I promessi sposi. - 41

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passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel
milanese, s'intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: chè della
città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di
presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E
in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto
di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i
nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in
ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più
famoso che conosciuto.
Delle molte relazioni contemporanee, non ce n'è alcuna che basti da
sè a darne un'idea un po' distinta e ordinata; come non ce n'è alcuna
che non possa aiutare a formarla. In ognuna di queste relazioni,
senza eccettuarne quella del Ripamonti[25], la quale le supera
tutte, per la quantità e per la scelta de' fatti, e ancor più per il
modo d'osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son
registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che si posson
riconoscere e rettificare con l'aiuto di qualche altra, o di que' pochi
atti della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso
in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell'altra s'eran visti,
come in aria, gli effetti. In tutte poi regna una strana confusione
di tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura,
senza disegno generale, senza disegno ne' particolari: carattere, del
resto, de' più comuni e de' più apparenti ne' libri di quel tempo,
principalmente in quelli scritti in lingua volgare, almeno in Italia;
se anche nel resto d'Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo.
Nessuno scrittore d'epoca posteriore s'è proposto d'esaminare e
di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata
degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicchè l'idea che se
ne ha generalmente, dev'essere, di necessità, molto incerta, e un
po' confusa: un'idea indeterminata di gran mali e di grand'errori
(e per verità ci fu dell'uno e dell'altro, al di là di quel che si
possa immaginare), un'idea composta più di giudizi che di fatti,
alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più
caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza
di causa e d'effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e
confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni
stampate, più d'una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane)
documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel
che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non
intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli
avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo
di rendere inutile a chi voglia farsi un'idea più compita della cosa,
la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva,
propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell'opere di
quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato
di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti,
di disporli nell'ordine reale della loro successione, per quanto lo
comporti la ragione e la natura d'essi, d'osservare la loro efficienza
reciproca, e di dar così, per ora e finchè qualchedun altro non faccia
meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro.
[25] Josephi Ripamontii canonici scalensis chronistæ urbis Mediolani,
De peste quæ fuit anno 1630. Libri V. Mediolani, 1640, apud Malatestas.
[Illustrazione: ....giornalmente continuavano a passar soldati alla
spicciolata.... (pag. 447)]
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall'esercito,
s'era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada.
Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi,
a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni
sconosciuti alla più parte de' viventi. C'era soltanto alcuni a cui
non riuscissero nuovi: que' pochi che potessero ricordarsi della peste
che, cinquantatrè anni avanti, aveva desolata pure una buona parte
d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora,
la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così
varie e così solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare
quella d'un uomo, perchè a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni
più memorabili ancora de' mali; stamparlo nelle menti, come un sunto
di tutti que' guai, perchè in tutti l'ha spinto e intromesso, guida,
soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti, far
per quest'uomo come un'impresa; nominarla da lui, come una conquista, o
una scoperta.
Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduta quella
peste, ma n'era stato uno de' più attivi e intrepidi, e, quantunque
allor giovinissimo, de' più riputati curatori; e che ora, in gran
sospetto di questa, stava all'erta e sull'informazioni, riferì, il 20
d'ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso
(l'ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era
scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna
risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino[26].
[26] Pag. 24.
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il
tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario
che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui
a visitare i luoghi indicati. Tutt'e due, «o per ignoranza o per altro,
si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiere di Bellano,
che quella sorte de mali non era Peste;[27]» ma, in alcuni luoghi,
effetto consueto dell'emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri,
effetto de' disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli
alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale
pare che ne mettesse il cuore in pace.
[27] Tadino, ivi.
Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse
parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino
suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il
male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che
bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la
Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte
di Brianza, e la Gera d'Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da
cancelli all'entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e
attendati alla campagna, o dispersi; «et ci parevano,» dice il Tadino,
«tante creature seluatiche, portando in mano chi l'herba menta, chi
la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d'aceto.» S'informarono
del numero de' morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri,
e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza.
Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale
della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, «si
dispose,» dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per
chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da' paesi dove il
contagio s'era manifestato; «et mentre si compilaua la grida,» ne diede
anticipatamente qualche ordine sommario a' gabellieri.
Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che
parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione
che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto
avanzato e diffuso.
Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in
iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi
al governatore, e d'esporgli lo stato delle cose. V'andarono, e
riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere,
mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più
pressanti: _sed belli graviores esse curas_. Così il Ripamonti,
il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col
Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se
il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell'esito. Due o
tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida,
in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo,
primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il
pericolo d'un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi
ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.
