I promessi sposi. - 03

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aveva avuto per precettore il Parini; e che, per aver superato--egli,
il nipote del dottor Bicetti a cui il poeta aveva diretta l'ode
sull'_Innesto del vaiuolo_--il terribile morbo, meritò la magnifica
ode _Torna a fiorir la rosa_. Giovan Carlo era nato (il 1753; contava
dunque circa nove anni più della Giulia) tra le carezze della fortuna
e i sorrisi dell'arte. Erede di due case, gl'Imbonati e i Bicetti, per
diversa ragione illustri, Pietro Verri ne aveva da Vienna salutato
l'avvento con un'ode anacreontica, ricca di lieti presagi se non
di pregi poetici. Dalla madre, poi, rimasta vedova quand'egli si
trovava sui quindici anni, era stato mandato in un collegio di Roma.
E tornatone, qui a Milano conquistò subito fama di virtuoso e di
filosofo, la mente e il cuore aperti alle più sane e liberali idee
moderne.
A buon conto, per una giovane signora, ch'era avvezza a sentirsi
considerata, e a considerar sè medesima, quale un gentile ed olezzante
fiore sbocciato in un'aiuola donde e l'_Enciclopedia_ e i libri del
Rousseau, del Voltaire, dell'Helvetius, del Montesquieu, del Genovesi,
del Filangieri avevano spazzata la nebbia dei pregiudizii sociali
e religiosi; per una donna, ch'era conscia ed orgogliosa del gran
nome paterno, risonante glorioso per tutta Europa, e che risentiva
fortemente in sè stessa i fremiti di quel burrascoso rinnovamento
sociale che s'annunziava all'orizzonte con lampi e bagliori sanguigni:
per una tal donna, quel giovane Imbonati, immune dei vizii nobileschi
flagellati nel _Giorno_, la fronte redimita degli allori pariniani,
ansioso anch'egli del trionfo delle nuove idee, o come non doveva parer
l'uomo ideale, quasi il leggendario cavaliere sognato e vagheggiato
nella impaziente fantasia? E per lui, pel cavaliere filosofo, la Giulia
Beccaria o come non doveva rassomigliare, negli atti e nelle parole,
alla donna sognata?
Tutta al volto, ai costumi, alla favella
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima?
Il 23 febbraio 1792, poco più che nove anni dopo ch'era stato
giurato, «si ruppe lo comun rincalzo»; e fu pronunziata la sentenza
di separazione. Don Pietro pare mettesse tutto il suo miglior volere
perchè non avvenissero scandali; e restituì alla Giulia tutta la sua
dote, aggiungendovi qualche dono. Tuttavia uno scandalo fu lì lì per
iscoppiare, a proposito della dote materna, che la Giulia pretese il
padre le consegnasse subito ed intera. (Eran lire 45,000). Il marchese
non volle acconsentire; e alla imprudente figliuola riuscì pur troppo
facile trovare un Azzecca-garbugli, che s'assunse l'odiosa parte di
rappresentar Cesare Beccaria quale un tiranno domestico e un demagogo.
Se lo scandalo tribunalesco non dilagò, fu solo perchè un colpo
d'apoplessia spezzò il cuore di quel povero padre, a 56 anni, il 28
novembre 1794.
La separazione dei due coniugi fu, non solo da essi, ma da tutti
coloro che li avvicinavano, considerata quale un vero e proprio
divorzio. Non era quest'antico istituto della Roma repubblicana meglio
consentaneo a quelle tali leggi di natura, a cui i contemporanei
del Rousseau si mostravan tanto devoti? Va bene, in omaggio alle
prescrizioni barbogie della legge scritta, la Giulia aveva scelto
per suo nuovo domicilio la casa d'uno zio materno; ma, compiuta
questa formalità, chi avrebbe osato di biasimare il suo affetto per
l'Imbonati? Forse che l'Alfieri e la contessa d'Albany avean cessato
d'accentrare in loro la stima, anzi la venerazione, di tutti i nobili
spiriti d'Italia, per la mancanza del visto delle autorità civili od
ecclesiastiche alla loro libera unione? «Mia cara Giulia», scriveva
alla cognata morganatica una delle sette sorelle Imbonati, «non v'è
altro bene nel mondo che due anime che s'incontrino; e le vostre son
tali. Prosiegui, mia cara, a render felice chi ti fa felice, e ricevi i
miei cordiali ringraziamenti per l'assistenza e le affettuose premure
che tieni per il mio caro Imbonati, del quale sento con tanta pena che
alle volte soffre nella sua preziosa salute»[1].
