I promessi sposi. - 50
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Sostanza composta, neppure; perchè a ogni modo dovrebbe esser sensibile
all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha
toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio.
Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro;
chè questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante
prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a
essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non
essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di
questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro. Che
se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente
prodotto, danno in Cariddi: perchè, se è prodotto, dunque non si
comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princípi,
cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d'esantemi, d'antraci...?»
«Tutte corbellerie,» scappò fuori una volta un tale.
«No, no,» riprese don Ferrante: «non dico questo: la scienza è scienza;
solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi,
bubboni violacei, foruncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili,
che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che
fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose,
anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.»
Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva
che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi
attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande
l'autorità d'un dotto di professione, allorchè vuol dimostrare agli
altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere,
e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva
già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma
nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non
si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi,
trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa
era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a
pezzi e bocconi.
«La c'è pur troppo la vera cagione,» diceva; «e son costretti a
riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in
aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione
di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze
si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi
negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian
lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un
guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori
medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna,
e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate
là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de'
corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E
tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove?
brucerete Saturno?»
_His fretus_, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna
precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire,
come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i
muriccioli.
CAPITOLO XXXVIII.
Una sera, Agnese sente fermarsi un legno all'uscio.--È lei, di
certo!--Era proprio lei, con la buona vedova. L'accoglienze vicendevoli
se le immagini il lettore.
La mattina seguente, di buon'ora, capita Renzo che non sa nulla, e
vien solamente per isfogarsi un po' con Agnese su quel gran tardare
di Lucia. Gli atti che fece, e le cose che disse, al trovarsela
davanti, si rimettono anche quelli all'immaginazion del lettore. Le
dimostrazioni di Lucia in vece furon tali, che non ci vuol molto a
descriverle. «Vi saluto: come state?» disse, a occhi bassi, e senza
scomporsi. E non crediate che Renzo trovasse quel fare troppo asciutto,
e se l'avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso; e,
come, tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti, così lui
intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava
nel cuore di Lucia. Del resto, era facile accorgersi che aveva due
maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un'altra per tutta la gente
che potesse conoscere.
«Sto bene quando vi vedo,» rispose il giovine, con una frase vecchia,
ma che avrebbe inventata lui, in quel momento.
«Il nostro povero padre Cristoforo...!» disse Lucia: «pregate per
l'anima sua: benchè si può esser quasi sicuri che a quest'ora prega lui
per noi lassù.»
«Me l'aspettavo, pur troppo,» disse Renzo. E non fu questa la sola
trista corda che si toccasse in quel colloquio. Ma che? di qualunque
cosa si parlasse, il colloquio gli riusciva sempre delizioso. Come
que' cavalli bisbetici che s'impuntano, e si piantan lì, e alzano una
zampa e poi un'altra, e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille
cerimonie, prima di fare un passo, e poi tutto a un tratto prendon
l'andare, e via, come se il vento li portasse, così era divenuto il
tempo per lui: prima i minuti gli parevan ore; poi l'ore gli parevan
minuti.
La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma ci faceva dentro
molto bene; e certamente, Renzo, quando la vide in quel lettuccio, non
se la sarebbe potuta immaginare d'un umore così socievole e gioviale.
Ma il lazzeretto e la campagna, la morte e le nozze, non son tutt'uno.
Con Agnese essa aveva già fatto amicizia; con Lucia poi era un
piacere a vederla, tenera insieme e scherzevole, e come la stuzzicava
garbatamente, e senza spinger troppo, appena quanto ci voleva per
obbligarla a dimostrar tutta l'allegria che aveva in cuore.
Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio, a prendere i
concerti per lo sposalizio. Ci andò, e, con un certo fare tra burlevole
e rispettoso, «signor curato,» gli disse: «le è poi passato quel dolor
di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Ora siamo a tempo;
la sposa c'è: e son qui per sentire quando le sia di comodo: ma questa
volta, sarei a pregarla di far presto.» Don Abbondio non disse di no;
ma cominciò a tentennare, a trovar cert'altre scuse, a far cert'altre
insinuazioni: e perchè mettersi in piazza, e far gridare il suo nome,
con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi ugualmente
altrove; e questo e quest'altro.
«Ho inteso,» disse Renzo: «lei ha ancora un po' di quel mal di capo.
Ma senta, senta.» E cominciò a descrivere in che stato aveva visto
quel povero don Rodrigo; e che già a quell'ora doveva sicuramente
essere andato. «Speriamo,» concluse, «che il Signore gli avrà usato
misericordia.»
«Questo non ci ha che fare,» disse don Abbondio: «v'ho forse detto di
no? Io non dico di no; parlo... parlo per delle buone ragioni. Del
resto, vedete, fin che c'è fiato... Guardatemi me: sono una conca
fessa; sono stato anch'io, più di là che di qua: e son qui; e... se non
mi vengono addosso de' guai... basta... posso sperare di starci ancora
un pochino. Figuratevi poi certi temperamenti. Ma, come dico, questo
non ci ha che far nulla.»
Dopo qualche altra botta e risposta, nè più nè meno concludenti, Renzo
strisciò una bella riverenza, se ne tornò alla sua compagnia, fece la
sua relazione, e finì con dire: «son venuto via, che n'ero pieno, e per
non risicar di perdere la pazienza, e di levargli il rispetto. In certi
momenti, pareva proprio quello dell'altra volta; proprio quella mutria,
quelle ragioni: son sicuro che, se la durava ancora un poco, mi tornava
in campo con qualche parola in latino. Vedo che vuol essere un'altra
lungagnata: è meglio fare addirittura come dice lui, andare a maritarsi
dove andiamo a stare.»
«Sapete cosa faremo?» disse la vedova: «voglio che andiamo noi altre
donne a fare un'altra prova, e vedere se ci riesce meglio. Così avrò
anch'io il gusto di conoscerlo quest'uomo, se è proprio come dite. Dopo
desinare voglio che andiamo; per non tornare a dargli addosso subito.
Ora, signore sposo, menateci un po' a spasso noi altre due, intanto che
Agnese è in faccende: chè a Lucia farò io da mamma: e ho proprio voglia
di vedere un po' meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito
tanto parlare; e il poco che n'ho già visto, mi pare una gran bella
cosa.»
Renzo le condusse prima di tutto alla casa del suo ospite dove fu
un'altra festa: e gli fecero promettere che, non solo quel giorno, ma
tutti i giorni, se potesse, verrebbe a desinare con loro.