Era quest'uomo, come già s'è detto, il celebre Ambrogio Spinola,
mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don
Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui
incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa
guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul
campo, ma in letto, d'affanno e di struggimento, per rimproveri, torti,
disgusti d'ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva. La storia ha
deplorata la sua sorte, e biasimata l'altrui sconoscenza; ha descritte
con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua
previdenza, l'attività, la costanza: poteva anche cercare cos'abbia
fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una
popolazione datagli in cura, o piuttosto in balía.
Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella
sua condotta, ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è la
condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non
tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All'arrivo di
quelle nuove de' paesi che n'erano così malamente imbrattati, di paesi
che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti
distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe
che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni
bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in
qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d'accordo, è nell'attestare
che non ne fu nulla. La penuria dell'anno antecedente, le angherie
della soldatesca, le afflizioni d'animo, parvero più che bastanti a
render ragione della mortalità sulle piazze, nelle botteghe, nelle
case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste,
veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima
miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva
nel senato, nel Consiglio de' decurioni, in ogni magistrato.
Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di
mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a' parrochi, tra le
altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell'importanza e
dell'obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar
le robe infette o sospette[28]: e anche questa può essere contata tra le
sue lodevoli singolarità.
[28] Vita di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola. Milano,
1666, pag. 582.
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva
poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da
uguagliare l'urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come
appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due
fisici che, persuasi della gravità e dell'imminenza del pericolo,
stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.
Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo
nell'operare, anzi nell'informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza
non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti
da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il
30 d'ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu
pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.
Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la
portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e
infatti, nell'osservare i princípi d'una vasta mortalità, in cui
le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno
indicare all'incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so
quale curiosità di conoscere que' primi e pochi nomi che poterono
essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la
precedenza nell'esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle
particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di
memorabile.
L'uno e l'altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio
di Spagna; nel resto non sono ben d'accordo, neppur sul nome. Fu,
secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel
territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di
quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata
in Milano: il primo la mette al 22 d'ottobre, il secondo ad altrettanti
del mese seguente: e non si può stare nè all'uno nè all'altro. Tutt'e
due l'epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate.
Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale
de' decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender
l'informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego,
poteva, meglio d'ogn'altro, essere informato d'un fatto di questo
genere. Del resto, dal riscontro d'altre date che ci paiono, come
abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione
della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche
provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma
certo, il lettore ce ne dispensa.
Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura,
con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò
a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale,
vicino ai cappuccini; appena arrivato, s'ammalò; fu portato allo
spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un'ascella, mise chi
lo curava in sospetto di ciò ch'era infatti; il quarto giorno morì.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la
di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo
spedale, furon bruciati. Due serventi che l'avevano avuto in cura, e
un buon frate che l'aveva assistito, caddero anch'essi ammalati in
pochi giorni, tutt'e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s'era
avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in
conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.
Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminío che non tardò a
germogliare. Il primo a cui s'attaccò, fu il padrone della casa dove
quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora
tutti i pigionali di quella casa furono, d'ordine della Sanità,
condotti al lazzeretto, dove la più parte s'ammalarono; alcuni
morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.
Nella città, quello che già c'era stato disseminato da costoro, da'
loro panni, da' loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da
persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale,
e di più quello che c'entrava di nuovo, per l'imperfezion degli editti,
per la trascuranza nell'eseguirli, e per la destrezza nell'eluderli,
andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell'anno, e ne'
primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo,
ora in quel quartiere, a qualcheduno s'attaccava, qualcheduno ne
moriva: e la radezza stessa de' casi allontanava il sospetto della
verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale
fiducia che non ci fosse peste, nè ci fosse stata neppure un momento.
Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche
in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augúri sinistri, gli
avvertimenti minacciosi de' pochi; e avevan pronti nomi di malattie
comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a
curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.
Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci
pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia
e del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni: non si denunziavan
gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti;
da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i
cadaveri, s'ebbero, con danari, falsi attestati.
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale
ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie
al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro
di esso l'ira e la mormorazione del pubblico, «della Nobiltà, delli
Mercanti et della plebe,» dice il Tadino; persuasi, com'eran tutti, che
fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L'odio principale
cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio
del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le
piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E
certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione
in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire
avanti un orribile flagello, d'affaticarsi in ogni maniera a stornarlo,
d'incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, volontà, e d'essere insieme
bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: _pro
patriæ hostibus_, dice il Ripamonti.
Di quell'odio ne toccava una parte anche agli altri medici che,
convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni,
cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più
discreti li tacciavano di credulità e d'ostinazione: per tutti gli
altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul
pubblico spavento.
Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario,
stato professore di medicina all'università di Pavia, poi di filosofia
morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro
per inviti a cattedre d'altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna,
Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente
uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione
della scienza s'aggiungeva quella della vita, e all'ammirazione la
benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i
poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di
stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più
generale e più forte, il pover'uomo partecipava de' pregiudizi più
comuni e più funesti de' suoi contemporanei: era più avanti di loro,
ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e
fa molte volte perdere l'autorità acquistata in altre maniere. Eppure
quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo
caso, l'opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i
capocomici, rispettabile pubblico; ma non potè salvarlo dall'animosità
e dagl'insulti di quella parte di esso, che corre più facilmente da'
giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.
Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò
a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che
volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento
la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per
dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i
portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa
d'amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto
chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia
di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far
torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice
sventurata, perchè il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e
un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei[29],
allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò
che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.
[29] Storia di Milano del Conte Pietro Verri. Milano 1825, Tom. 4, p.
155.
Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta
orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le
malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni,
di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di
bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine,
senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla
opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso,
e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta
troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di
febbri maligne, di febbri pestilenti; miserabile transazione, anzi
trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perchè, figurando di
riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che
più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo
del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno,
principiarono a dare un po' più orecchio agli avvisi, alle proposte
della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le
quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo
anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del
lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto
che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali
spese toccassero alla città, o all'erario regio. Ai decurioni faceva
pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore,
ch'era andato di nuovo a metter l'assedio a quel povero Casale; faceva
istanza il senato, perchè pensassero alla maniera di vettovagliar
la città, prima che, dilatandovisi per isventura il contagio, le
venisse negato pratica dagli altri paesi; perchè trovassero il mezzo
di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i
lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d'imprestiti,
d'imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po' alla
Sanità, un po' a' poveri; un po' di grano compravano: supplivano a una
parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute.
[Illustrazione: I portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il
padrone in una casa d'amici.... (pag. 455)]
Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni
giorno, andava ogni giorno crescendo, era un'altra ardua impresa
quella d'assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le
separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio,
di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: chè,
fin da' primi momenti, c'era stata ogni cosa in confusione, per
la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la
connivenza de' serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove
battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono
il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del
provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de' soggetti
abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro,
per principale, un padre Felice Casati, uomo d'età matura, il quale
godeva una gran fama di carità, d'attività, di mansuetudine insieme e
di fortezza d'animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata;
e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli,
ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d'aspetto. Furono
accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto.
Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne
il possesso; e, convocati i serventi e gl'impiegati d'ogni grado,
dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice,
con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile
radunanza andò crescendo, v'accorsero altri cappuccini; e furono in
quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri,
cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse. Il padre
Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava
di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno,
talvolta portando un'asta, talvolta non armato che di cilizio; animava
e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele,
minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva
lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con
nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più
parte la vita, e tutti con allegrezza.
Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la
calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per
argomento, anzi per saggio d'una società molto rozza e mal regolata,
il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non
sapesser più farne altro che cederlo, nè trovassero a chi cederlo, che
uomini, per istituto, il più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non
ignobile della forza e dell'abilità che la carità può dare in ogni
tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest'uomini sostenere
un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato,
senz'altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz'altro fine
che di servire, senz'altra speranza in questo mondo, che d'una morte
molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro
offerto, solo perchè era difficile e pericoloso, e si supponeva che il
vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que' momenti, essi
lo dovevano avere. E perciò l'opera e il cuore di que' frati meritano
che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella
specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi
resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono
per ricompensa. «Che se questi Padri iui non si ritrouauano,» dice
il Tadino, «al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoichè
fu cosa miracolosa l'hauer questi Padri fatto in così puoco spatio
di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto
agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza
haueuano mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de poueri.» Le persone
ricoverate in quel luogo, durante i sette mesi che il padre Felice
n'ebbe il governo, furono circa cinquantamila, secondo il Ripamonti; il
quale dice con ragione, che d'un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente
parlare, se in vece di descriver le miserie d'una città, avesse dovuto
raccontar le cose che posson farle onore.
Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste, andava
naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si
diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e
tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra'
poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come
allora fu il più notato, così merita anche adesso un'espressa menzione
il protofisico Settala. Avranno almen confessato che il povero vecchio
aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due
figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de' figliuoli n'usciron
salvi; il resto morì. «Questi casi,» dice il Tadino, «occorsi nella
Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare,
et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò
stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia.»
Ma l'uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà
convinta, sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta
ferma e invitta, fino all'ultimo, contro la ragione e l'evidenza: e
questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato
così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra
loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e
fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e
non volendo attribuirlo a que' mezzi (che sarebbe stato confessare a un
tempo un grand'inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a
trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa
in campo. Per disgrazia, ce n'era una in pronto nelle idee e nelle
tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d'Europa:
arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la
peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malíe. Già cose tali, o
somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze,
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