I promessi sposi. - 34

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anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile,
stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s'avviasse
al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i
cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l'entrature, e, quando vide
ch'era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perchè
aveva sonno.
Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre
andato in cerca, non se n'era mai trovati addosso tanti, in nessuna
congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel
avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano
anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno.
L'ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant'anni,
con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d'audacia e di
perseveranza, ora l'aveva lui medesimo messo in forse, con poche
parole; la dipendenza illimitata di que' suoi, quel loro esser disposti
a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto
tempo a riposare, l'aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli
aveva fatti diventare un monte d'imbrogli, s'era messa la confusione e
l'incertezza in casa; eppure aveva sonno.
Andò dunque in camera, s'accostò a quel letto in cui la notte avanti
aveva trovate tante spine; e vi s'inginocchiò accanto, con l'intenzione
di pregare. Trovò infatti in un cantuccio riposto e profondo della
mente, le preghiere ch'era stato ammaestrato a recitar da bambino;
cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte
insieme, venivano l'una dopo l'altra come sgomitolandosi. Provava in
questo un misto di sentimenti indefinibile; una certa dolcezza in quel
ritorno materiale all'abitudini dell'innocenza; un inasprimento di
dolore al pensiero dell'abisso che aveva messo tra quel tempo e questo;
un ardore d'arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova,
a uno stato il più vicino all'innocenza, a cui non poteva tornare; una
riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre
a quello stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo.
Rizzatosi poi, andò a letto, e s'addormentò immediatamente.
Così terminò quella giornata, tanto celebre ancora quando scriveva il
nostro anonimo; e ora, se non era lui, non se ne saprebbe nulla, almeno
de' particolari; giacchè il Ripamonti e il Rivola, citati di sopra, non
dicono se non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con
Federigo, mutò mirabilmente vita, e per sempre. E quanti son quelli che
hanno letto i libri di que' due? Meno ancora di quelli che leggeranno
il nostro. E chi sa se, nella valle stessa, chi avesse voglia di
cercarla, e l'abilità di trovarla, sarà rimasta qualche stracca e
confusa tradizione del fatto? Son nate tante cose da quel tempo in poi!


CAPITOLO XXV.

Il giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di
Lecco, non si parlava che di lei, dell'innominato, dell'arcivescovo
e d'un altro tale, che, quantunque gli piacesse molto d'andar per le
bocche degli uomini, n'avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri
di meno: vogliam dire il signor don Rodrigo.
Non già che prima d'allora non si parlasse de' fatti suoi; ma eran
discorsi rotti, segreti: bisognava che due si conoscessero bene bene
tra di loro, per aprirsi sur un tale argomento. E anche, non ci
mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci: perchè
gli uomini, generalmente parlando, quando l'indegnazione non si possa
sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono
affatto in sè quella che sentono, ma ne senton meno in effetto. Ma ora,
chi si sarebbe tenuto d'informarsi, e di ragionare d'un fatto così
strepitoso, in cui s'era vista la mano del cielo, e dove facevan buona
figura due personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto
animoso andava unito a tanta autorità; l'altro, con cui pareva che la
prepotenza in persona si fosse umiliata, che la bravería fosse venuta,
per dir così, a render l'armi, e a chiedere il riposo. A tali paragoni,
il signor don Rodrigo diveniva un po' piccino. Allora si capiva
da tutti cosa fosse tormentar l'innocenza per poterla disonorare,
perseguitarla con un'insistenza così sfacciata, con sì atroce violenza,
con sì abbominevoli insidie. Si faceva, in quell'occasione, una rivista
di tant'altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan come la
sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d'accordo con tutti. Era un
susurro, un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti
que' bravi che colui aveva d'intorno.
Una buona parte di quest'odio pubblico cadeva ancora sui suoi amici e
cortigiani. Si rosolava bene il signor podestà, sempre sordo e cieco e
muto sui fatti di quel tiranno; ma alla lontana, anche lui, perchè, se
non aveva i bravi, aveva i birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non
aveva se non chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli suoi pari,
non s'usava tanti guardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi
torti; di maniera che, per qualche tempo, stimaron bene di non farsi
veder per le strade.
Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa
dall'avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento,
stette rintanato nel suo palazzotto, solo coi suoi bravi, a rodersi,
per due giorni; il terzo, partì per Milano. Se non fosse stato altro
che quel mormoracchiare della gente, forse, poichè le cose erano
andate tant'avanti, sarebbe rimasto apposta per affrontarlo, anzi
per cercar l'occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno
de' più arditi; ma chi lo cacciò, fu l'essersi saputo per certo, che
il cardinale veniva anche da quelle parti. Il conte zio, il quale
di tutta quella storia non sapeva se non quel che gli aveva detto
Attilio, avrebbe certamente preteso che, in una congiuntura simile, don
Rodrigo facesse una gran figura, e avesse in pubblico dal cardinale le
più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ci fosse incamminato.