Passeggiato, desinato, Renzo se n'andò, senza dir dove. Le donne
rimasero un pezzette a discorrere, a concertarsi sulla maniera di
prender don Abbondio; e finalmente andarono all'assalto.
--Son qui loro,--disse questo tra sè; ma fece faccia tosta: gran
congratulazioni a Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera.
Le fece mettere a sedere, e poi entrò subito a parlar della peste:
volle sentir da Lucia come l'aveva passata in que' guai: il lazzeretto
diede opportunità di far parlare anche quella che l'era stata compagna;
poi, com'era giusto, don Abbondio parlò anche della sua burrasca;
poi de' gran mirallegri anche a Agnese, che l'aveva passata liscia.
La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due anziane
stavano alle velette, se mai venisse l'occasione d'entrar nel discorso
essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio. Ma
cosa volete? Don Abbondio era sordo da quell'orecchio. Non che dicesse
di no; ma eccolo di nuovo a quel suo serpeggiare, volteggiare e saltar
di palo in frasca. «Bisognerebbe,» diceva, «poter far levare quella
catturaccia. Lei, signora, che è di Milano, conoscerà più o meno il
filo delle cose, avrà delle buone protezioni, qualche cavaliere di
peso: chè con questi mezzi si sana ogni piaga. Se poi si volesse andar
per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacchè codesti
giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di spatriarsi
(e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene), mi pare
che si potrebbe far tutto là, dove non c'è cattura che tenga. Non
vedo proprio l'ora di saperlo concluso questo parentado, ma lo vorrei
concluso bene, tranquillamente. Dico la verità: qui, con quella cattura
viva, spiattellar dall'altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo
farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un
cattivo servizio. Veda lei; vedete voi altre.»
Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribatter quelle ragioni; don
Abbondio a rimetterle in campo, sott'altra forma: s'era sempre da capo;
quando entra Renzo, con un passo risoluto, e con una notizia in viso; e
dice: «è arrivato il signor marchese ***.»
«Cosa vuol dir questo? arrivato dove?» domanda don Abbondio, alzandosi.
«E arrivato nel suo palazzo, ch'era quello di don Rodrigo; perchè
questo signor marchese è l'erede per fidecommisso, come dicono; sicchè
non c'è più dubbio. Per me, ne sarei contento, se potessi sapere che
quel pover'uomo fosse morto bene. A buon conto, finora ho detto per lui
de' paternostri, adesso gli dirò de' _De profundis_. E questo signor
marchese è un bravissim'uomo.»
«Sicuro,» disse don Abbondio: «l'ho sentito nominar più d'una volta per
un bravo signore davvero, per un uomo della stampa antica. Ma che sia
proprio vero....?»
«Al sagrestano gli crede?»
«Perchè?»
«Perchè lui l'ha veduto co' suoi occhi. Io sono stato solamente lì
ne' contorni, e, per dir la verità, ci sono andato appunto perchè ho
pensato: qualcosa là si dovrebbe sapere. E più d'uno m'ha detto lo
stesso. Ho poi incontrato Ambrogio che veniva proprio di lassù, e che
l'ha veduto, come dico, far da padrone. Lo vuol sentire, Ambrogio?
L'ho fatto aspettar qui fuori apposta.»
«Sentiamo,» disse don Abbondio. Renzo andò a chiamare il sagrestano.
Questo confermò la cosa in tutto e per tutto, ci aggiunse altre
circostanze, sciolse tutti i dubbi; e poi se n'andò.
«Ah! è morto dunque! è proprio andato!» esclamò don Abbondio. «Vedete,
figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che
l'è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! chè non ci
si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa peste; ma è
anche stata _una scopa_; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli
miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava
dire che chi era destinato a far loro l'esequie, era ancora in
seminario, a fare i latinucci. E in un batter d'occhio, sono spariti, a
cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri
dietro, con quell'albagia, con quell'aria, con quel palo in corpo, con
quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua
degnazione. Intanto, lui non c'è più, e noi ci siamo. Non manderà più
di quell'imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a
tutti, vedete: chè adesso lo possiamo dire.»
«Io gli ho perdonato di cuore,» disse Renzo.
«E fai il tuo dovere,» rispose don Abbondio: «ma si può anche
ringraziare il cielo, che ce n'abbia liberati. Ora, tornando a noi,
vi ripeto: fate voi altri quel che credete. Se volete che vi mariti
io, son qui; se vi torna più comodo in altra maniera, fate voi altri.
In quanto alla cattura, vedo anch'io che, non essendoci ora più
nessuno che vi tenga di mira, e voglia farvi del male, non è cosa da
prendersene gran pensiero: tanto più, che c'è stato di mezzo quel
decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante. E poi la
peste! la peste! ha dato di bianco a di gran cose la peste! Sicchè, se
volete.... oggi è giovedì.... domenica vi dico in chiesa; perchè quel
che s'è fatto l'altra volta, non conta più niente, dopo tanto tempo; e
poi ho la consolazione di maritarvi io.»
«Lei sa bene ch'eravamo venuti appunto per questo,» disse Renzo.
«Benissimo; e io vi servirò: e voglio darne parte subito a sua
eminenza.»
«Chi è sua eminenza?» domandò Agnese.
«Sua eminenza,» rispose don Abbondio, «è il nostro cardinale
arcivescovo, che Dio conservi.»
«Oh! in quanto a questo mi scusi,» replicò Agnese: «chè, sebbene io
sia una povera ignorante, le posso accertare che non gli si dice così;
perchè, quando siamo state la seconda volta per parlargli, come parlo
a lei, uno di que' signori preti mi tirò da parte, e m'insegnò come si
doveva trattare con quel signore, e che gli si doveva dire vossignoria
illustrissima, e monsignore.
«E ora, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato
dell'eminenza: avete inteso? Perchè il Papa, che Dio lo conservi anche
lui, ha prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia
questo titolo. E sapete perchè sarà venuto a questa risoluzione? Perchè
l'illustrissimo, ch'era riservato a loro e a certi principi, ora,
vedete anche voi altri, cos'è diventato, a quanti si dà: e come se lo
succiano volentieri! E cosa doveva fare, il papa? Levarlo a tutti?
Lamenti, ricorsi, dispiaceri, guai; e per di più, continuar come prima.
