I promessi sposi. - 30

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tanta gente diversa.


CAPITOLO XXII.

Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il
cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a
***, e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera
di quest'arrivo ne' paesi d'intorno aveva invogliati tutti d'andare a
veder quell'uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir
la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle,
ancor più pensieroso.--Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri,
per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che
lo tormenti. Ma nessuno, nessuno n'avrà uno come il mio; nessuno avrà
passata una notte come la mia! Cos'ha quell'uomo, per render tanta
gente allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura....
Ma costoro non vanno tutti per l'elemosina. Ebbene, qualche segno
nell'aria, qualche parola.... Oh se le avesse per me le parole che
possono consolare! se....! Perchè non vado anch'io? Perchè no?....
Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr'occhi gli voglio
parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che.... Sentirò cosa
sa dir lui, quest'uomo!--
Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi,
mettendosi una sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del
militare; prese la terzetta rimasta sul letto, e l'attaccò alla
cintura da una parte; dall'altra, un'altra che staccò da un chiodo
della parete; mise in quella stessa cintura il suo pugnale; e staccata
pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui, se la mise
ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di
tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in
un cantuccio vicino all'uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la
sua voce. La vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire.
Il signore entrò, e data un'occhiata per la camera, vide Lucia
rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.
«Dorme?» domandò sotto voce alla vecchia: «là, dorme? eran questi i
miei ordini, sciagurata?»
«Io ho fatto di tutto,» rispose quella: «ma non ha mai voluto mangiare,
non è mai voluta venire....»
«Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si
sveglierà.... Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai
a prendere qualunque cosa che costei possa chiederti. Quando si
sveglierà.... dille che io.... che il padrone è partito per poco tempo,
che tornerà, e che.... farà tutto quello che lei vorrà.»
La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sè:--che sia qualche
principessa costei?--
Il signore usci, riprese la sua carabina, mandò Marta a fare
anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perchè
nessun altro che quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì
dal castello, e prese la scesa, di corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era
il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non
doveva esser più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de'
valligiani, e anche di gente più lontana, a quel paese, questo non si
potrebbe argomentare; giacchè nelle memorie di quel tempo troviamo che
da venti e più miglia veniva gente in folla, per veder Federigo.
I bravi che s'abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al
passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se
volesse prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si
pensare della sua aria, e dell'occhiate che dava in risposta a' loro
inchini.
Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i
passeggieri, era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva
luogo, prendendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito,
e levandosi rispettosamente il cappello. Arrivato al paese, trovò una
gran folla; ma il suo nome passò subito di bocca in bocca; e la folla
s'apriva. S'accostò a uno, e gli domandò dove fosse il cardinale. «In
casa del curato,» rispose quello, inchinandosi, e gl'indicò dov'era.
Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c'eran molti preti,
che tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa.
Vide dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove
molti altri preti eran congregati. Si levò la carabina, e l'appoggiò in
un canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate,
bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli,
gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli.
«Io son forestiero,» rispose l'interrogato, e data un'occhiata intorno,
chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava
appunto dicendo sotto voce a un suo compagno: «colui? quel famoso? che
ha a far qui colui? alla larga!» Però, a quella chiamata che risonò
nel silenzio generale, dovette venire; inchinò l'innominato, stette a
sentir quel che voleva, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi
su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì un poco, poi disse
o balbettò: «non saprei se monsignore illustrissimo.... in questo
momento.... si trovi.... sia.... possa.... Basta, vado a vedere.» E
andò a malincorpo a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si
trovava il cardinale.
A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di
non fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un
lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde
un po' di tempo all'ombra d'un bell'albero, sull'erba, vicino a una
fonte d'acqua viva. Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e
la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo, alla mente,
la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso
giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore,
dopo la contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità!
Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo
quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia
d'andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque
tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una
grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un
intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio. La sua
vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza
ristagnare nè intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni,
va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla
puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle massime
intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla
vera dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori,
vengono trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare
insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle
massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non
potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che
pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa
sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma
dell'azioni e de' pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la
vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa
per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto,
cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e
santa.
Nel 1580, manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero
ecclesiastico, e ne prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo,
che una fama, già fin d'allora antica e universale, predicava santo.
Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta
ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle
occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà;
e furono d'insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del
popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl'infermi.
Si valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per
attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa
onesta e profittevole esercitò come un primato d'esempio, un primato
che le sue doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli,
se fosse anche stato l'infimo per condizione. I vantaggi d'un altro
genere, che la sua gli avrebbe potuto procurare, non solo non li
ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una tavola piuttosto
povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice;
a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Nè
credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero
e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un'altra
guerra ebbe a sostenere con gl'istitutori, i quali, furtivamente e
come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno,
qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer
dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero
di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella
svisceratezza servile che s'invanisce e si ricrea nello splendore
altrui; o fossero di que' prudenti che s'adombrano delle virtù come de'
vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo
fissan giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi.
Federigo, non che lasciarsi vincere da que' tentativi, riprese coloro
che li facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni,
davanti a quella presenza grave, solenne, ch'esprimeva così al vivo
la santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse
stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità ogni momento l'ossequio
manifesto e spontaneo de' circostanti, quali e quanti si fossero,
Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e
al pensare d'un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia;
ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si
sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent'anni, fosse mancata
una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua
dottrina e della sua pietà, la parentela e gl'impegni di più d'un
cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a
cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un'idea di santità e di
preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può condurre gli uomini
alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele. Ma egli,
persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo
può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra
gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di
scansarle; non certamente perchè sfuggisse di servire altrui; chè poche
vite furono spese in questo come la sua; ma perchè non si stimava
abbastanza degno nè capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò,
venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di
Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi
al comando espresso del papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono nè difficili nè rare;
e l'ipocrisia non ha bisogno d'un più grande sforzo d'ingegno per
farle, che la buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma
cessan forse per questo d'esser l'espressione naturale d'un sentimento
virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole
ch'esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di
tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre
belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e
di sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non
prender per sè, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto sè
stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva,
come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio
de' poveri: come poi intendesse in fatti una tal massima, si veda
da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo
mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi
(scudo si chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo sempre
dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine
che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a
quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito
vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile
misuratore a sè stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima
che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori
contemporanei, al genio della semplicità quello d'una squisita pulizia:
due abitudini notabili infatti, in quell'età sudicia e sfarzosa.