L'avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto minutamente;
perchè era un'occasione importante di far vedere in che stima fosse
tenuta la famiglia da una primaria autorità. Per levarsi da un impiccio
così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, si
mise in una carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori, davanti
e di dietro; e, lasciato l'ordine che il resto della servitù venisse
poi in seguito, partì come un fuggitivo, come (ci sia un po' lecito
di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come
Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di tornar ben presto, in altra
comparsa, a far le sue vendette.
Intanto, il cardinale veniva visitando, a una per giorno, le parrocchie
del territorio di Lecco. Il giorno in cui doveva arrivare a quella di
Lucia, già una gran parte degli abitanti erano andati sulla strada a
incontrarlo. All'entrata del paese, proprio accanto alla casetta delle
nostre due donne, c'era un arco trionfale, costrutto di stili per il
ritto, e di pali per il traverso, rivestito di paglia e di borraccina,
e ornato di rami verdi di pugnitopo e d'agrifoglio, distinti di bacche
scarlatte; la facciata della chiesa era parata di tappezzerie; al
davanzale d'ogni finestra pendevano coperte e lenzoli distesi, fasce
di bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco necessario
che fosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo. Verso le
ventidue, ch'era l'ora in cui s'aspettava il cardinale, quelli ch'eran
rimasti in casa, vecchi, donne e fanciulli la più parte, s'avviarono
anche loro a incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da
don Abbondio, uggioso in mezzo a tanta festa, e per il fracasso che lo
sbalordiva, e per il brulicar della gente innanzi e indietro, che, come
andava ripetendo, gli faceva girar la testa, e per il rodío segreto che
le donne avesser potuto cicalare, e dovesse toccargli a render conto
del matrimonio.
Quand'ecco si vede spuntare il cardinale, o per dir meglio, la
turba in mezzo a cui si trovava nella sua lettiga, col suo seguito
d'intorno; perchè di tutto questo non si vedeva altro che un indizio
in aria, al di sopra di tutte le teste, un pezzo della croce portata
dal cappellano che cavalcava una mula. La gente che andava con don
Abbondio, s'affrettò alla rinfusa, a raggiunger quell'altra: e lui,
dopo aver detto, tre e quattro volte: «adagio; in fila; cosa fate?»
si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: «è una babilonia, è
una babilonia,» entrò in chiesa, intanto ch'era vôta; e stette lì ad
aspettare.
Il cardinale veniva avanti, dando benedizioni con la mano, e
ricevendone dalle bocche della gente, che quelli del seguito avevano
un bel da fare a tenere un po' indietro. Per esser del paese di
Lucia, avrebbe voluto quella gente fare all'arcivescovo dimostrazioni
straordinarie; ma la cosa non era facile, perchè era uso che, per tutto
dove arrivava, tutti facevano più che potevano. Già sul principio
stesso del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, la
calca e l'impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far
temere della sua vita; e alcuni gentiluomini che gli eran più vicini,
avevano sfoderate le spade, per atterrire e respinger la folla. Tanto
c'era in que' costumi di scomposto e di violento, che, anche nel far
dimostrazioni di benevolenza a un vescovo in chiesa, e nel moderarle,
si dovesse andar vicino all'ammazzare. E quella difesa non sarebbe
forse bastata, se il maestro e il sottomaestro delle cerimonie, un
Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di corpo e d'animo,
non l'avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta
fino all'altar maggiore. D'allora in poi, in tante visite episcopali
ch'ebbe a fare, il primo entrar nella chiesa si può senza scherzo
contarlo tra le sue pastorali fatiche, e qualche volta, tra i pericoli
passati da lui.
Entrò anche in questa come potè; andò all'altare e, dopo essere stato
alquanto in orazione, fece, secondo il suo solito, un piccol discorso
al popolo, sul suo amore per loro, sul suo desiderio della loro
salvezza, e come dovessero disporsi alle funzioni del giorno dopo.
Ritiratosi poi nella casa del parroco, tra gli altri discorsi, gli
domandò informazione di Renzo. Don Abbondio disse ch'era un giovine un
po' vivo, un po' testardo, un po' collerico. Ma, a più particolari e
precise domande, dovette rispondere ch'era un galantuomo, e che anche
lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle
diavolerie che avevan detto.
«In quanto alla giovine,» riprese il cardinale, «pare anche a voi che
possa ora venir sicuramente a dimorare in casa sua?»
«Per ora,» rispose don Abbondio, «può venire e stare, come vuole:
dico, per ora; ma,» soggiunse poi con un sospiro, «bisognerebbe che
vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino.»
«Il Signore è sempre vicino,» disse il cardinale: «del resto, penserò
io a metterla al sicuro.» E diede subito ordine che, il giorno dopo,
di buon'ora, si spedisse la lettiga, con una scorta, a prender le due
donne.
Don Abbondio uscì di lì tutto contento che il cardinale gli avesse
parlato de' due giovani, senza chiedergli conto del suo rifiuto di
maritarli.--Dunque non sa niente,--diceva tra sè:--Agnese è stata
zitta: miracolo! È vero che s'hanno a tornare a vedere; ma le daremo
un'altra istruzione, le daremo.--E non sapeva, il pover'uomo, che
Federigo non era entrato in quell'argomento, appunto perchè intendeva
di parlargliene a lungo, in tempo più libero; e, prima di dargli ciò
che gli era dovuto, voleva sentire anche le sue ragioni.
