I promessi sposi. - 02

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un ramoscel tenea, Questi un brando rovente»; nella _Mascheroniana_,
c. II). O quest'altro, che ha consigliato di rappresentar così la
Giustizia:
Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l'ima plebe i grandi agguaglia,
Sol disuguai per merto o per delitto;
E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
Alza la scure adeguatrice, e taglia.
Giustizia da Marat, codesta, non da un nipote di Cesare Beccaria!
Tuttavia, la maggior parte del poemetto è tale che s'intende come fin
l'autore del Romanzo non potesse che compiacersene. E l'apostrofe
alla regione nativa, nel canto IV, pur con tutti gli spunti e
pariniani e alfieriani e montiani che vi si potrebbero additare, è già
schiettamente manzoniana. Chi non lo sa? La bella utopia repubblicana,
classicamente drappeggiata, che era valsa a commuovere, negli anni
più propensi all'entusiasmo, poeti e pensatori, dal Montesquieu
all'Alfieri, e per un momento anche l'austero cantore del _Giorno_,
non aveva, tradotta dal regno dei sogni in quello della realtà,
nulla mantenuto delle sue rosee promesse. A una tirannia decrepita e
slombata, se n'era sostituita un'altra, incomposta, intraprendente,
procacciante, audace, volgare, perchè d'una moltitudine impreparata,
inesperta, incapace, e avida di saziarsi e d'inebriarsi di quei vizi
medesimi dei quali era stata fin allora spettatrice e biasimatrice
invidiosa. Il Parini n'era morto corrucciato; e Vittorio Alfieri
faceva, in quegli ultimi inoperosi anni della sua vita già tanto
agitata, «dolce l'ira sua nel suo segreto», preparando agl'Italiani,
nel _Misogallo_, il suo testamento politico.
Il Manzoni insorge, legittimo erede dell'onesto brianzuolo e
dell'allobrogo feroce (c. IV).
Ma tu, misera Insubria, d'un tiranno
Scotesti il giogo, ma t'opprimon mille.
Ahi che d'uno passasti in altro affanno!
Gentili masnadieri in le tue ville
Succedettero ai fieri, e a genti estrane
Son le tue voglie e le tue forze ancille.
Langue il popol per fame, e grida: Pane!
E in gozzoviglia stansi o in esultanza
Le Frini e i Duci[6]; turba che di vane
Larve di fasto gonfia e di burbanza,
Spregia il volgo onde nacque e a cui comanda,
A piena bocca sclamando: Eguaglianza!
Il volgo, che i delitti e la nefanda
Vita vedendo, le prime catene
Sospira, e 'l suo tiranno al ciel domanda.
De l'inope e del ricco entro le vene
Succhian l'adipe e 'l sangue; onde Parigi
Tanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.
E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi
Strisciangli intorno in atto umile e chino.
................
Tal pasce il volgo di sonanti fole;
Vile! e di patrio amor par tutto accenso,
E liberai non è che di parole....
Vedi quei che sua gloria nei concinni
Capei ripone. Oh generosi spirti,
Degni del giogo estranio e de' cachinni!
Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti
Risveglia alfine, e da l'olente chioma
Getta sdegnosa gli Acidalii mirti.
Ve' come t'hanno sottomessa e doma
Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi
La Tirannia che Libertà si noma.
Mira le membra illividite, e i tuoi
Antichi lacci; l'armi appresta,
Sorgi, ed emula in campo i Franchi eroi.
E a l'elmo antico la dimessa cresta
Rimetti, e accendi i neghittosi cori,
E stringi l'asta ai regnator funesta.
Come destrier, che fra l'erbette e i fiori
Placido, in diuturno ozio recuba
Sol meditando vergognosi amori,
Scote nitrendo la nitente giuba
Se il torpido a ferirlo orecchio giugno
Cupo clangor di bellicosa tuba,
E stimol fiero di gloria lo pugne,
Drizza il capo, e l'orecchio al suono inchina,
E l'indegno terren scalpe con l'ugne;
Contra i Tiranni sol la cittadina
Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso
Che fosti serva ed or sarai reina.