Similmente, affinchè nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa
frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per
suo ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier
ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto
d'una virtù gretta, misera, angustiosa, d'una mente impaniata nelle
minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa
biblioteca ambrosiana, che Federigo ideo con sì animosa lautezza, ed
eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la quale di
libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande
studio e spesa da lui, spedi otto uomini, de' più colti ed esperti
che potè avere, a farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la
Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a
Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati,
e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di
dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non
bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon ristretti a due);
e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia,
lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad
ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v'unì
un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca,
latina e italiana; un collegio d'alunni, che venissero istruiti in
quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v'unì una stamperia
di lingue orientali, dell'ebraica cioè, della caldea, dell'arabica,
della persiana, dell'armena; una galleria di quadri, una di statue,
e una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, potè
trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da
fare gli avesse dato la raccolta de' libri e de' manoscritti; certo
più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue,
allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de'
tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese
tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare
che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte
di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n'abbia portato
la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle
regole che stabilì per l'uso e per il governo della biblioteca, si vede
un intento d'utilità perpetua, non solamente bello in sè, ma in molte
parti sapiente e gentile molto al di là dell'idee e dell'abitudini
comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse
commercio con gli uomini più dotti d'Europa, per aver da loro notizie
dello stato delle scienze, e avviso de' libri migliori che venissero
fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d'indicare agli
studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili;
ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità
e tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve
ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione
d'una biblioteca: allora non era così. E in una storia dell'ambrosiana,
scritta (col costrutto e con l'eleganze comuni del secolo) da un
Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo,
vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria,
eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti
alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche
da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che
gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca
pubblica d'Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in
armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de' bibliotecari,
quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti
il comodo di studiare, non se n'aveva neppur l'idea. Dimodochè
arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all'uso comune: una
di quelle coltivazioni, come ce n'era e ce n'è tuttavia molte, che
isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del
Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due
frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon
niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati
veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor
di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che
perseverante amatore del miglioramento umano, dovess'essere colui
che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l'eseguì, in
mezzo a quell'ignorantaggine, a quell'inerzia, a quell'antipatia
generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai
_cos'importa?_ e _c'era altro da pensare?_ e _che bell'invenzione!_
e, _mancava anche questa_, e simili; che saranno certissimamente
stati più che gli scudi spesi da lui in quell'impresa; i quali furon
centocinquemila, la più parte de' suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che
non ci sia bisogno di sapere se n'abbia spesi molt'altri in soccorso
immediato de' bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano
che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la
migliore e la più utile elemosina. Ma Federigo teneva l'elemosina
propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel
resto, i suoi fatti furon consentanei all'opinione. La sua vita fu
un continuo profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa
carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco
occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza
e che gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De'
molti esempi singolari che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi
biografi, ne citeremo qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava
artifizi e angherie per far monaca una sua figlia, la quale desiderava
piuttosto di maritarsi, fece venire il padre; e cavatogli di bocca
che il vero motivo di quella vessazione era il non avere quattromila
scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la figlia
convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno
parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo
condiscendente agli stolti capricci d'un superbo; e che quattromila
scudi potevano esser meglio impiegati in cent'altre maniere. A questo
non abbiamo nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi
che si vedessero spesso eccessi d'una virtù così libera dall'opinioni
dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente dalla tendenza
generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo a dar
quattromila scudi, perchè una giovine non fosse fatta monaca.
La carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava
in tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di
dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un
viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan
meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co' galantuomini del _ne
quid nimis_, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne'
limiti, cioè ne' loro limiti. Uno di costoro, una volta che, nella
visita d'un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri
fanciulli, e, tra l'interrogare e l'insegnare, gli andava amorevolmente
accarezzando, l'avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze
a que' ragazzi, perchè eran troppo sudici e stomacosi: come se
supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per
fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da
sè quel ripiego così fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di
cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre
così di rado si trova chi gli avvisi de' loro mancamenti, non manca poi
gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon vescovo,
non senza un certo risentimento, rispose: «sono mie anime, e forse non
vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?»
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità
de' suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe
attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era
l'effetto d'una disciplina costante sopra un'indole viva e risentita.
Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co' pastori suoi
subordinati che scoprisse rei d'avarizia o di negligenza o d'altre
tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero.
Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria
temporale, non dava mai segno di gioia, nè di rammarico, nè d'ardore,
nè d'agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell'animo
suo, più mirabile se vi si destavano. Non solo da' molti conclavi ai
quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel
posto così desiderabile all'ambizione, e così terribile alla pietà; ma
una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli
il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella
che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello
depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia,
quest'avversione al predominare apparivano ugualmente nell'occasioni
più comuni della vita. Attento e infaticabile a disporre e a
governare, dove riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre
d'impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere
dall'ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come
ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti
notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso
singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a
trovarsi insieme. Però non ometteremo di notare un'altra singolarità
di quella bella vita: che, piena come fu d'attività, di governo, di
funzioni, d'insegnamento, d'udienze, di visite diocesane, di viaggi,
di contrasti, non solo lo studio c'ebbe una parte, ma ce n'ebbe tanta,
che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, con
tant'altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi
contemporanei, quello d'uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e
sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi
parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a
coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse
difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta,
ch'erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per
certe cose, e quando risulti dall'esame particolare de' fatti, può
aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla
cieca, come si fa d'ordinario, non significa proprio nulla. E perciò,
non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, nè
allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d'esporle; bastandoci
d'avere accennato così alla sfuggita che, d'un uomo così ammirabile
in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente;
perchè non paia che abbiam voluto scrivere un'orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che
qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio
quest'uomo abbia lasciato qualche monumento. Se n'ha lasciati! Circa
cento son l'opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine
e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca
da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia,
d'antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e d'altro.
--E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate, o
almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto
ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose,
con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello,
con tanto candor d'animo, con tant'altre di quelle qualità che fanno
il grande scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur
una di quelle che son riputate insigni anche da chi non le approva in
tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai,
tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo
nome una fama letteraria presso noi posteri?--
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto
interessante; perchè le ragioni di questo fenomeno si troverebbero
con l'osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla
spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e
prolisse: e poi se non v'andassero a genio? se vi facessero arricciare
il naso? Sicchè sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, e
che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a
vederlo in azione, con la guida del nostro autore.