Dunque ha trovato un bonissimo ripiego. A poco a poco poi, si comincerà
a dar dell'eminenza ai vescovi; poi lo vorranno gli abati, poi i
proposti: perchè gli uomini son fatti così; sempre voglion salire,
sempre salire; poi i canonici....»
«Poi i curati,» disse la vedova.
«No, no,» riprese don Abbondio: «i curati a tirar la carretta: non
abbiate paura che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla
fin del mondo. Piuttosto, non mi maraviglierei punto che i cavalieri, i
quali sono avvezzi a sentirsi dar dell'illustrissimo, a esser trattati
come i cardinali, un giorno volessero dell'eminenza anche loro. E se
la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora, il papa
che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali. Orsù,
ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa; e intanto,
sapete cos'ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la
dispensa per l'altre due denunzie. Hanno a avere un bel da fare laggiù
in curia, a dar dispense, se la va per tutto come qui. Per domenica
ne ho già.... uno.... due.... tre; senza contarvi voi altri: e ne
può capitare ancora. E poi vedrete, andando avanti, che affare vuol
essere: non ne deve rimanere uno scompagnato. Ha proprio fatto uno
sproposito Perpetua a morire ora; chè questo era il momento che trovava
l'avventore anche lei: E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo
stesso.»
«Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura, domenica passata,
cinquanta denunzie.»
«Se lo dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non hanno
principiato a ronzarle intorno de' mosconi?»
«No, no; io non ci penso, nè ci voglio pensare.»
«Sì, sì, che vorrà esser lei sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese....»
«Uh! ha voglia di scherzare, lei,» disse questa.
«Sicuro che ho voglia di scherzare: e mi pare che sia ora finalmente.
Ne abbiam passate delle brutte, n'è vero, i miei giovani? delle brutte
n'abbiam passate: questi quattro giorni che dobbiamo stare in questo
mondo, si può sperare che vogliano essere un po' meglio. Ma! fortunati
voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete ancora un pezzo da
parlare de' guai passati: io in vece, sono alle ventitrè e tre quarti,
e.... i birboni posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni
non c'è rimedio: e, come dice, _senectus ipsa est morbus._»
«Ora,» disse Renzo: «parli pur latino quanto vuole; che non me
n'importa nulla.»
«Tu l'hai ancora col latino, tu: bene bene, t'accomoderò io: quando mi
verrai davanti, con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe
paroline in latino, ti dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace. Ti
piacerà?»
«Eh! so io quel che dice,» riprese Renzo; «non è quel latino lì che
mi fa paura: quello è un latino sincero, sacrosanto, come quel della
messa: anche loro, lì, bisogna che leggano quel che c'è sul libro.
Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a
tradimento, nel buono d'un discorso. Per esempio, ora che siam qui,
che tutto è finito; quel latino che andava cavando fuori, lì proprio,
in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e che ci voleva
dell'altre cose, e che so io? me lo volti un po' in volgare ora.»
«Sta zitto, buffone, sta zitto: non rimestar queste cose; chè, se
dovessimo ora fare i conti, non so chi avanzerebbe. Io ho perdonato
tutto: non ne parliam più: ma me n'avete fatti de' tiri. Di te non
mi fa specie, che sei un malandrinaccio; ma dico quest'acqua cheta,
questa santerella, questa madonnina infilzata, che si sarebbe creduto
far peccato a guardarsene. Ma già, lo so io chi l'aveva ammaestrata,
lo so io, lo so io.» Così dicendo, accennava Agnese col dito, che
prima aveva tenuto rivolto a Lucia: e non si potrebbe spiegare con che
bonarietà, con che piacevolezza facesse que' rimproveri. Quella notizia
gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran
tempo; e saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferir
tutto il rimanente di que' discorsi, che lui tirò in lungo, ritenendo
più d'una volta la compagnia che voleva andarsene, e fermandola poi
ancora un pochino sull'uscio di strada, sempre a parlar di bubbole.
Il giorno seguente, gli capitò una visita, quanto meno aspettata tanto
più gradita: il signor marchese del quale s'era parlato: un uomo tra la
virilità e la vecchiezza, il cui aspetto era come un attestato di ciò
che la fama diceva di lui: aperto, cortese, placido, umile, dignitoso,
e qualcosa che indicava una mestizia rassegnata.
«Vengo,» disse, «a portarle i saluti del cardinale arcivescovo.»
«Oh che degnazione di tutt'e due!»
«Quando fui a prender congedo da quest'uomo incomparabile, che m'onora
della sua amicizia, mi parlò di due giovani di codesta cura, ch'eran
promessi sposi, e che hanno avuto de' guai, per causa di quel povero
don Rodrigo. Monsignore desidera d'averne notizia. Son vivi? E le loro
cose sono accomodate?»
«Accomodato ogni cosa. Anzi, io m'era proposto di scriverne a sua
eminenza; ma ora che ho l'onore....»
«Si trovan qui?»
«Qui; e, più presto che si potrà, saranno marito e moglie.»
«E io la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche
d'insegnarmi la maniera più conveniente. In questa calamità, ho perduto
i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho avute tre eredità
considerabili. Del superfluo, n'avevo anche prima: sicchè lei vede che
il darmi una occasione d'impiegarne, e tanto più una come questa, è
farmi veramente un servizio.»
«Il cielo la benedica! Perchè non sono tutti come lei i...? Basta;
la ringrazio anch'io di cuore per questi miei figliuoli. E giacchè
vossignoria illustrissima mi dà tanto coraggio, sì signore, che ho un
espediente da suggerirle, il quale forse non le dispiacerà. Sappia
dunque che questa buona gente son risoluti d'andare a metter su casa
altrove, e di vender quel poco che hanno al sole qui: una vignetta
il giovine, di nove o dieci pertiche, salvo il vero, ma trasandata
affatto: bisogna far conto del terreno, nient'altro; di più una
casuccia lui, e un'altra la sposa: due topaie, veda. Un signore come
vossignoria non può sapere come la vada per i poveri, quando voglion
disfarsi del loro. Finisce sempre a andare in bocca di qualche furbo,
che forse sarà già un pezzo che fa all'amore a quelle quattro braccia
di terra, e quando sa che l'altro ha bisogno di vendere, si ritira, fa
lo svogliato; bisogna corrergli dietro, e dargliele per un pezzo di
pane: specialmente poi in circostanze come queste. Il signor marchese
ha già veduto dove vada a parare il mio discorso. La carità più fiorita
che vossignoria illustrissima possa fare a questa gente, è di cavarli
da quest'impiccio, comprando quel poco fatto loro. Io, per dir la
verità, do un parere interessato, perchè verrei ad acquistare nella mia
cura un compadrone come il signor marchese; ma vossignoria deciderà
secondo che le parrà meglio: io ho parlato per ubbidienza.»