[6] Cfr. _Mascheroniana_, c. II:
Vôta il popol per fame avea la vena;
E il viver suo vedea fuso e distrutto
Da' suoi pieni tiranni in una cena.
Squallido, macro il buon soldato, e brutto
Di polve, di sudor, di cicatrici,
Chiedea plorando del suo sangue il frutto;
Ma l'inghiottono l'arche voratrici
Di onnipossenti duci, e gl'ingordi alvi
Di questori, prefetti e meretrici.
I Tiranni! L'odio tirannicida era di legato alfieriano. Oh perchè tarda
a sorgere un novello Bruto, il quale liberi il mondo dalla turpe e
feroce Austriaca, tigre regale, che trucidò, al cospetto del divino
golfo di Napoli, l'ammiraglio Caracciolo, Mario Pagano, Domenico
Cirillo, Ettore Carafa!
Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,
De gli uomini nimica e di natura,
Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!
Gonfia di sangue la corrente e impura
Portò l'umil Sebeto, e de la cruda
Novella Tebe flagellò le mura.
Tigre inumana di pietade ignuda,
Tu sopravvivi a' tuoi delitti? Un Bruto
Dov'è? Chi il ferro a trucidarti snuda?
Muoia, perdio, «l'empia tiranna»!
E disperata mora, e a' suoi singulti
Non sia che cor s'intenerisca o pieghi,
E agli strazii perdoni ed agli insulti,
O dal ciel pace a l'empia spoglia preghi;
Ma l'universo al suo morir tripudi,
E poca polve a l'ossa infami neghi.
Ricalcati su modelli alfieriani sono altresì i due sonetti del 1801:
quello dove il Manzoni ritrae sè stesso; e l'altro, _A Francesco
Lomonaco_, che si chiude con le famose terzine:
Tal premii, Italia, i tuoi migliori, e poi
Che prò se piangi e 'l cener freddo adori,
E al nome voto onor divini fai?
Sì da' barbari oppressa, opprimi i tuoi,
E ognor tuoi danni e tue colpe deplori,
Pentita sempre e non cangiata mai.
Quest'ultimo sonetto fu il primo componimento che dal Manzoni fosse
pubblicato.
[Illustrazione: Manoscritto del Manzoni]


V.

Tuttavia, il poetino
Giovin d'anni e di senno, non audace,
Duro di modi ma di cor gentile,
s'avvide, o credette d'avvedersi, che Euterpe non era sincera con lui,
e la piantò in asso. In cose d'amore, diceva da vecchio, _sont staa
semper un imbrojàa_! E si lasciò sedurre dal «sospiro» di Erato.
Par proprio di quel tempo l'Ode, squillante di armonie pariniane,
che comincia _Qual su le cinzie cime_. Al poeta giovinetto fu
forse ispirata dall'«angelica» fanciulla, della quale confessava
d'essersi invaghito «con fortissima e purissima passione» nel 1801, e
soggiungeva d'aver rivista a Genova sei anni dopo[7]. Non ancora, vi
dichiara, gli occhi suoi erano «dolci»--«dotti», corresse in un'altra
copia--«d'amorose lagrime»; e gli occhi di lei, «vincendo di splendor
l'emule Vergini», gli si rivolsero «dolcemente gravi». E come «soave»
era quella voce!--Non so se anche il «parlar» di costei, «eletto e
nitido», cadesse
come di limpide
Acque lungo il pendio lene rumor;
ma chi non risente la grata fragranza catulliana delle odi _Il
pericolo_ e _Il messaggio_, in queste alate strofette, leggiadramente
intessute di settenari e d'endecasillabi, e rese più agili dagli
sdruccioli non frenati da rime?