Anche don Pietro non dava poi in ismanie. Da quelle nozze si direbbe
ch'egli avesse avuto quanto meglio desiderava; e in verità il frutto
non poteva esserne nè più prezioso, nè più appetitoso. Con quella
collaboratrice valente che glielo aveva procurato, egli si mostrò
sempre largo e generoso. In casa, non è presumibile che egli o i
parenti o gli amici ne sparlassero, e neanche che esprimessero
sentimenti di rancore per l'Imbonati. Molti di quegli amici
frequentavano anche la signora Giulia. E ad ogni modo, non sembra che
al giovanetto Alessandro giungesse mai l'eco di rancori domestici;
chè, vivendo nella casa paterna, egli serbò sempre immutata la
sua devozione affettuosa verso la madre, e la stima altissima per
l'antico alunno del Parini. Pur quand'era in collegio, e vi riceveva
le visite alterne della madre e del padre, nulla par trapelasse dai
loro discorsi dell'irreparabile dissidio. Al Monti, che nel settembre
1803 gli scriveva a Lecco: «Presentate al vostro signor padre i
miei ringraziamenti e rispetti»; al Monti, di cui egli scriveva in
una lettera da Venezia del 24 marzo 1804: «Se Monti vuoi mandarmi il
_Persio_, lo faccia avere, col nome di Dio, a mio padre a Milano»; non
si peritava di scriver da Parigi, il 31 agosto 1805: «Io ho sentito
veramente il bisogno di scriverti, di comunicare a te la mia felicità,
a te che me l'avevi predetta; di dirti che l'ho trovata fra le braccia
d'una madre; di dirlo a te, che tanto mi hai parlato di lei, che tanto
la conosci. Io non cerco, o Monti, di asciugar le sue lacrime; ne verso
con lei; io divido il suo dolore profondo, ma sacro e tranquillo».
E questo dolore, s'intende, era per la morte dell'Imbonati! Del quale
il Manzoni medesimo ripiglia a dire, in fin della lettera: «Io non vivo
che per la mia Giulia, e per adorare ed imitare quell'uomo che solevi
dirmi essere la virtù stessa». E la sua Giulia, ch'era poi la madre,
aggiunge due righe al «caro Monti». «Oh voi che lo amate», scrive,
«voi che veramente lo conoscete, giacchè poteste proporgli per modello
l'adorato mio Carlo, voi misurate l'amore immenso che gli porto, da
quell'immenso ancora dolore, sacro, insanabile, che sento e provo per
Lui». E continua parlando infocatamente di lui, cioè dell'Imbonati;
il quale, a buon conto, aveva in terra usurpato il loco di don Pietro
Manzoni, che non vacava «nella presenza del figliuol di Dio», e nemmeno
avrebbe dovuto parer vacante al figliuolo di don Pietro stesso e
di lei! «Ah! voi non mi direte già di distrarmi nè di consolarmi»,
soggiungeva donna Giulia nel poscritto al Monti: «voi non potete
immaginare che si ardisca tentare di mettere una lacuna nell'eternità,
già incominciata per me perchè fissata sopra di Lui».


VIII.

Nel Carme v'è un accenno oscuro a malignazioni e a calunnie[12].
Il Manzoni le disdegnò in Milano, e disdegna ora, a Parigi,
d'intrattenerne l'ombra dell'Imbonati.
[12] Notevole quest'altro accenno, in una lettera al Pagani, da Parigi,
14 settembre 1806: «Io preferisco l'indifferenza naturale dei Francesi,
che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri,
che s'impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura della vostra
anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare; come
se chi ha una testa, un cuore, due gambe ed una pancia, e cammina da
sè, non potesse disporre di sè, e di tutto quello che è in lui, a suo
piacimento».
Nè l'orecchio tuo santo io vo' del nome
Macchiar de' vili, che oziosi sempre,
Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L'operosa calunnia. A le lor grida
Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.
Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
Ond'io lieve men vado a mia salita,
Non li curando.