Il marchese lodò molto il suggerimento; ringraziò don Abbondio, e lo
pregò di voler esser arbitro del prezzo, e di fissarlo alto bene; e lo
fece poi restar di sasso, col proporgli che s'andasse subito insieme a
casa della sposa, dove sarebbe probabilmente anche lo sposo.
Per la strada, don Abbondio, tutto gongolante, come vi potete
immaginare, ne pensò e ne disse un'altra. «Giacchè vossignoria
illustrissima è tanto inclinato a far del bene a questa gente, ci
sarebbe un altro servizio da render loro. Il giovine ha addosso una
cattura, una specie di bando, per qualche scappatuccia che ha fatta
in Milano, due anni sono, quel giorno del gran fracasso, dove s'è
trovato impicciato, senza malizia, da ignorante, come un topo nella
trappola: nulla di serio, veda: ragazzate, scapataggini: di far del
male veramente, non è capace: e io posso dirlo, che l'ho battezzato,
e l'ho veduto venir su: e poi, se vossignoria vuoi prendersi il
divertimento di sentir questa povera gente ragionar su alla carlona,
potrà fargli raccontar la storia a lui, e sentirà. Ora, trattandosi di
cose vecchie, nessuno gli dà fastidio; e, come le ho detto, lui pensa
d'andarsene fuor di stato; ma, col tempo, o tornando qui, o altro, non
si sa mai, lei m'insegna che è sempre meglio non esser su que' libri.
Il signor marchese, in Milano, conta, come è giusto, e per quel gran
cavaliere, e per quel grand'uomo che è.... No, no, mi lasci dire; chè
la verità vuole avere il suo luogo. Una raccomandazione, una parolina
d'un par suo, è più del bisogno per ottenere una buona assolutoria.»
«Non c'è impegni forti contro codesto giovine?»
«No, no; non crederei. Gli hanno fatto fuoco addosso nel primo momento;
ma ora credo che non ci sia più altro che la semplice formalità.»
«Essendo così, la cosa sarà facile; e la prendo volentieri sopra di me.»
«E poi non vorrà che si dica che è un grand'uomo. Lo dico, e lo voglio
dire; a suo dispetto, lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già
non servirebbe a nulla, perchè parlan tutti; e _vox populi, vox Dei._»
Trovarono appunto le tre donne e Renzo. Come questi rimanessero, lo
lascio considerare a voi: io credo che anche quelle nude e ruvide
pareti, e l'impannate, e i panchetti, e le stoviglie si maravigliassero
di ricever tra loro una visita così straordinaria. Avviò lui la
conversazione, parlando del cardinale e dell'altre cose, con aperta
cordialità, e insieme con delicati riguardi. Passò poi a far la
proposta per cui era venuto. Don Abbondio, pregato da lui di fissare
il prezzo, si fece avanti; e, dopo un po' di cerimonie e di scuse, e
che non era sua farina, e che non potrebbe altro che andare a tastoni,
e che parlava per ubbidienza, e che si rimetteva, proferì, a parer
suo, uno sproposito. Il compratore disse che, per la parte sua, era
contentissimo, e, come se avesse franteso, ripetè il doppio; non volle
sentir rettificazioni, e troncò e concluse ogni discorso invitando la
compagnia a desinare per il giorno dopo le nozze, al suo palazzo, dove
si farebbe l'istrumento in regola.
--Ah!--diceva poi tra sè don Abbondio, tornato a casa:--se la peste
facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe
proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni
generazione; e si potrebbe stare a patti d'averla; ma guarire, ve'.--
[Illustrazione: ...se non che Renzo era un po' incomodato del peso de'
quattrini che portava via. (pag. 569)]
Venne la dispensa, venne l'assolutoria, venne quel benedetto giorno:
i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella
chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi. Un
altro trionfo, e ben più singolare, fu l'andare a quel palazzotto; e
vi lascio pensare che cose dovessero passar loro per la mente, in far
quella salita, all'entrare in quella porta; e che discorsi dovessero
fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in mezzo
all'allegria, ora l'uno, ora l'altro motivò più d'una volta, che, per
compir la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo. «Ma per lui,»
dicevan poi, «sta meglio di noi sicuramente.»
Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello,
mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di
ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a
far compagnia agl'invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà,
spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare
addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato per un brav'uomo, ma non per
un originale, come si direbbe ora; v'ho detto ch'era umile, non già che
fosse un portento d'umiltà. N'aveva quanta ne bisognava per mettersi al
di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
Dopo i due pranzi, fu steso il contratto per mano d'un dottore, il
quale non fu l'Azzecca-garbugli. Questo, voglio dire la sua spoglia,
era ed è tuttavia a Canterelli. E per chi non è di quelle parti,
capisco anch'io che qui ci vuole una spiegazione.
Sopra Lecco forse un mezzo miglio, e quasi sul fianco dell'altro paese
chiamato Castello, c'è un luogo detto Canterelli, dove s'incrocian
due strade; e da una parte del crocicchio, si vede un rialto, come un
poggetto artificiale, con una croce in cima; il quale non è altro che
un gran mucchio di morti in quel contagio. La tradizione, per dir la
verità, dice semplicemente i morti del contagio; ma dev'esser quello
senz'altro, che fu l'ultimo, e il più micidiale di cui rimanga memoria.
E sapete che le tradizioni, chi non le aiuta, da sè dicon sempre troppo
poco.
Nel ritorno non ci fu altro inconveniente, se non che Renzo era un po'
incomodato dal peso de' quattrini che portava via. Ma l'uomo, come
sapete, aveva fatto ben altre vite. Non parlo del lavoro della mente,
che non era piccolo, a pensare alla miglior maniera di farli fruttare.
A vedere i progetti che passavan per quella mente, le riflessioni,
l'immaginazioni; a sentire i pro e i contro, per l'agricoltura e per
l'industria, era come se ci si fossero incontrate due accademie del
secolo passato. E per lui l'impiccio era ben più reale; perchè, essendo
un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c'è di scegliere?
l'uno e l'altro, alla buon'ora; chè i mezzi, in sostanza, sono i
all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha
toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio.
Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro;
chè questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante
prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a
essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non
essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di
questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro. Che
se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente
prodotto, danno in Cariddi: perchè, se è prodotto, dunque non si
comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princípi,
cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d'esantemi, d'antraci...?»
«Tutte corbellerie,» scappò fuori una volta un tale.
«No, no,» riprese don Ferrante: «non dico questo: la scienza è scienza;
solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi,
bubboni violacei, foruncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili,
che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che
fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose,
anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.»
Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva
che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi
attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande
l'autorità d'un dotto di professione, allorchè vuol dimostrare agli
altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere,
e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva
già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma
nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non
si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi,
trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa
era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a
pezzi e bocconi.
«La c'è pur troppo la vera cagione,» diceva; «e son costretti a
riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in
aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione
di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze
si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi
negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian
lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un
guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori
medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna,
e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate
là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de'
corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E
tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove?
brucerete Saturno?»
_His fretus_, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna
precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire,
come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i
muriccioli.
CAPITOLO XXXVIII.
Una sera, Agnese sente fermarsi un legno all'uscio.--È lei, di
certo!--Era proprio lei, con la buona vedova. L'accoglienze vicendevoli
se le immagini il lettore.
La mattina seguente, di buon'ora, capita Renzo che non sa nulla, e
vien solamente per isfogarsi un po' con Agnese su quel gran tardare
di Lucia. Gli atti che fece, e le cose che disse, al trovarsela
davanti, si rimettono anche quelli all'immaginazion del lettore. Le
dimostrazioni di Lucia in vece furon tali, che non ci vuol molto a
descriverle. «Vi saluto: come state?» disse, a occhi bassi, e senza
scomporsi. E non crediate che Renzo trovasse quel fare troppo asciutto,
e se l'avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso; e,
come, tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti, così lui
intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava
nel cuore di Lucia. Del resto, era facile accorgersi che aveva due
maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un'altra per tutta la gente
che potesse conoscere.
«Sto bene quando vi vedo,» rispose il giovine, con una frase vecchia,
ma che avrebbe inventata lui, in quel momento.
«Il nostro povero padre Cristoforo...!» disse Lucia: «pregate per
l'anima sua: benchè si può esser quasi sicuri che a quest'ora prega lui
per noi lassù.»
«Me l'aspettavo, pur troppo,» disse Renzo. E non fu questa la sola
trista corda che si toccasse in quel colloquio. Ma che? di qualunque
cosa si parlasse, il colloquio gli riusciva sempre delizioso. Come
que' cavalli bisbetici che s'impuntano, e si piantan lì, e alzano una
zampa e poi un'altra, e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille
cerimonie, prima di fare un passo, e poi tutto a un tratto prendon
l'andare, e via, come se il vento li portasse, così era divenuto il
tempo per lui: prima i minuti gli parevan ore; poi l'ore gli parevan
minuti.
La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma ci faceva dentro
molto bene; e certamente, Renzo, quando la vide in quel lettuccio, non
se la sarebbe potuta immaginare d'un umore così socievole e gioviale.
Ma il lazzeretto e la campagna, la morte e le nozze, non son tutt'uno.
Con Agnese essa aveva già fatto amicizia; con Lucia poi era un
piacere a vederla, tenera insieme e scherzevole, e come la stuzzicava
garbatamente, e senza spinger troppo, appena quanto ci voleva per
obbligarla a dimostrar tutta l'allegria che aveva in cuore.
Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio, a prendere i
concerti per lo sposalizio. Ci andò, e, con un certo fare tra burlevole
e rispettoso, «signor curato,» gli disse: «le è poi passato quel dolor
di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Ora siamo a tempo;
la sposa c'è: e son qui per sentire quando le sia di comodo: ma questa
volta, sarei a pregarla di far presto.» Don Abbondio non disse di no;
ma cominciò a tentennare, a trovar cert'altre scuse, a far cert'altre
insinuazioni: e perchè mettersi in piazza, e far gridare il suo nome,
con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi ugualmente
altrove; e questo e quest'altro.
«Ho inteso,» disse Renzo: «lei ha ancora un po' di quel mal di capo.
Ma senta, senta.» E cominciò a descrivere in che stato aveva visto
quel povero don Rodrigo; e che già a quell'ora doveva sicuramente
essere andato. «Speriamo,» concluse, «che il Signore gli avrà usato
misericordia.»
«Questo non ci ha che fare,» disse don Abbondio: «v'ho forse detto di
no? Io non dico di no; parlo... parlo per delle buone ragioni. Del
resto, vedete, fin che c'è fiato... Guardatemi me: sono una conca
fessa; sono stato anch'io, più di là che di qua: e son qui; e... se non
mi vengono addosso de' guai... basta... posso sperare di starci ancora
un pochino. Figuratevi poi certi temperamenti. Ma, come dico, questo
non ci ha che far nulla.»
Dopo qualche altra botta e risposta, nè più nè meno concludenti, Renzo
strisciò una bella riverenza, se ne tornò alla sua compagnia, fece la
sua relazione, e finì con dire: «son venuto via, che n'ero pieno, e per
non risicar di perdere la pazienza, e di levargli il rispetto. In certi
momenti, pareva proprio quello dell'altra volta; proprio quella mutria,
quelle ragioni: son sicuro che, se la durava ancora un poco, mi tornava
in campo con qualche parola in latino. Vedo che vuol essere un'altra
lungagnata: è meglio fare addirittura come dice lui, andare a maritarsi
dove andiamo a stare.»
«Sapete cosa faremo?» disse la vedova: «voglio che andiamo noi altre
donne a fare un'altra prova, e vedere se ci riesce meglio. Così avrò
anch'io il gusto di conoscerlo quest'uomo, se è proprio come dite. Dopo
desinare voglio che andiamo; per non tornare a dargli addosso subito.
Ora, signore sposo, menateci un po' a spasso noi altre due, intanto che
Agnese è in faccende: chè a Lucia farò io da mamma: e ho proprio voglia
di vedere un po' meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito
tanto parlare; e il poco che n'ho già visto, mi pare una gran bella
cosa.»
Renzo le condusse prima di tutto alla casa del suo ospite dove fu
un'altra festa: e gli fecero promettere che, non solo quel giorno, ma
tutti i giorni, se potesse, verrebbe a desinare con loro.