Da gl'innocenti sguardi
Che ancor lor possa e gli altrui danni ignorano,
Escono accesi dardi,
Non certi men nè di più leve incendio
Se dal fronte scendendo il crine avaro
Dolce fa lor riparo:
Non altrimenti in cielo
Febo sorgendo, di dorate nuvole
A' suoi splender fa velo,
Che vincitor superbi indi sfavillano,
E la terra soggetta in suo viaggio
Tinge di dubbio raggio.
Oh qual tutta di nove
Fatali grazie ride allor che l'invido
Crin col dito rimove,
E doppio appresta di beltà spettacolo
Sul picciol fronte trascorrendo lieve
Con la destra di neve!
Il poeta è stato assalito dal «fanciulletto Idalio», mentre
per le fiorenti
Ascree piagge scorrea, lungo le Aonie
Secrete acque;
e non gli valsero a difesa «gli aspri precetti di Zenon».
Nè vuol ch'io canti, rossa
Di sangue, Italia; onde ancor pochi godono;
Nè di plebe commossa
Le feroci vendette, ed i terribili
Brevi furori, e i rovesciati scanni
De' tremanti Tiranni.
Celebrerà dunque Venere, traente «da' gorghi del paterno Oceano Le
rugiadose chiome»,
E il Zeffiro lascivo
Che ne le zone de le incaute vergini
Scherzar gode furtivo,
Onde audaci i pastor maligni ridono,
E a lor la guancia bella e vergognosa
Tinge virginea rosa.
[7] Cfr. BONGHI, _Opere inedite o rare di A. M._, I, 101.
Ma il pudico poeta non ne fece poi più nulla. E si lasciò invescare
dall'«amaro ghigno» di quella Musa, che aveva pur allora perduto il
principale suo «sacerdote» nel Parini: da Talia.
Nell'ottobre del 1803, in compagnia d'un suo zio paterno e di due altre
famiglie milanesi, i Draghi e i Tordarò, era andato a Venezia; dove
rimase circa un anno. Che grata impressione ricevette da «quei palazzi
così stupendamente variati», da quel dialetto, che è, diceva, «un così
felice miscuglio di tronchi, piani e sdruccioli»! (_Cara invidia_
per chi, negli _Inni_ e nell'_Ode_, avrebbe poi adottati i metri
pariniani!). Lo zio e gli altri due, fautori e impiegati dell'Austria,
vi erano mal visti; «e siccome Tordarò era brutto bene, i Veneziani
fecero quel verso: _Due di bestie hanno il nome, un la figura_». Ma,
soggiungeva, «quanto a me, che fui conosciuto subito per avverso al
dominio straniero, si diceva: In presenza di lui si può parlare, perchè
non è dei loro». Vi conobbe molti senatori e molte gentildonne: il doge
Manin, che «in quell'inverno si lasciò rubare per ben quattro volte
il tabarro per via»: Francesco Pesaro, ancor dolente «d'essere stato
fischiato allorquando aveva proposto in Senato di armarsi e di unirsi
all'Austria contro i Francesi»; e quel Camillo Gritti, in onor del
quale il Parini aveva scritto _La magistratura_. «Io lo trovai una
sera», narrò poi il Manzoni, «in una conversazione; e, accostatomi a
lui, gli dissi pieno d'entusiasmo: C'è un'ode del Parini fatta per Lei!
Ed egli mi rispose che non se ne ricordava bene!» Ritornando, volle
soffermarsi un giorno nella «gentil Vicenza»; ma anche qui gli occorse
un caso strano. «Entrai», raccontava, «in una bottega da caffè, e uno
dei signori che vi erano seduti, s'alzò e venne a me, a chiedermi se
io ero nobile, perchè quello era il Caffè dei nobili. Io gli risposi
che nel mio paese non c'erano più queste distinzioni; e che se fossi
stato nobile prima, non lo sapevo, perchè mi pareva cosa di tanto poca
importanza da non curarsene affatto»[8]. (In verità, i Manzoni erano
nobili del contado, e possedettero un tempo il feudo onorifico di
Moncucco nel Novarese; e quando don Pietro e il fratello canonico don
Paolo vennero a stabilirsi a Milano, avevan chiesto d'essere ammessi
al patriziato, ma la domanda non era stata accolta, perchè la loro
famiglia non era vissuta per oltre cento anni nella città).