Chi sa? ma furon forse appunto le «grida» dei maligni, che
infastidirono, a lungo andare, anche la Giulia e l'amico suo, e
l'indussero a lasciar Milano. Giancarlo, già, pare, infermiccio,
dispose, l'ottobre del 1795, di tutta la sua sostanza: ad eccezione di
qualche speciale legato, nominava sua erede la Giulia; «e questa mia
libera e irrevocabile disposizione», dichiarava per man di notaio, «è
per un attestato, che desidero sia reso pubblico e solenne, di que'
senti menti puri e giusti, che debbo e sento per detta mia erede, per
la costante e virtuosa amicizia a me professata, dalla quale riporto
non solo una compiuta sodisfazione degli anni con lei passati, ma
un'intima persuasione di dovere alla di lei virtù e vero disinteressato
attaccamento quella tranquillità d'animo e felicità, che m'accompagnerà
fino al sepolcro». E si misero in cammino. Viaggiarono un po' qua
e un po' là per l'Europa; visitarono anch'essi--era un dovere di
moda, per gli spiriti ansiosi del rinnovamento politico: si pensi al
Montesquieu e all'Alfieri, al Voltaire e al Foscolo, alla Staël e al
Baretti!--l'Inghilterra; e finalmente si stabilirono a Parigi. Qui
il nome di Beccaria era la più valida delle commendatizie; e i due
amici furono accolti e festeggiati nei ritrovi più intellettuali, in
casa Condorcet, soprattutto, e alla villa della Maisonnette a Meulan.
L'idillio non fu spezzato che dalla morte di Giancarlo, che avvenne il
15 marzo 1805.
In quei giorni appunto si concertava di chiamare a Parigi anche
Alessandro, oramai sui venti anni. Dall'ombra dell'Imbonati il poeta si
fa dire:
E sai se, quando
Il mio cor ne le membra ancor battea,
Di te fu pieno, e quanta parte avesti
De gli estremi suoi moti....
Ed egli di rimando:
Allor ch'io l'amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime furo; e la dolcezza
De l'esser teco presentia, chi detto
M'avria che tolto m'eri! E quando in caldo
Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,
Che non saria da gli occhi tuoi veduto,
Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
A compiere quel viaggio ora fu sollecitato dalla madre desolata. Egli
corse, e da quella cara e inconsolabile donna udì narrare «sospirando,
Come si fa di cosa amata e tolta», di quale «_virtù_ fu tempio il
casto petto» dell'amico rimpianto. Il poeta si ricordò in buon punto
di Vittorio Alfieri; chè ora egli era tutto Alfieri. All'amico Pagani,
ch'era invece tutto Monti, scriveva di questi tempi (18 aprile 1806):
«Tu mi parli di Alfieri, la cui _Vita_ è una prova del suo pazzo
orgoglioso furore per l'indipendenza, secondo il tuo modo di pensare;
e secondo il mio, un modello di pura, incontaminata, _vera virtù_
di un uomo che sente la sua dignità, e che non fa un passo di cui
debba arrossire». E poichè l'Alfieri aveva consacrato all'immacolata
memoria dell'amico Francesco Gori, «ignoto ai contemporanei suoi,
perchè degni non erano di conoscerlo forse», quel magnanimo Dialogo
che intitolò appunto _La virtù sconosciuta_; su quelle orme, egli, il
Manzoni, ricalcò un nobilissimo epicedio, per celebrare la _virtù_
dell'Imbonati, anche essa non affidata ad altre opere o di mano o
d'ingegno.
Aveva disperato--troppo presto, in verità--di vedere in terra «un
raggio di _virtù_» (è la parola di moda, tra quegli scrittori
neo-classici e neo-repubblicani; ma il Manzoni aveva pur nell'orecchio
il petrarchesco: «Però che altrove _un raggio_ Non veggio _di virtù_,
che al mondo è spenta»); ed ecco la madre piangente gliene additava un
faro; ma ohimè allora allora spento! Ebbene, sarà mai possibile
che di tal merto pera
Ogni memoria? E di cotanto esemplo
Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
Vergogna il tristo?
La mossa è tutta alfieriana. Quando, «al fosco e muto ardere della
notturna lampada», all'Alfieri dormente appare, in «un raggiante
infuocato chiarore» e diffondendo intorno un «soavissimo odore»,
l'ombra «del già dolce suo amico del cuore e dell'animo», egli, rifatto
un po' dallo spavento, ripiglia:
«Assai cose mi rimaneano a dirti e ad udire da te, quando (ahi lasso
me!) per poche settimane lasciarti credendomi, senza saperlo, io
l'ultimo abbraccio ti dava. Desolato io ed orbo mi sono da quel giorno
funesto; nè altra scorta al ben vivere ed alle poche e deboli opere
del mio ingegno mi rimase, se non la calda memoria di tue possenti
parole, e di quella tua tanta _virtù_, di cui nobile ed eccelsa prova
al mondo lasciare ti avevan tolto i nostri barbari tempi, l'umil tua
patria, un certo tuo stesso forse ben giusto disdegno, ed infine
l'acerba inaspettata tua morte».