Passeggiato, desinato, Renzo se n'andò, senza dir dove. Le donne
rimasero un pezzette a discorrere, a concertarsi sulla maniera di
prender don Abbondio; e finalmente andarono all'assalto.
--Son qui loro,--disse questo tra sè; ma fece faccia tosta: gran
congratulazioni a Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera.
Le fece mettere a sedere, e poi entrò subito a parlar della peste:
volle sentir da Lucia come l'aveva passata in que' guai: il lazzeretto
diede opportunità di far parlare anche quella che l'era stata compagna;
poi, com'era giusto, don Abbondio parlò anche della sua burrasca;
poi de' gran mirallegri anche a Agnese, che l'aveva passata liscia.
La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due anziane
stavano alle velette, se mai venisse l'occasione d'entrar nel discorso
essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio. Ma
cosa volete? Don Abbondio era sordo da quell'orecchio. Non che dicesse
di no; ma eccolo di nuovo a quel suo serpeggiare, volteggiare e saltar
di palo in frasca. «Bisognerebbe,» diceva, «poter far levare quella
catturaccia. Lei, signora, che è di Milano, conoscerà più o meno il
filo delle cose, avrà delle buone protezioni, qualche cavaliere di
peso: chè con questi mezzi si sana ogni piaga. Se poi si volesse andar
per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacchè codesti
giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di spatriarsi
(e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene), mi pare
che si potrebbe far tutto là, dove non c'è cattura che tenga. Non
vedo proprio l'ora di saperlo concluso questo parentado, ma lo vorrei
concluso bene, tranquillamente. Dico la verità: qui, con quella cattura
viva, spiattellar dall'altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo
farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un
cattivo servizio. Veda lei; vedete voi altre.»
Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribatter quelle ragioni; don
Abbondio a rimetterle in campo, sott'altra forma: s'era sempre da capo;
quando entra Renzo, con un passo risoluto, e con una notizia in viso; e
dice: «è arrivato il signor marchese ***.»
«Cosa vuol dir questo? arrivato dove?» domanda don Abbondio, alzandosi.
«E arrivato nel suo palazzo, ch'era quello di don Rodrigo; perchè
questo signor marchese è l'erede per fidecommisso, come dicono; sicchè
non c'è più dubbio. Per me, ne sarei contento, se potessi sapere che
quel pover'uomo fosse morto bene. A buon conto, finora ho detto per lui
de' paternostri, adesso gli dirò de' _De profundis_. E questo signor
marchese è un bravissim'uomo.»
«Sicuro,» disse don Abbondio: «l'ho sentito nominar più d'una volta per
un bravo signore davvero, per un uomo della stampa antica. Ma che sia
proprio vero....?»
«Al sagrestano gli crede?»
«Perchè?»
«Perchè lui l'ha veduto co' suoi occhi. Io sono stato solamente lì
ne' contorni, e, per dir la verità, ci sono andato appunto perchè ho
pensato: qualcosa là si dovrebbe sapere. E più d'uno m'ha detto lo
stesso. Ho poi incontrato Ambrogio che veniva proprio di lassù, e che
l'ha veduto, come dico, far da padrone. Lo vuol sentire, Ambrogio?
L'ho fatto aspettar qui fuori apposta.»
«Sentiamo,» disse don Abbondio. Renzo andò a chiamare il sagrestano.
Questo confermò la cosa in tutto e per tutto, ci aggiunse altre
circostanze, sciolse tutti i dubbi; e poi se n'andò.
«Ah! è morto dunque! è proprio andato!» esclamò don Abbondio. «Vedete,
figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che
l'è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! chè non ci
si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa peste; ma è
anche stata _una scopa_; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli
miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava
dire che chi era destinato a far loro l'esequie, era ancora in
seminario, a fare i latinucci. E in un batter d'occhio, sono spariti, a
cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri
dietro, con quell'albagia, con quell'aria, con quel palo in corpo, con
quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua
degnazione. Intanto, lui non c'è più, e noi ci siamo. Non manderà più
di quell'imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a
tutti, vedete: chè adesso lo possiamo dire.»
«Io gli ho perdonato di cuore,» disse Renzo.
«E fai il tuo dovere,» rispose don Abbondio: «ma si può anche
ringraziare il cielo, che ce n'abbia liberati. Ora, tornando a noi,
vi ripeto: fate voi altri quel che credete. Se volete che vi mariti
io, son qui; se vi torna più comodo in altra maniera, fate voi altri.
In quanto alla cattura, vedo anch'io che, non essendoci ora più
nessuno che vi tenga di mira, e voglia farvi del male, non è cosa da
prendersene gran pensiero: tanto più, che c'è stato di mezzo quel
decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante. E poi la
peste! la peste! ha dato di bianco a di gran cose la peste! Sicchè, se
volete.... oggi è giovedì.... domenica vi dico in chiesa; perchè quel
che s'è fatto l'altra volta, non conta più niente, dopo tanto tempo; e
poi ho la consolazione di maritarvi io.»
«Lei sa bene ch'eravamo venuti appunto per questo,» disse Renzo.
«Benissimo; e io vi servirò: e voglio darne parte subito a sua
eminenza.»
«Chi è sua eminenza?» domandò Agnese.
«Sua eminenza,» rispose don Abbondio, «è il nostro cardinale
arcivescovo, che Dio conservi.»
«Oh! in quanto a questo mi scusi,» replicò Agnese: «chè, sebbene io
sia una povera ignorante, le posso accertare che non gli si dice così;
perchè, quando siamo state la seconda volta per parlargli, come parlo
a lei, uno di que' signori preti mi tirò da parte, e m'insegnò come si
doveva trattare con quel signore, e che gli si doveva dire vossignoria
illustrissima, e monsignore.
«E ora, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato
dell'eminenza: avete inteso? Perchè il Papa, che Dio lo conservi anche
lui, ha prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia
questo titolo. E sapete perchè sarà venuto a questa risoluzione? Perchè
l'illustrissimo, ch'era riservato a loro e a certi principi, ora,
vedete anche voi altri, cos'è diventato, a quanti si dà: e come se lo
succiano volentieri! E cosa doveva fare, il papa? Levarlo a tutti?
Lamenti, ricorsi, dispiaceri, guai; e per di più, continuar come prima.
Dunque ha trovato un bonissimo ripiego. A poco a poco poi, si comincerà
a dar dell'eminenza ai vescovi; poi lo vorranno gli abati, poi i
proposti: perchè gli uomini son fatti così; sempre voglion salire,
sempre salire; poi i canonici....»
