I promessi sposi. - 05

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davano a conoscere per individui della specie de' _bravi_.
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in
Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni
squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri
principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e
rigogliosa vitalità.
Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano,
Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande
Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano
e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, _pienamente
informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa
Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi_, pubblica un
bando contro di essi. _Dichiara e diffinisce tutti coloro essere
compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi_....
_i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio
alcuno, od avendolo, non lo fanno_.... _ma, senza salario, o pur con
esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o
mercante_.... _per fargli spalle e favore, o veramente, come si può
presumere, per tendere insidie ad altri_.... A tutti costoro ordina
che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima
la galera a' renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia
le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l'esecuzione
dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto
signore, _che questa Città è tuttavia piena di detti bravi_....
_tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume
loro, nè scemato il numero_, dà fuori un'altra grida, ancor più
vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre ordinazioni, prescrive:
_Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che
per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per
bravo, et aver tal nome, ancorchè non si verifichi aver fatto delitto
alcuno.... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj,
possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et
al tormento, per processo informativo.... et ancorchè non confessi
delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio,
per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra_. Tutto ciò, e il
di più che si tralascia, perchè _Sua Eccellenza è risoluta di voler
essere obbedita da ognuno_.
[Illustrazione: Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar
qualcheduno, era cosa troppo evidente.... (pag. 11)]
All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e
accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al
solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma
la testimonianza d'un signore non meno autorevole, nè meno dotato di
nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l'Illustrissimo
ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di
Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias,
Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella
delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc.
Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui _di quanto
danno e rovine sieno_.... _i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto
che tal sorta di gente fa contra il ben pubblico, et in delusione
della giustizia_, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei,
abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni
e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno
1598, _informato, con non poco dispiacere dell'animo suo, che_... _ogni
dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali_
(bravi e vagabondi), _nè di loro, giorno e notte, altro si sente che
ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di
delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere
aiutati dai capi e fautori loro_,.... prescrive di nuovo gli stessi
rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate.
_Ognuno dunque_, conchiude poi, _onninamente si guardi di contravvenire
in parte alcuna alla grida presente, perchè, in luogo di provare
la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua_....
_essendo risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria
monizione_.
Non fu però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes,
Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo
parere, e per buone ragioni. _Pienamente informato della miseria in
che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi
che in esso abbonda_.... _e risoluto di totalmente estirpare seme
tanto pernizioso_, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena
anch'essa di severissime comminazioni, _con fermo proponimento che,
con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente
eseguite_.
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona
voglia che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar nemici al
suo gran nemico Enrico IV; giacchè, per questa parte, la storia attesta
come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece
perder più d'una città; come riuscisse a far congiurare il duca di
Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme
tanto pernizioso de' bravi, certo è che esso continuava a germogliare,
il 22 settembre dell'anno 1612. In quel giorno l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la
Hynojosa, Gentiluomo, etc. Governatore, etc., pensò seriamente ad
estirparlo. A quest'effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti,
stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta,
perchè la stampassero ad esterminio de' bravi. Ma questi vissero
ancora per ricevere, il 24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e più
forti colpi dall'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor
don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc. Governatore, etc.
Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto
il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s'era trovato
costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi,
il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima
di quel memorabile avvenimento.
Nè fu questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non
crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della
nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell anno
1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, _el Duque
de Feria_, per la seconda volta governatore, ci avvisa che _le maggiori
sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi_. Questo basta
ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c'era de' bravi
tuttavia.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era
cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il
dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui. Perchè, al
suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con
un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan
detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la
sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due
gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto
dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le
mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito
a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sè stesso,
se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra
o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se
avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma,
anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo
rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso.
Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per
raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto
la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la
coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non
vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi:
nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorchè
i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe,
era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il
pericolo, vi corse incontro, perchè i momenti di quell'incertezza erano
allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli.
Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la
faccia a tutta quella quiete e ilarità che potè, fece ogni sforzo per
preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini,
disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. «Signor curato,»
disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
«Cosa comanda?» rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro,
che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggio.
«Lei ha intenzione,» proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo
di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, «lei
ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!»
«Cioè....» rispose, con voce tremolante, don Abbondio: «cioè. Lor
signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste
faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra
loro, e poi.... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a
riscotere: e noi.... noi siamo i servitori del comune.»
«Or bene,» gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di
comando, «questo matrimonio non s'ha da fare, nè domani, nè mai.»
«Ma, signori miei,» replicò don Abbondio, con la voce mansueta e
gentile di chi vuoi persuadere un impaziente, «ma, signori miei, si
degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,...
vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca....»
«Orsù,» interruppe il bravo, «se la cosa avesse a decidersi a ciarle,
lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, nè vogliam saperne di
più. Uomo avvertito.... lei c'intende.»
«Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli....»
«Ma,» interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato
fin allora, «ma il matrimonio non si farà o....» e qui una buona
bestemmia, «o chi lo farà non se ne pentirà, perchè non ne avrà tempo,
e....» un'altra bestemmia.
«Zitto, zitto,» riprese il primo oratore, «il signor curato è un uomo
che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam
fargli del male, purchè abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo
signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.»
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un
temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in
confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un
grand'inchino, e disse: «se mi sapessero suggerire....»
«Oh! suggerire a lei che sa di latino!» interruppe ancora il bravo, con
un riso tra lo sguaiato e il feroce. «A lei tocca. E sopra tutto, non
si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene;
altrimenti.... ehm.... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio.