Il Manzoni procede più immaginoso e colorito: oltre al Dialogo
alfieriano, egli ha presente l'episodio dantesco di Brunetto Latini
(e ora si studia d'imitar Dante, con devota e tranquilla ammirazione,
senza risentire quelle bizzarre insofferenze che lo tormentaron
poi), e altresì l'apparizione dell'ombra di Ugone a Goffredo, in
quella _Gerusalemme liberata_ (XIV, 1 ss.) che dopo si spassò molto a
canzonare (non cessando però dall'appassionarsi pel Grossi e pei suoi
_Lombardi_ e le sue novelle in versi!)[13]. E poi, l'arte e la poetica
montiana non eran davvero passate senza lasciar traccia sull'arte e
sulla sua educazione letteraria. Il Manzoni ha già, od ha ancora, il
gusto dei paragoni minuziosi, larghi, quasi d'intere scenette: quali
sono in Omero e in Dante, nel Milton e nel Parini; e quali saranno
negl'_Inni sacri_ (a ognuno cadrà in mente il _masso_ dal vertice del
_Natale_) e nelle tragedie (basterà ripensare alla _rugiada_ che pugna
col _sole_ nel coro d'Ermengarda). Laddove l'Alfieri, nelle tragedie in
ispecie, abborre da ogni maniera di paragoni; e questa dura astinenza
non contribuisce poco alla durezza e alla magrezza, che tanto i
contemporanei del Cesarotti e del Monti gli rimproveravano[14].
[13] Indicai le ragioni psicologiche ed artistiche di codesta scarsa
ammirazione pel Tasso in uno scritto d'occasione, _Nel terzo centenario
della morte del Tasso_ (pubblicato nel _Corriere della sera_ del 25
aprile 1895), che non mi pare indegno di ricordo.
[14] Mi piace di rilevare da un articolo d'occasione di quell'insigne
maestro e artefice di stile che è FRANCESCO D'OVIDIO (_Il centenario
della morte di Vittorio Alfieri_, nel _Corriere della sera_, 8 ottobre
1903) questo tocco: «Più che la durezza, al suo stile si potrebbe
veramente apporre la scarsezza di colorito, d'immagini splendide, di
paragoni efficaci, di arguzia profonda».
Così l'alfieriano Gori come il manzoniano Imbonati si mostran
nauseati di quel mondo, in mezzo a cui avevano dovuto vivere; e se
pur lo lasciarono con un senso di rammarico, ciò avvenne in grazia di
un'unica persona, cara al loro cuore. Più elegiaco e più, direi quasi,
umanitario, si mostra l'Imbonati; più tragico e più schiettamente
italiano, il Gori. La morte, questi dice, «a me dolse soltanto perchè,
senza neppur più vederti negli ultimi miei momenti, io lasciava te
immerso fra le tempeste di mille umane passioni»; tuttavia, essa «al
mio cuore e pensamento giovava, poichè da tanti sì piccioli e nauseosi
aspetti per sempre toglieami». Che vita è la nostra? «Privato ed
oscuro cittadino nacqui io di picciola e non libera cittade; e nei più
morti tempi della nostra Italia vissuto, nulla vi ho fatto nè tentato
di grande: ignoto agli altri, ignoto quasi a me stesso, per morire
io nacqui, e non vissi; e nella immensissima folla dei nati-morti
non mai vissuti, già già mi ha riposto l'oblio». Si capisce: il Gori
è un Alfieri mancato; e non era possibile all'Alfieri ritrarre un
personaggio a cui egli non prestasse parte dell'anima sua, o in cui non
riproducesse un lato almeno del suo carattere.