«Poi i curati,» disse la vedova.
«No, no,» riprese don Abbondio: «i curati a tirar la carretta: non
abbiate paura che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla
fin del mondo. Piuttosto, non mi maraviglierei punto che i cavalieri, i
quali sono avvezzi a sentirsi dar dell'illustrissimo, a esser trattati
come i cardinali, un giorno volessero dell'eminenza anche loro. E se
la vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora, il papa
che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali. Orsù,
ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa; e intanto,
sapete cos'ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la
dispensa per l'altre due denunzie. Hanno a avere un bel da fare laggiù
in curia, a dar dispense, se la va per tutto come qui. Per domenica
ne ho già.... uno.... due.... tre; senza contarvi voi altri: e ne
può capitare ancora. E poi vedrete, andando avanti, che affare vuol
essere: non ne deve rimanere uno scompagnato. Ha proprio fatto uno
sproposito Perpetua a morire ora; chè questo era il momento che trovava
l'avventore anche lei: E a Milano, signora, mi figuro che sarà lo
stesso.»
«Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura, domenica passata,
cinquanta denunzie.»
«Se lo dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non hanno
principiato a ronzarle intorno de' mosconi?»
«No, no; io non ci penso, nè ci voglio pensare.»
«Sì, sì, che vorrà esser lei sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese....»
«Uh! ha voglia di scherzare, lei,» disse questa.
«Sicuro che ho voglia di scherzare: e mi pare che sia ora finalmente.
Ne abbiam passate delle brutte, n'è vero, i miei giovani? delle brutte
n'abbiam passate: questi quattro giorni che dobbiamo stare in questo
mondo, si può sperare che vogliano essere un po' meglio. Ma! fortunati
voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete ancora un pezzo da
parlare de' guai passati: io in vece, sono alle ventitrè e tre quarti,
e.... i birboni posson morire; della peste si può guarire; ma agli anni
non c'è rimedio: e, come dice, _senectus ipsa est morbus._»
«Ora,» disse Renzo: «parli pur latino quanto vuole; che non me
n'importa nulla.»
«Tu l'hai ancora col latino, tu: bene bene, t'accomoderò io: quando mi
verrai davanti, con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe
paroline in latino, ti dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace. Ti
piacerà?»
«Eh! so io quel che dice,» riprese Renzo; «non è quel latino lì che
mi fa paura: quello è un latino sincero, sacrosanto, come quel della
messa: anche loro, lì, bisogna che leggano quel che c'è sul libro.
Parlo di quel latino birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a
tradimento, nel buono d'un discorso. Per esempio, ora che siam qui,
che tutto è finito; quel latino che andava cavando fuori, lì proprio,
in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e che ci voleva
dell'altre cose, e che so io? me lo volti un po' in volgare ora.»
«Sta zitto, buffone, sta zitto: non rimestar queste cose; chè, se
dovessimo ora fare i conti, non so chi avanzerebbe. Io ho perdonato
tutto: non ne parliam più: ma me n'avete fatti de' tiri. Di te non
mi fa specie, che sei un malandrinaccio; ma dico quest'acqua cheta,
questa santerella, questa madonnina infilzata, che si sarebbe creduto
far peccato a guardarsene. Ma già, lo so io chi l'aveva ammaestrata,
lo so io, lo so io.» Così dicendo, accennava Agnese col dito, che
prima aveva tenuto rivolto a Lucia: e non si potrebbe spiegare con che
bonarietà, con che piacevolezza facesse que' rimproveri. Quella notizia
gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran
tempo; e saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferir
tutto il rimanente di que' discorsi, che lui tirò in lungo, ritenendo
più d'una volta la compagnia che voleva andarsene, e fermandola poi
ancora un pochino sull'uscio di strada, sempre a parlar di bubbole.
Il giorno seguente, gli capitò una visita, quanto meno aspettata tanto
più gradita: il signor marchese del quale s'era parlato: un uomo tra la
virilità e la vecchiezza, il cui aspetto era come un attestato di ciò
che la fama diceva di lui: aperto, cortese, placido, umile, dignitoso,
e qualcosa che indicava una mestizia rassegnata.
«Vengo,» disse, «a portarle i saluti del cardinale arcivescovo.»
«Oh che degnazione di tutt'e due!»
«Quando fui a prender congedo da quest'uomo incomparabile, che m'onora
della sua amicizia, mi parlò di due giovani di codesta cura, ch'eran
promessi sposi, e che hanno avuto de' guai, per causa di quel povero
don Rodrigo. Monsignore desidera d'averne notizia. Son vivi? E le loro
cose sono accomodate?»
«Accomodato ogni cosa. Anzi, io m'era proposto di scriverne a sua
eminenza; ma ora che ho l'onore....»
«Si trovan qui?»
«Qui; e, più presto che si potrà, saranno marito e moglie.»
«E io la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche
d'insegnarmi la maniera più conveniente. In questa calamità, ho perduto
i due soli figli che avevo, e la madre loro, e ho avute tre eredità
considerabili. Del superfluo, n'avevo anche prima: sicchè lei vede che
il darmi una occasione d'impiegarne, e tanto più una come questa, è
farmi veramente un servizio.»
«Il cielo la benedica! Perchè non sono tutti come lei i...? Basta;
la ringrazio anch'io di cuore per questi miei figliuoli. E giacchè
vossignoria illustrissima mi dà tanto coraggio, sì signore, che ho un
espediente da suggerirle, il quale forse non le dispiacerà. Sappia
dunque che questa buona gente son risoluti d'andare a metter su casa
altrove, e di vender quel poco che hanno al sole qui: una vignetta
il giovine, di nove o dieci pertiche, salvo il vero, ma trasandata
affatto: bisogna far conto del terreno, nient'altro; di più una
casuccia lui, e un'altra la sposa: due topaie, veda. Un signore come
vossignoria non può sapere come la vada per i poveri, quando voglion
disfarsi del loro. Finisce sempre a andare in bocca di qualche furbo,
che forse sarà già un pezzo che fa all'amore a quelle quattro braccia
di terra, e quando sa che l'altro ha bisogno di vendere, si ritira, fa
lo svogliato; bisogna corrergli dietro, e dargliele per un pezzo di
pane: specialmente poi in circostanze come queste. Il signor marchese
ha già veduto dove vada a parare il mio discorso. La carità più fiorita
che vossignoria illustrissima possa fare a questa gente, è di cavarli
da quest'impiccio, comprando quel poco fatto loro. Io, per dir la
verità, do un parere interessato, perchè verrei ad acquistare nella mia
cura un compadrone come il signor marchese; ma vossignoria deciderà
secondo che le parrà meglio: io ho parlato per ubbidienza.»