[8] FABRIS, op. cit., 89-93.
Nel soggiorno veneziano, nell'arguta oltre che bella città che fu
patria dell'ammirato Goldoni (il Manzoni, da vecchio, esclamava: «E
il Goldoni! che ingegno comico! Molière fa ridere, ma talvolta fa
odiare i suoi personaggi: Goldoni fa sorridere, e li fa amare[9]») e di
Gaspare Gozzi, si sentì dunque nelle grazie di Talia, e snocciolò l'uno
dopo l'altro tre _Sermoni_, che mandava via via agli amici milanesi.
Persuaso d'esser nato a far versi, preferiva oramai «notar la plebe con
sermon pedestre» al celebrare con «numeri sonanti» le memorande, ma
fin troppo memorate, «opre antiche d'eroi» (_Serm._ III). Non già per
«consiglio di maligno petto»; ma
Fatti e costumi
Altri da quei ch'io veggio, a me ritrosa
Nega esprimer Talia. Che se propongo
Dir Penelope fida, e il letto intatto
De l'aspettato Ulisse, ecco a la mente
Lidia m'occorre, che di frutti estrani
Feconda l'orto del marito; cui
Non Ilio pertinace o il vento avverso,
Ma il prego mattutino o l'affrettata
Visita de l'amico o il diligente
Mercurio tiene ad ingrassare il censo
De l'erede non suo. L'imprese appena
Tento di Cincinnato e il glorïoso
Ferro alternato alla callosa destra,
O i Legati di Pirro innanzi al duro
Mangiator del magnanimo legume;
Tosto Fulvio rammento, il qual pur jeri
Villano, oggi pretor, poco si stima
Minor di Giove, e spaventar mi crede
Con la forzata maestà del guardo.
[9] FABRIS, op. cit., 90.
Difficile arte però quella del poeta, e non da sfaccendato o da
distratto in altre cure. E lo sapeva bene il Parini, il «divo Parini»!
(_Serm._ II).
Quando sull'orme dell'immenso Flacco
Con italico piè correr volevi,
E dei potenti maledir l'orgoglio,
Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
Al crin mentito ed a la calva nuca
Facessi oltraggio[10]. Indi è che, dopo cento
E cento lustri, il postero fanciullo,
Con balda cantilena, al pedagogo
Reciterà: _Torna a fiorir la rosa_.
[10] Qui è un'allusione al sonetto pariniano _Rapì de' versi miei....._
(nella mia edizione delle _Poesie_; Milano, Hoepli, 1900, p. 97); dove
da Amore si fa dire a Citerea:
.....O madre, a te sia il dono accetto, Ben che non molta in questi
carmi ho fede, Se non mentisce del cantor l'aspetto E l'usurpata chioma
e il debil piede.

E anche l'Alfieri lo sapeva, «primo signor de l'Italo coturno»! Ma ora,
quanta e quale profluvie di «versi inetti», degna forma di «maldigesta
dottrina»! Manca (mancava allora, s'intende!) il gusto della buona
poesia; e invece tutti ne voglion giudicare: «o sii tu servo, O duro
fabbro, o venda in su i quadrivi Castagne al volgo».
Che dirò dei teatri? . . . . .
Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
Alto minaccia, e la viril sua fiamma
Ad Antigone svela, o con l'armata
Destra l'infame reggia e il ciclo accenna,
Odi sclamar dai palchi:--Oh duri versi!