Ma per il Manzoni le cose andavan diversamente. Non già che nel
poeta del _Trionfo della Libertà_ fosse ora affievolito il sentimento
patriottico, anzi il feroce sentimento alfieriano dell'italianità;
ma in lui prevaleva, fin d'allora, nella rappresentazione poetica,
il rispetto geloso del vero storico. E l'Imbonati gli era sì stato
descritto come esemplare d'ogni virtù privata, ma nessuna gran prova,
se Dio vuole, aveva egli dato delle sue virtù pubbliche e del suo
patriottismo. Era pariniano; e il Parini desiderava con tutta l'anima
che i suoi concittadini divenissero sempre più «saggi e buoni», ma,
quanto alla forma del governo, non mostrò mai spiccate preferenze. Che
l'amministrazione fosse onesta e illuminata, questo a lui sembrava
dovesse bastare; nulla curando che le riforme invocate fossero attuate
da una tirannia assoluta o da una temperata, da un despota straniero o
da uno paesano. Anzi, per lui il Paese finiva al Ticino e al Po; e Roma
e Napoli erano un tantino più lontane di Parigi, e Torino e Firenze un
po' meno vicine di Vienna!
Quanto a sè, il poeta della _Libertà_, dell'_Adelchi_, del _Marzo
1821_ era e rimase sempre, circa il sentimento e il desiderio
dell'unità e indipendenza nazionale, con l'Alfieri: anche quando il suo
sentimento umanitario e religioso lo consigliò a divorziare da codesto
magnanimo, a proposito dell'odio misogallico ch'ei voleva tener vivo
negl'Italiani. In alcuni frammenti, pubblicati postumi, della _Morale
cattolica_, il Manzoni si diede a confutare «con tanto maggior forza
quanto maggiore è la riputazione del suo autore», quella «proposizione
perversa e assurda» del _Misogallo_, che proclamava soggetto d'invidia
«la barbarie degli antichi» e incalcava «l'odio sistematico contro
ventotto milioni d'uomini»: un vero «delirio» codesto, «che non può
divenir generale nè durare in un paese dove è stato annunziato il
Vangelo». Sennonchè ivi stesso, a proposito del solenne biasimo che
il nobilissimo conte infligge alle città italiane che «stoltamente
adastiandosi, fanno coi loro piccioli, inutili ed impolitici sforzi,
ridere e trionfare gli elefanteschi lor comuni oppressori», il Manzoni
s'affrettava a dichiarare: «Tolga il Cielo ch'io cerchi d'indebolire
la disapprovazione contro questi miserabili odi municipali!» Gli è
che il poeta del _Marzo 1821_ si sentiva più _cattolico_ che non il
paganizzante Alfieri, e dantescamente «cittadino del mondo» oltre che
italiano. «Ma bisogna estendere il principio», perciò soggiungeva,
«bisogna sentire e ripetere che la somiglianza che ci dà l'essere
d'uomo, è ben più forte che la diversità di nazione». E ad ogni modo,
il suo sentimento unitario era così vivo ed alfieriano, anche allora,
da suggerirgli questa caratteristica osservazione, a proposito della
pecoresca concordia e costanza di alcuni stranieri a tacciarci di vizi
che non abbiamo: «Forse il vederci riuniti nella condanna ci farà
sentire sempre più che siamo fratelli: siamo tutti posti in società di
difetti, ebbene è sempre una società; col dare a tutti gl'Italiani lo
stesso carattere, per vizioso che egli sia, ci ricordano che abbiamo
una patria»[15].
[15] Cfr. _Opere inedite o rare_, ecc.; III, pp. 365-70, 313.


IX.

Il Carme del giovane Alessandro volle essere la consacrazione
coraggiosa e la balda apoteosi di quell'episodio domestico,
caratteristico d'un tempo in cui le sentimentalità ribelli di
Giangiacomo Rousseau eran reputate sicure dottrine d'una nuova
morale, e l'unione dell'Alfieri con la D'Albany un memorabile esempio
di sfranchimento da vieti pregiudizii. Quel Carme, lo spensierato
ammiratore della _Vita_ e delle _Rime_ del fiero Allobrogo volle
gettarlo come un guanto di sfida sul viso di quanti osavano sparlare,
o sorridere a mezza bocca, della virtù della «pudica sposa» di don
Pietro Manzoni così «cara» all'Imbonati. Ma che! Questi era un uomo
singolarissimo:
Di retto acuto senno, d'incolpato
Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero,
Non vantator di probità, ma probo;
un uomo, che ben mostrava d'aver fatto tesoro degli ammaestramenti del
Parini camuffato da «Centauro ingegnoso», dacchè «quel più dolce senso»
onde s'era piegato ad amare, lo aveva reso «fido amante e indomabile
amico».