Il marchese lodò molto il suggerimento; ringraziò don Abbondio, e lo
pregò di voler esser arbitro del prezzo, e di fissarlo alto bene; e lo
fece poi restar di sasso, col proporgli che s'andasse subito insieme a
casa della sposa, dove sarebbe probabilmente anche lo sposo.
Per la strada, don Abbondio, tutto gongolante, come vi potete
immaginare, ne pensò e ne disse un'altra. «Giacchè vossignoria
illustrissima è tanto inclinato a far del bene a questa gente, ci
sarebbe un altro servizio da render loro. Il giovine ha addosso una
cattura, una specie di bando, per qualche scappatuccia che ha fatta
in Milano, due anni sono, quel giorno del gran fracasso, dove s'è
trovato impicciato, senza malizia, da ignorante, come un topo nella
trappola: nulla di serio, veda: ragazzate, scapataggini: di far del
male veramente, non è capace: e io posso dirlo, che l'ho battezzato,
e l'ho veduto venir su: e poi, se vossignoria vuoi prendersi il
divertimento di sentir questa povera gente ragionar su alla carlona,
potrà fargli raccontar la storia a lui, e sentirà. Ora, trattandosi di
cose vecchie, nessuno gli dà fastidio; e, come le ho detto, lui pensa
d'andarsene fuor di stato; ma, col tempo, o tornando qui, o altro, non
si sa mai, lei m'insegna che è sempre meglio non esser su que' libri.
Il signor marchese, in Milano, conta, come è giusto, e per quel gran
cavaliere, e per quel grand'uomo che è.... No, no, mi lasci dire; chè
la verità vuole avere il suo luogo. Una raccomandazione, una parolina
d'un par suo, è più del bisogno per ottenere una buona assolutoria.»
«Non c'è impegni forti contro codesto giovine?»
«No, no; non crederei. Gli hanno fatto fuoco addosso nel primo momento;
ma ora credo che non ci sia più altro che la semplice formalità.»
«Essendo così, la cosa sarà facile; e la prendo volentieri sopra di me.»
«E poi non vorrà che si dica che è un grand'uomo. Lo dico, e lo voglio
dire; a suo dispetto, lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già
non servirebbe a nulla, perchè parlan tutti; e _vox populi, vox Dei._»
Trovarono appunto le tre donne e Renzo. Come questi rimanessero, lo
lascio considerare a voi: io credo che anche quelle nude e ruvide
pareti, e l'impannate, e i panchetti, e le stoviglie si maravigliassero
di ricever tra loro una visita così straordinaria. Avviò lui la
conversazione, parlando del cardinale e dell'altre cose, con aperta
cordialità, e insieme con delicati riguardi. Passò poi a far la
proposta per cui era venuto. Don Abbondio, pregato da lui di fissare
il prezzo, si fece avanti; e, dopo un po' di cerimonie e di scuse, e
che non era sua farina, e che non potrebbe altro che andare a tastoni,
e che parlava per ubbidienza, e che si rimetteva, proferì, a parer
suo, uno sproposito. Il compratore disse che, per la parte sua, era
contentissimo, e, come se avesse franteso, ripetè il doppio; non volle
sentir rettificazioni, e troncò e concluse ogni discorso invitando la
compagnia a desinare per il giorno dopo le nozze, al suo palazzo, dove
si farebbe l'istrumento in regola.
--Ah!--diceva poi tra sè don Abbondio, tornato a casa:--se la peste
facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe
proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni
generazione; e si potrebbe stare a patti d'averla; ma guarire, ve'.--
[Illustrazione: ...se non che Renzo era un po' incomodato del peso de'
quattrini che portava via. (pag. 569)]
Venne la dispensa, venne l'assolutoria, venne quel benedetto giorno:
i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella
chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi. Un
altro trionfo, e ben più singolare, fu l'andare a quel palazzotto; e
vi lascio pensare che cose dovessero passar loro per la mente, in far
quella salita, all'entrare in quella porta; e che discorsi dovessero
fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in mezzo
all'allegria, ora l'uno, ora l'altro motivò più d'una volta, che, per
compir la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo. «Ma per lui,»
dicevan poi, «sta meglio di noi sicuramente.»
Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello,
mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di
ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a
far compagnia agl'invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà,
spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare
addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato per un brav'uomo, ma non per
un originale, come si direbbe ora; v'ho detto ch'era umile, non già che
fosse un portento d'umiltà. N'aveva quanta ne bisognava per mettersi al
di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
Dopo i due pranzi, fu steso il contratto per mano d'un dottore, il
quale non fu l'Azzecca-garbugli. Questo, voglio dire la sua spoglia,
era ed è tuttavia a Canterelli. E per chi non è di quelle parti,
capisco anch'io che qui ci vuole una spiegazione.
Sopra Lecco forse un mezzo miglio, e quasi sul fianco dell'altro paese
chiamato Castello, c'è un luogo detto Canterelli, dove s'incrocian
due strade; e da una parte del crocicchio, si vede un rialto, come un
poggetto artificiale, con una croce in cima; il quale non è altro che
un gran mucchio di morti in quel contagio. La tradizione, per dir la
verità, dice semplicemente i morti del contagio; ma dev'esser quello
senz'altro, che fu l'ultimo, e il più micidiale di cui rimanga memoria.
E sapete che le tradizioni, chi non le aiuta, da sè dicon sempre troppo
poco.
Nel ritorno non ci fu altro inconveniente, se non che Renzo era un po'
incomodato dal peso de' quattrini che portava via. Ma l'uomo, come
sapete, aveva fatto ben altre vite. Non parlo del lavoro della mente,
che non era piccolo, a pensare alla miglior maniera di farli fruttare.
A vedere i progetti che passavan per quella mente, le riflessioni,
l'immaginazioni; a sentire i pro e i contro, per l'agricoltura e per
l'industria, era come se ci si fossero incontrate due accademie del
secolo passato. E per lui l'impiccio era ben più reale; perchè, essendo
un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c'è di scegliere?
l'uno e l'altro, alla buon'ora; chè i mezzi, in sostanza, sono i
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