CAPITOLO XXIII.

Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l'ora d'andar in chiesa a
celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com'era solito di fare in
tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un
viso alterato.
«Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!»
«Chi è?» domandò il cardinale.
«Niente meno che il signor....» riprese il cappellano; e spiccando le
sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non
possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: «è qui fuori in
persona; e chiede nient'altro che d'esser introdotto da vossignoria
illustrissima.»
«Lui!» disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e
alzandosi da sedere: «venga! venga subito!»
«Ma....» replicò il cappellano, senza moversi: «vossignoria
illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso....»
«E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la
volontà di venirlo a trovare?»
«Ma....» insistette il cappellano: «noi non possiamo mai parlare di
certe cose, perchè monsignore dice che le son ciance: però, quando
viene il caso, mi pare che sia un dovere.... Lo zelo fa de' nemici,
monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d'un ribaldo ha osato
vantarsi che, un giorno o l'altro....»
«E che hanno fatto?» interruppe il cardinale.
«Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene
corrispondenza co' disperati più furiosi, e che può esser mandato....»
«Oh, che disciplina è codesta,» interruppe ancora sorridendo Federigo,
«che i soldati esortino il generale ad aver paura?» Poi, divenuto serio
e pensieroso, riprese: «san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di
dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo.
Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo.»
Il cappellano si mosse, dicendo tra sè:--non c'è rimedio: tutti questi
santi sono ostinati.--
Aperto l'uscio, e affacciatosi alla stanza dov'era il signore e la
brigata, vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar
di sott'occhio quello, lasciato solo in un canto. S'avviò verso di
lui; e intanto squadrandolo, come poteva, con la coda dell'occhio,
andava pensando che diavolo d'armeria poteva esser nascosta sotto
quella casacca; e che, veramente, prima d'introdurlo, avrebbe dovuto
proporgli almeno.... ma non si seppe risolvere. Gli s'accostò, e
disse: «monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me.»
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