Il poeta, da vero _enfant terrible_, non sospetta nemmeno d'arrecar
offesa all'altro suo parente, che viveva ancora a Milano, rassicurando
quell'intruso, allora morto, dell'imperituro amore di sua madre per lui!
Certo so ben che il duol t'aggiunge e il pianto
Di lei che amasti ed ami ancor, _che tutto_,
_Te perdendo, ha perduto_.
Il volterriano ridiventa spiritualista per consolare quelle due anime
sconsolate! Se non altro il Petrarca sodisfaceva la sua interminabile
vanità, quando immaginava che l'anima di Laura, dimentica di tutti i
suoi affetti di sposa e di madre fecondissima, gli dicesse in visione:
_Te solo aspetto_, e quel che tanto amasti
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.
Ma dell'incomodo signor De Sade--il «geloso» della poesia
provenzalesca--e della numerosa e perturbatrice sua prole, era
naturale, soprattutto naturale, che all'intraprendente canonico
importasse poco. Nel caso del Manzoni invece, qualcuno avrebbe potuto
pretendere dal pudico ed onesto figliuolo un più guardingo riserbo;
almeno, un rispettoso silenzio[16].
[16] Con tutto il rispetto dovuto a un uomo così puro come fu e si
mantenne sempre il Manzoni, bisogna confessare che non si legge senza
un certo brivido di freddo la lettera sua al Fauriel, da Torino, il
30 marzo 1807. Comincia: «Je vous disais, mon cher Fauriel, dans ma
lettre de Gènes, qu'elle aurait été bientôt suivie d'une autre; ne la
recevant pas, vous avez dû croire que le motif de ce retard devait
être bien fort. Il est bien fort et bien affligeant: le jour après
que je vous avais écrit, je reçus une lettre de Milan qui m'annonçait
que mon père était très-malade et désirait me voir: je partis tout
de suite: ma bonne mère m'accompagna; mais a mon arrivée, on me dit
que je ne pouvais pas avoir la consolation de voir mon père: car
le jour même qu'on m'avertit de sa maladie fut son dernier jour.
N'ayant fait cette course que pour voir mon père, je ne m'arrêtai que
trois jours a Brusuglio» [nella casa di campagna dove la madre aveva
trasportata e composta la salma dell'Imbonati!], «à une lieue de
Milan, et nous repartîmes pour Turin, où nous resterons un mois à peu
près avec M.me Sannazari» [la sorella dell'Imbonati!]. «Ni ma mère
ni moi n'avons même mis le pied dans Milan; elle n'avait aucun motif
d'y aller: moi-même je n'en avais plus».--E in verità non riesce a
riscaldarci la lettera seguente, degli 8 aprile: «Vous aurez reçu ma
lettre, dans laquelle je vous informe de la perte de mon père. J'ai
été a Brusuglio en espérant le voir à Milan; n'étant plus à temps, je
n'ai pas mis le pied dans la ville, par crainte qu'on ne m'accusât de
l'avoir fait après sa mort, moi qui n'y allais pas de son vivant; et
parce que j'aurai moi-même éprouvé une répugnance à le faire, quoique
ce ne fut pas à cause de lui que je n'y allais pas, puisqu'au contraire
c'est à cause de lui seul que je m'en suis approché. Paix et honneur à
sa cendre». Ah sì, pace e onore davvero, pover'uomo!
Il fatto è che perfin l'Imbonati «mestamente sorride» all'ingenua
assicurazione dell'entusiasta Alessandro, e prende coraggio per
dichiarargli:
Se non fosse
Ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto
Quell'anima gentil fuor de le membra
Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo
Di Quei ch'eterna ciò che a Lui somiglia;
Chè fin ch'io non la veggo, e ch'io son certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso.
Si direbbero parole d'un Paolo Malatesta, spedito al mondo di là un po'
prima dell'altrui Francesca!