Oh duro amante! Dal tuo fero labbro
Un _ben mio!_ non s'ascolta. Oh quanto meglio
Megagle ad Aristea, Clelia ad Orazio!--
L'Alfieri è venuto in uggia per la sua austerità ed asprezza. Il dramma
che ora piace è quello novissimo--di Francesco Albergati, di Camillo e
Carlo Federici, di Giuseppe Foppa, di Giovanni de Gamerra, di Giuseppe
Zanoia, di S. A. Sografi, di Giovan Gherardo de Rossi, di Giovanni
Greppi, di F. A. Avelloni, di Andrea Willi--che mescola e confonde
il riso colle lagrime: un mirabile mostro, il piè destro calzato di
coturno, il sinistro di socco, e sul volto una maschera informe,
atteggiata a un comico ghigno ma solcata da lagrime e da sangue.
Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,
Primo signor de l'italo coturno?
Te, ad imparar come si faccia il verso,
De gl'itali Aristarchi il popol manda.
Mirabil mostro in su le ausonie scene
Or giganteggia. Al destro pie' si calza
L'alto coturno e l'umil socco al manco;
Quindi va zoppicando; informe al volto
Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
Grondan lagrime e sangue.
Che insano entusiasmo, allora, in quel principio di secolo, per simili
sconcezze (ogni tempo ha le sue!)...
Allor che al denso
Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
Di voci e palme un suon, che per le cave
Volte rumoreggiando, i lati fianchi
Scote al teatro e fa sostar per via
Maravigliato il passaggier notturno.
Il poeta, nauseato d'un simile schiamazzo, si chiude coi suoi pensieri
e coi suoi libri, e medita.
Io, perchè de la plebe il grido insano
Non mi fieda l'orecchio, in questa cella
Mi chiudo, e meco i miei pensieri, e libri
Quanti coll'occhio annoverar tu possa.
[Illustrazione: Alessandro Manzoni a 20 anni.]


VI.

Sennonchè, van bene Parini, Alfieri, Monti; van bene i sorrisi, un po'
fuggitivi e civettuoli, di Euterpe e d'Erato, e il ghigno di Talia; ma
a buon conto il novizio era quasi in sul limitare del quinto lustro, e
non ancora poteva dire d'aver infilata la sua via. E quando l'ombra di
Carlo Imbonati impreca contro i poetastri contemporanei:
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravvissuti, oscura e disonesta
Canizie attende!
ei si fa animo, e le chiede:
Deh vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: Su l'orma propria ei giace.
E l'Imbonati--che il poeta giovanotto avea sentito largamente lodare
Di retto acuto senno, d'incolpato
Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero,
Non vantator di probità, ma probo;
l'Imbonati, ammiratore fervente di Vittorio Alfieri, e discepolo prima
e amico poi di Giuseppe Parini, il quale per lui appunto, si badi,
aveva scritto _L'educazione_--gli traccia un magnifico programma di
vita e d'arte. Una vita nuova, che avesse per meta la virtù e fosse per
ciò stesso una dura milizia «contra i perversi affratellati e molti»:
Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E a l'onor vano e al lucro; e de le sale
Al gracchiar voto e del censito volgo
Al petulante cinguettio, d'amici
Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma:
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai.
E un'arte nuova, che sia la sincera e schietta espressione di quella
nuova vita:
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi, conservar la mano
Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir, nè proferir mai verbo
Che plauda al vizio o la virtù derida.
