro posto; il sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse:
«Tonio e Gervaso m'aspettan fuori: vo con loro all'osteria, a mangiare
un boccone; e, quando sonerà l'ave maria, verremo a prendervi. Su,
coraggio. Lucia! tutto dipende da un momento.» Lucia sospirò, e ripetè:
«coraggio,» con una voce che smentiva la parola.
Quando Renzo e i due compagni giunsero all'osteria, vi trovaron
quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano
della porta, appoggiato con la schiena a uno stipite, con le braccia
incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra,
facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni.
Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva
la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca, girava,
da una parte e dall'altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce,
fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un
grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo
a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva
averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, ch'era innanzi
agli altri, fu li per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò
fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come
suole ognuno che abbia un'impresa scabrosa alle mani, non fece vista
d'accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e, rasentando l'altro
stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per l'apertura lasciata
da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa evoluzione,
se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de' quali avevan già
sentita la voce, cioè que' due bravacci, che seduti a un canto della
tavola, giocavano alla mora, gridando tutt'e due insieme (lì, è il
giuoco che lo richiede), e mescendosi or l'uno or l'altro da bere, con
un gran fiasco ch'era tra loro. Questi pure guardaron fisso la nuova
compagnia; e un de' due specialmente, tenendo una mano in aria, con
tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un
gran «sei» che n'era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da
capo a piedi; poi diede d'occhio al compagno, poi a quel dell'uscio,
che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto
guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne' loro
aspetti un'interpretazione di tutti que' segni: ma i loro aspetti non
indicavano altro che un buon appetito. L'oste guardava in viso a lui,
come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sè in una stanza
vicina, e ordinò da cena.
«Chi sono que' forestieri?» gli domandò poi a voce bassa, quando quello
tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in
mano.
«Non li conosco,» rispose l'oste, spiegando la tovaglia.
«Come? nè anche uno?»
«Sapete bene,» rispose ancora colui, stirando, con tutt'e due le mani,
la tovaglia sulla tavola, «che la prima regola del nostro mestiere, è
di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne
non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene:
è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio
dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta che gli
avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa
niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le
avete mai mangiate.»
«Come potete sapere...?» ripigliava Renzo; ma l'oste, già avviato alla
cucina, seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle
polpette summentovate, gli s'accostò pian piano quel bravaccio che
aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: «Chi sono
que' galantuomini?»
«Buona gente qui del paese,» rispose l'oste, scodellando le polpette
nel piatto.
«Va bene; ma come si chiamano? chi sono?» insistette colui, con voce
alquanto sgarbata.
«Uno si chiama Renzo,» rispose l'oste, pur sottovoce: «un buon
giovine, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere.
L'altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro:
peccato che n'abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L'altro è
un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno. Con
permesso.»
E, con uno sgambetto, uscì tra il fornello e l'interrogante; e andò
a portare il piatto a chi si doveva. «Come potete sapere,» riattaccò
Renzo, quando lo vide ricomparire, «che siano galantuomini, se non li
conoscete?»
«Le azioni, caro mio: l'uomo si conosce alle azioni. Quelli che
bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare,
che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una
coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano
dall'osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli
sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci
conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia
di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt'altro in
testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un
morto?» Così dicendo, se ne tornò in cucina.
Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel
soddisfare alle domande, dice ch'era un uomo così fatto, che, in
tutti i suoi discorsi, faceva professione d'esser molto amico de'
galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior
compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni.
Che carattere singolare! eh?
La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto
godersela con tutto loro comodo; ma l'invitante, preoccupato di ciò
che il lettore sa, e infastidito, e anche un po' inquieto del contegno
strano di quegli sconosciuti, non vedeva l'ora d'andarsene. Si parlava
sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate.
«Che bella cosa,» scappò fuori di punto in bianco Gervaso, «che Renzo
voglia prender moglie, e abbia bisogno...!» Renzo gli fece un viso
brusco. «Vuoi stare zitto, bestia?» gli disse Tonio, accompagnando il
titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino
alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese
a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro
un po' di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato
il conto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre
passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte si voltarono a
Renzo, come quand'era entrato. Questo, fatti ch'ebbe pochi passi fuori
dell'osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati
seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co' suoi compagni,
come se dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando
s'accorsero d'essere osservati, si fermarono anch'essi, si parlaron
sottovoce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da
sentir le loro parole, gli sarebbero parse molto strane. «Sarebbe però
un bell'onore, senza contar la mancia,» diceva uno de' malandrini, «se,
tornando al palazzo, potessimo raccontare d'avergli spianate le costole
in fretta in fretta, e così da noi, senza che il signor Griso fosse qui
a regolare.»
«E guastare il negozio principale!» rispondeva l'altro. «Ecco: s'è
avvisto di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi!
Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte
le parti: lasciamoli andar tutti a pollaio.»
C'era in fatti quel brulichío, quel ronzío che si sente in un
villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete
solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i
bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan
dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con
le zappe sulle spalle. All'aprirsi degli usci, si vedevan luccicare
qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada
barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e
sulla miseria dell'annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi
misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.
Quando Renzo vide che i due indiscreti s'eran ritirati, continuò la sua
strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un
altro, ora all'uno, ora all'altro fratello. Arrivarono alla casetta di
Lucia, ch'era già notte.