Comunque, il Manzoni-Beccaria pare leggesse quel suo Carme prima
agl'illustri frequentatori della Maisonnette, che se ne saranno
felicitati con la signora Giulia; e poi, nel gennaio del 1806, lo
diede a stampare, in Parigi stessa, al Didot. Ne furon tirati soltanto
cento esemplari; e uno di essi, in pergamena, fu dal figliuolo offerto
alla madre, e da questa poi donato, quasi reliquia domestica, ai
nipoti. L'esiguo numero delle copie, scrisse un giornale del tempo, fu
«appena sufficiente a destare la pubblica curiosità»; onde il Manzoni,
e più forse la madre, procurarono che il Carme venisse ristampato
in Milano, nel «fatale giorno anniversario della morte del virtuoso
Imbonati». All'amico Pagani, cui commetteva quell'ufficio, Alessandro
soggiungeva il 12 marzo: «Mia madre dice che un tuo sospiro per _lui_
sarà a lui un omaggio, una consolazione a lei, e che in quel momento
le nostre anime saranno unite». E ancora: «Facendo l'edizione di cui
ti ho parlato», scriveva, «vorrei che tu aggiungessi al mio nome un
titolo di cui mi glorio, e che mettessi sul frontispizio: _Alessandro
Manzoni Beccaria_». Così, «degnato del secondo nome», gli enfatici
amici parigini preferivan chiamarlo; e il Le Brun--quel Ponzio Dionigi
Le Brun, del quale il Manzoni ha scritto un elogio, che il simile forse
mai non scrisse di altri[17]--, donandogli un suo componimento stampato,
vi aveva voluto assolutamente scriver sopra: _À M. Beccaria. C'est un
nom trop honorable pour ne pas saisir l'occasion de le porter. Je veux
que le nom de Le Brun choque avec celui de Beccaria._
Sennonchè il Pagani o non volle o non era più in tempo per contentarlo;
e l'opuscolo portò in fronte: _In morte di Carlo Imbonati, versi di
Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre._ E fu bene; e anzi non
s'intende come, volendo mantenere la dedica alla madre, ch'è richiesta
dal Carme stesso, se ne potesse già spender prima il cognome. Ma fu
male che l'amico zelante aggiungesse di suo capo, nella ristampa
milanese, una rumorosa dedica a Vincenzo Monti. Gli diceva:
«Al principe de' poeti moderni è certamente convenevole il sacrare un
lavoro poetico di giovane ingegno, che già manda gran luce e riempie
gli animi bramosi de' letterati di una ferma speranza che nella nostra
Italia non verrà interrotta la solita successione dei buoni cultori
delle muse. Nè posso credere che questi versi sieno per riuscirvi
discari, sendochè Voi stesso, per amor delle lettere, stimolaste più
volte l'autore a deporre quella incomoda timidezza che il tratteneva
dal pubblicare alcune delle sue molto belle rime, studiandovi con
magnifiche e vere lodi renderlo più giusto conoscitore di sè medesimo.
Io li presento al pubblico con nuova edizione, giacchè le poche copie
della prima fatta in Parigi non hanno bastato alle molte inchieste di
coloro, che il plauso universale facea vogliosi di possederli.
Questi voti e questi encomi pare che vestano d'un novello lume di
verità il vostro vaticinio; che il Manzoni, il volendo, terrà uno de'
più eminenti seggi del Parnaso italiano».
[17] «.....Ho avuto l'onore d'imprimere due baci sulle sue smunte
e scarnate guance» (nato il 1729, il Le Brun morì l'anno appresso,
il 1807); «e sono stati per me più saporiti che se gli avessi colti
sulle labbra di Venere. È un grand'uomo, per Dio! Spiacemi che le
sue odi sieno sparse, e non riunite in un sol volume, per potertele
far conoscere; il suo nome lo conoscerai certamente. Credimi che noi
Italiani siamo alquanto impertinenti, quando diciamo che non vi è
poesia francese. Io credo, e creder credo il vero, che noi non abbiamo
(all'orecchio) un lirico da contrapporre a Le Brun, per quello che si
chiama forza lirica. E perciò qui lo chiamano comunemente _Pindare Le
Brun_, e non dicono forse troppo. Per contentare la loquacità che oggi
mi domina, e per giustificare la mia opinione, ti trascriverò qualche
verso qua e là delle sue odi».....--Dalla lettera a G. B. Pagani, da
Parigi, 12 marzo 1806.
È facile intendere quanto dovesse parere inopportuno, intempestivo,
goffo, al Manzoni codesto panegirico amichevole; tanto più che allora,
stordito dalle immagini e dalle frasi solenni del Le Brun, egli non era
in un momento di vivido entusiasmo pel poeta ferrarese. E meno male
se il Pagani si fosse fermato lì! Ma egli continuava imperterrito,
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