Al Manzoni, dunque, si schiudeva finalmente la vera sua strada! Più
tardi, nel 1823, volendo esporre, nella _Lettera_ a Cesare d'Azeglio
sul _Romanticismo in Italia_, il suo parere circa «il principio
generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari
sul positivo romantico», proclamerà nettamente «che la poesia, o la
letteratura in genere, debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per
soggetto e l'interessante per mezzo». E il poeta--il quale aveva già
composti gl'_Inni sacri_ e le due tragedie, e da due anni attendeva al
Romanzo--determinerà che la poesia «debba per conseguenza scegliere
gli argomenti pei quali la massa dei lettori ha o avrà, a misura che
diverrà più colta, una disposizione di curiosità e di affezione, nata
da rapporti reali, a preferenza degli argomenti pei quali una classe
sola di lettori ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e
la moltitudine una riverenza non sentita nè ragionata, ma ricevuta
ciecamente. E che in ogni argomento debba cercare di scuoprire e di
esprimere il vero storico e il vero morale, non solo come fine, ma
come più ampia e perpetua sorgente del bello, giacchè, e nell'uno e
nell'altro ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo
diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero; è
quindi temporario e accidentale. Il diletto mentale non è prodotto
che dall'assentimento ad una idea; l'interesse, dalla speranza di
trovare in quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento e
di riposo. Ora, quando un nuovo e vivo lume ci fa scuoprire in quella
idea il falso, e quindi l'impossibilità che la mente vi riposi, vi si
compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l'interesse spariscono.
Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo
diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che
lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque
debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere».
La nuova scuola, propugnata e seguìta, con iscritture teoriche
insigni e con capolavori d'arte quali da un pezzo non s'eran più
visti in Italia, dal Manzoni; quella scuola che anche presso di noi
si disse Romantica, «emancipando la letteratura dalle tradizioni
tecniche, disobbligandola, per così dire, da una morale voluttuosa,
superba, feroce, circoscritta al tempo e improvvida anche in questa
sfera, antisociale dove è patriottica, ed egoistica quando cessa
d'essere ostile», tendeva certamente, e nessuno oserebbe affermare
che non conseguisse il suo nobile fine, «a render meno difficile
l'introdurre nella letteratura le idee e i sentimenti che dovrebbero
informare ogni discorso. E dall'altra parte, proponendo, anche in
termini generalissimi, il vero, l'utile, il buono, il ragionevole,
concorre se non altro con le parole, che non è poco, allo scopo della
religione: non la contradice almeno nei termini. Per quanto una tale
azione d'un sistema letterario possa essere indiretta», non «la
giudicherà indifferente» chi abbia «osservato quanto influiscano sui
sentimenti religiosi i diversi modi di trattare le scienze morali, che
tutte alla fine appartengono alla religione, quantunque distinzioni
e classificazioni arbitrarie possano separanele in apparenza e
in parole»; chi abbia «osservato come senza parere di toccare la
religione, senza neppur nominarla, una scienza morale prenda una
direzione opposta ad essa, pervenga a risultati che sono inconciliabili
logicamente con gl'insegnamenti di essa; e come talvolta poi, avanzando
o dirigendosi meglio nelle scoperte, essa stessa convinca d'errore
quei risultati, e venga così a ravvicinarsi alla religione senza
pur nominarla, direi quasi senza avvedersene». Della letteratura,
riconsacrata col sistema romantico, doveva avvenire, ed avvenne, come
d'altre scienze morali od economiche. I più recenti cultori di queste
ultime, mercè «un più attento e più esteso esame dei fatti, e un
ragionato cangiamento di principii», hanno scoperta «la falsità e il
fanatismo» di canoni puramente filosofici e di «dottrine opposte al
Vangelo»; e «sul celibato, sul lusso, su la prosperità fondata nella
ruina altrui, sur altri punti pure importantissimi, hanno stabilite
dottrine conformi ai precetti ed allo spirito del Vangelo». «S'io non
m'inganno», concludeva il Manzoni, «quanto più quelle scienze divengono
ponderate e filosofiche, tanto più esse diventano cristiane; e più
ch'io considero, più mi pare che il sistema romantico tenda a produrre
e abbia cominciato a produrre, nelle idee letterarie, un cangiamento
dello stesso genere».
Il Manzoni s'era dunque messo baldanzosamente per la via segnatagli
dall'Imbonati, e, avendo oramai quasi superata l'erta, già già toccava
la cima. Sul bel cacume del dilettoso monte--paradiso terrestre della
letteratura nuova d'Italia--verdeggiano di sempiterna primavera _I
promessi sposi_.


VII.