Tra il primo pensiero d'una impresa terribile, e l'esecuzione di
essa, (ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno) l'intervallo
è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore,
nell'angosce d'un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l'autrice
del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per
rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar
principio all'opera, l'animo si trova tutto trasformato. Al terrore e
al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro
coraggio: l'impresa s'affaccia alla mente, come una nuova apparizione:
ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole
tutt'a un tratto: talvolta comparisce grande l'ostacolo a cui s'era
appena badato; l'immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par
che ricusino d'ubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte
con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da
tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa,
di star sempre divisa da lui, piuttosto ch'eseguire quella risoluzione;
ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: «son qui, andiamo;»
quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come
a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo nè forza di far
difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre,
un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta,
e preser la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata
d'attraversarlo: chè s'andava diritto alla casa di don Abbondio; ma
scelsero quella, per non esser visti. Per viottole, tra gli orti e
i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero. I due
promessi rimaser nascosti dietro l'angolo di essa; Agnese con loro,
ma un po' più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a
impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far
nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, s'affacciaron
bravamente alla porta, e picchiarono.
«Chi è, a quest'ora?» gridò una voce dalla finestra, che s'aprì in quel
momento: era la voce di Perpetua. «Ammalati non ce n'è, ch'io sappia. È
forse accaduta qualche disgrazia?»
«Son io,» rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiam bisogno di
parlare al signor curato.»
«È ora da cristiani questa?» disse bruscamente Perpetua. «Che
discrezione? Tornate domani.»
«Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e
venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle
berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli,
e tornerò quando n'abbia messi insieme degli altri.»
«Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perchè venire a quest'ora?»
«Gli ho ricevuti, anch'io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se
li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però,
se l'ora non vi piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi
volete, me ne vo.»
«No, no, aspettate un momento: torno con la risposta.»
Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò
dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: «coraggio; è un momento;
è come farsi cavar un dente,» si riunì ai due fratelli, davanti
all'uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua,
venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e
che Tonio l'avesse trattenuta un momento.


CAPITOLO VIII.

--Carneade! Chi era costui?--ruminava tra sè don Abbondio seduto
sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un
libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli
l'imbasciata.--Carneade questo nome mi par bene d'averlo letto o
sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo
antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?--Tanto il
pover'uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul
capo!
[Illustrazione: La cena non fu molto allegra... (pag. 102)]
Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino
ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli
prestava un libro dopo l'altro, il primo che gli veniva alle mani.
Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente
della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che
non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo,
detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di
Milano, due anni prima. Il santo v'era paragonato, per l'amore allo
studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo;
perchè Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di
sè, che, per saperne qualche cosa, non c'è bisogno d'un'erudizione
molto vasta. Ma, dopo Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche
Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò
Perpetua ad annunziar la visita di Tonio.
«A quest'ora?» disse anche don Abbondio, com'era naturale.
«Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo....»
«Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo
venire.... Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?»
«Diavolo!» rispose Perpetua, e scese; aprì l'uscio, e disse: «dove
siete?» Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche
Agnese, e salutò Perpetua per nome.
«Buona sera, Agnese,» disse Perpetua: «di dove si viene, a quest'ora?»
«Vengo da....» e nominò un paesetto vicino. «E se sapeste...» continuò:
«mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.»
«Oh perchè?» domandò Perpetua; e voltandosi a' due fratelli, «entrate,»
disse, «che vengo anch'io.»
«Perchè,» rispose Agnese, «una donna di quelle che non sanno le cose,
e voglion parlare.... credereste? s'ostinava a dire che voi non vi
siete maritata con Beppe Suolavecchia, nè con Anselmo Lunghigna, perchè
non v'hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete
rifiutati, l'uno e l'altro....»
«Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?»
«Non me lo domandate, che non mi piace metter male.»
«Me lo direte, me l'avete a dire: oh la bugiarda!»
«Basta.... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper
bene tutta la storia, per confonder colei.»
«Guardate se si può inventare, a questo modo!» esclamò di nuovo
Perpetua; e riprese subito: «in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno
potuto vedere.... Ehi, Tonio! accostate l'uscio, e salite pure, che
vengo.» Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua
narrazione appassionata.
In faccia all'uscio di don Abbondio, s'apriva, tra due casipole,
una stradetta, che, finito quelle, voltava in un campo. Agnese vi
s'avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più
liberamente; e Perpetua dietro. Quand'ebbero voltato, e furono in
luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla
casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo
sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt'e due,
in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti;
arrivarono all'uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati,
entraron nell'andito, dov'erano i due fratelli, ad aspettarli. Renzo
accostò di nuovo l'uscio pian piano; e tutt'e quattro su per le scale,
non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due
fratelli s'avvicinarono all'uscio della stanza, ch'era di fianco alla
scala; gli sposi si strinsero al muro.
_«Deo gratias,»_ disse Tonio, a voce chiara.
«Tonio, eh? Entrate,» rispose la voce di dentro.
Il chiamato aprì l'uscio, appena quanto bastava per poter passar
lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì
d'improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro
del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati
i fratelli, Tonio si tirò dietro l'uscio: gli sposi rimasero immobili
nelle tenebre, con l'orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più
forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.
Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola,
ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che
gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d'una piccola
lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della
papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo,
tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano
assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al
chiaro di luna.
«Ah! ah!» fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li
riponeva nel libricciolo.
«Dirà il signor curato, che son venuto tardi,» disse Tonio,
inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.
«Sicuro ch'è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono
ammalato?»
«Oh! mi dispiace.»
«L'avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi
vedere.... Ma perchè vi siete condotto dietro quel.... quel figliuolo?»
«Così per compagnia, signor curato.»
«Basta, vediamo.»
«Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant'Ambrogio a
cavallo,» disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.
«Vediamo,» replicò don Abbondio: e, preso l'involtino, si rimesse gli
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