Via, che vuoi che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don
Rodrigo?»
«Il mio rispetto....»
«Si spieghi meglio!»
«....Disposto.... disposto sempre all'ubbidienza.» E, proferendo queste
parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento.
I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
«Benissimo, e buona notte, messere,» disse l'un d'essi, in atto di
partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe
dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la
conversazione e le trattative. «Signori....» cominciò, chiudendo il
libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la
strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia
che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a
bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che
conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra,
che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio,
quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui
gli era toccato di vivere.
Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un
cuor di leone. Ma fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere
che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale
senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione
d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto
l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far
paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze
private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati,
e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente
esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad
arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure,
studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse
essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli squarci che
abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma
fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò,
quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non
servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l'impotenza
de' loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era
principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e
i deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le violenze,
e l'astuzia di questi. L'impunità era organizzata, e aveva radici che
le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili,
tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza
legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane
proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività
d'interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata
e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni
minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni,
per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all'apparire delle gride
dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza
reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le
gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo,
e molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza
protezione; perchè, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per
prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del
privato al volere arbitrario d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima
di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi
a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai
osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea
che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse d'una famiglia
potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva
ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran
deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla
parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni
e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per
imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben
guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle
cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata, quando
fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e
pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne
alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di
sottomettere, e con una gran probabilità d'essere abbandonati da chi,
in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma,
oltre di ciò, costoro eran generalmente de' più abbietti e ribaldi
soggetti del loro tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche da
quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era
quindi ben naturale che costoro, in vece d'arrischiare, anzi di gettar
la vita in un'impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche
la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro
esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni
dove non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini
pacifici e senza difesa.
L'uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d'essere offeso,
cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi,
portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati
in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior
potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere
e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il
militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati
in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega,
i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie
aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo trovava
il vantaggio d'impiegar per sè, a proporzione della sua autorità e
della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan
di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi
ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali
i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene
l'impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali;
e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con
intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi,
per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi
quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a
cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto
resistere.
Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era
dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione,
d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto
a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai
di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la
verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini
del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con
qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran
sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una
classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che
fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema
particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della
propria quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali
facesse bisogno d'adoperarsi molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo
sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e
nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in
tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora
frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il
civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini,
nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si
trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti,
stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far
vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che
gli dicesse: ma perchè non avete saputo esser voi il più forte? ch'io
mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da' prepotenti,
dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose,
corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un' intenzione
più seria e più meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto
gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando
gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a passare i
sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo; e
quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli
altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano
esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli
un po' di sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma
siccome v'eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch'egli
conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle
sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi
anche lui la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto.
Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui,
quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano,
pericolo. Il battuto era almeno almeno un imprudente; l'ammazzato era
sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni
contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar
sempre qualche torto; cosa non difficile, perchè la ragione e il torto
non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia
soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava contro que'
suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole
oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi
gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva
anche severamente, ch'era un mischiarsi nelle cose profane, a danno
della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre
però a quattrocchi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di
veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi,
in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza
prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie:
che a un galantuomo, il qual badi a sè, e stia ne' suoi panni, non
accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare
sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento
di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore
noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era
costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto,
e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi
pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio.--Se
Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle
ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e,
anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno
vuol contraddirgli.... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella
Lucia, innamorato come.... Ragazzacci, che, per non saper che fare,
s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno
carico de' travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero
me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla
mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio
maritarmi? Perchè non son andati piuttosto a parlare.... Oh vedete un
poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre
in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi pensato di suggerir
loro che andassero a portar la loro ambasciata....--Ma, a questo punto,
s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore
dell'iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de'
suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a togliergli la sua
pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, nè aveva mai
avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la
terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l'aveva
incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più
d'un'occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a
bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano
qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch'era un rispettabile
cavaliere. Ma, in quel momento, gli diede in cuor suo tutti que' titoli
che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere
in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri,
alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta
nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse
diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò
subito: «Perpetua! Perpetua!», avviandosi pure verso il salotto,
dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la
cena. Era Perpetua, come ognun se n'avvede, la serva di don Abbondio:
serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo
l'occasione, tollerare a tempo il brontolío e le fantasticaggini del
padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno
in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età sinodale dei
quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le
si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane
che la volesse, come dicevan le sue amiche.
«Vengo,» rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il
fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente;
ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con
un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così
stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di
Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa
di straordinario davvero.
«Misericordia! cos'ha, signor padrone?»
«Niente, niente,» rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante
sul suo seggiolone.
«Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com'è?
Qualche gran caso è avvenuto.»
«Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che
non posso dire.»
«Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute?
Chi le darà un parere?...»
«Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio
vino.»
«E lei mi vorrà sostenere che non ha niente!» disse Perpetua, empiendo
il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in
premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
«Date qui, date qui,» disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con
la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una
medicina.
«Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto
al mio padrone?» disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani
arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo
fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
«Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne
va.... ne va la vita!»
«La vita!»
«La vita.»
«Lei sa bene, che ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente,
in confidenza, io non ho mai....»
«Brava! come quando....»
Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito
il tono, «signor padrone,» disse, con voce commossa e da commovere,
«io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per
premura, perchè vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere,
sollevarle l'animo....»
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi
del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo:
onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti
assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non
fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le
raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del
mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne
giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla
spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto
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