Occorre tuttavia spendere qualche altra parola intorno al noviziato
poetico del Manzoni, e soprattutto intorno a quel Carme dov'ei tracciò
così nettamente il programma della vita e dell'arte sua.
Rifacciamoci un po' dall'alto. Il 12 settembre 1782 era rogata, in
Milano, la scritta nuziale tra la Giulia Beccaria, giovanetta sui venti
anni (era nata il 1762), e il nobile Pietro Manzoni, di quarantasei
anni (era nato a Castello sopra Lecco, il 1736); e il 20 ottobre il
matrimonio era benedetto, nell'oratorio di casa Beccaria, in via Brera.
Alla non piccola differenza dell'età, s'aggiungeva qualche altra
ragione che non lasciava augurar bene di quelle nozze. La Giulia era
stata varii anni rinchiusa in collegio; intanto che suo padre, rimasto
vedovo nell'aprile del 1774, aveva avuto gran fretta di riammogliarsi.
Alla giovanetta, vivace di carattere, non poteva garbare la dipendenza
dalla matrigna; e le parve dunque d'acciuffar la fortuna quando, mercè
la «lodevole destrezza e mediazione» nientemeno che di Pietro Verri,
potè divenire la signora Manzoni.
A giudicarne dai ritratti, non si direbbe bellissima; ma tutti che la
conobbero, e lasciaron ricordo di lei in lettere non destinate certo
alla pubblicità, attestano che essa conquistava l'altrui ammirazione
e simpatia col pronto ingegno, la varia coltura, la conversazione
amabilissima, l'eloquenza appassionata. Del resto, non so quale altra
donna potrebbe presentare alla posterità un passaporto con connotati
che equivalgano a quelli, che essa invano sperò il figliuolo lasciasse
incidere sul suo sepolcro: «A Giulia, figlia di Cesare Beccaria, madre
di Alessandro Manzoni». È vero; ma qualche nobile donna potrebbe non
invidiare, anzi compiangere, chi, pur desiderando di perpetuare la
memoria del suo orgoglio filiale e materno, non trovò una sola parola
da dedicare a un orgoglio meno fortuito. Essa, a buon conto, non potè
vantare d'aver provato pur «le gioie infinite e inesprimibili di un
altro sentimento, meglio completo, che investe ed abbraccia tutte
le qualità della mente e del cuore, perchè esso è insieme passione,
orgoglio, ammirazione»[11].
[11] Son parole d'una donna gentile.
Don Pietro Manzoni non valeva certo, per ingegno e dottrina, nè il
suocero nè il figlio; ma un brav'uomo pare che fosse anche lui. Un
letterato non era; ma aveva care le lettere e le arti belle, e apriva
volentieri la sua casa ai cultori di esse. Suo fratello, che viveva con
lui, era monsignore del Duomo, e un brav'uomo egli pure.
I Manzoni eran meglio che agiati; e la Giulia non portava in dote se
non 5000 scudi e mille di corredo: uno zio materno le aveva fatto dono
di altri mille scudi. Don Pietro aveva meglio mirato alle doti dello
spirito e al nome glorioso. L'amore sarebbe dovuto nascer dopo, dalla
convivenza. Sennonchè il fanciullo alato, ma cieco, non ritrovò mai
la via di San Damiano e la casa al n.º 20, dove quella coppia rimase
ad abitare; e dove, due anni e mezzo dopo le nozze, un bambino, punto
cieco anzi «divin raggio di mente», apriva gli occhi alla luce. Non
aveva attaccate agli omeri alucce apparenti, ma nel piccolo cranio
aveva accartocciate ali ben altrimenti poderose. Don Pietro gl'impose
il nome di suo padre, Alessandro; e spessissimo andava a Lecco, per
sorvegliarne l'allevamento.
Tra quei che frequentavano la casa Manzoni, fu altresì quel figliuolo
del conte Giuseppe Maria Imbonati e di donna Francesca Bicetti, che
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