Ma i pensieri del buon prelato per metter Lucia al sicuro eran divenuti
inutili: dopo che l'aveva lasciata, eran nate delle cose, che dobbiamo
raccontare.
Le due donne, in que' pochi giorni ch'ebbero a passare nella casuccia
ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna
il suo antico tenor di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare;
e, come aveva fatto nel monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una
stanzina, lontano dagli occhi della gente. Agnese andava un po' fuori,
un po' lavorava in compagnia della figlia. I loro discorsi eran
tanto più tristi, quanto più affettuosi: tutt'e due eran preparate
a una separazione; giacchè la pecora non poteva tornare a star così
vicino alla tana del lupo: e quando, quale, sarebbe il termine di
questa separazione? L'avvenire era oscuro, imbrogliato: per una di
loro principalmente. Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue
congetture allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla
di sinistro, dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da
lavorare e da stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava fermo nelle
sue promesse, perchè non si potrebbe andare a star con lui? E di tali
speranze, ne parlava e ne riparlava alla figlia, per la quale non
saprei dire se fosse maggior dolore il sentire, o pena il rispondere.
Il suo gran segreto l'aveva sempre tenuto in sè; e, inquietata bensì
dal dispiacere di fare a una madre così buona un sotterfugio, che non
era il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna e
da' vari timori che abbiam detto di sopra, andava d'oggi in domani,
senza dir nulla. I suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre,
o, per dir meglio, non n'aveva; s'era abbandonata alla Provvidenza.
Cercava dunque di lasciar cadere, o di stornare quel discorso; o
diceva, in termini generali, di non aver più speranza, nè desiderio di
cosa di questo mondo, fuorchè di poter presto riunirsi con sua madre;
le più volte, il pianto veniva opportunamente a troncar le parole.
«Sai perchè ti par così?» diceva Agnese: «perchè hai tanto patito,
e non ti par vero che la possa voltarsi in bene. Ma lascia fare al
Signore; e se.... Lascia che si veda un barlume, appena un barlume di
speranza; e allora mi saprai dire se non pensi più a nulla.» Lucia
baciava la madre, e piangeva.
[Illustrazione: Quand'ecco si vede spuntare il cardinale..... (pag.
366)]
Del resto, tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand'amicizia:
e dove nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli
uni e gli altri son buona gente? Agnese specialmente faceva di gran
chiacchiere con la padrona. Il sarto poi dava loro un po' di svago con
delle storie, e con de' discorsi morali: e, a desinare soprattutto,
aveva sempre qualche bella cosa da raccontare, di Bovo d'Antona o de'
Padri del deserto.
Poco distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d'alto affare;
don Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito, nella penna
dell'anonimo. Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto
inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l'uomo
possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli
altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d'ogni altra
cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per
mezzo de' nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso
stanno come possono. Con l'idee donna Prassede si regolava come dicono
che si deve far con gli amici: n'aveva poche; ma a quelle poche era
molto affezionata. Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte delle
storte; e non eran quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi,
o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi,
cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di
crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa
supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più
di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò
che c'era di reale, o di vederci ciò che non c'era; e molte altre cose
simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne
i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in
una volta.
Al sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell'occasione,
si diceva della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una
carrozza, con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia.
Questa si ristringeva nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva
fatta loro l'imbasciata, che trovasse maniera di scusarla. Finchè s'era
trattato di gente alla buona che cercava di conoscer la giovine del
miracolo, il sarto le aveva reso volentieri un tal servizio; ma in
questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione. Fece tanti
versi, tant'esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva così,
e ch'era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che
poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il
resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette
arrendere: molto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con
altrettanti «sicuro, sicuro.»
Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grand'accoglienza, e
molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa
superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili,
temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese
quasi subito, Lucia poco dopo, cominciarono a sentirsi sollevate
dal rispetto opprimente che da principio aveva loro incusso quella
signorile presenza; anzi ci trovarono una certa attrattiva. E per
venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale s'era
incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di
secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s'esibì
di prender la giovine in casa, dove, senz'essere addetta ad alcun
servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l'altre donne ne'
loro lavori. E soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore.
Oltre il bene chiaro e immediato che c'era in un'opera tale, donna
Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più
considerabile, secondo lei; di raddirizzare un cervello, di metter
sulla buona strada chi n'aveva gran bisogno. Perchè, fin da quando
aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s'era subito persuasa
che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono,
a un sedizioso, a uno scampaforca, in somma, qualche magagna, qualche
pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi
sei. La visita di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che,
in fondo, come si dice, non le paresse una buona giovine; ma c'era
molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla
fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco,
come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente
molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina
aveva le sue idee. E quell'arrossire ogni momento, e quel rattenere i
sospiri.... Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto.
Teneva essa per certo, come se lo sapesse, di buon luogo, che tutte le
sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con
quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e
stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacchè,
come diceva spesso agli altri e a sè stessa, tutto il suo studio era
di secondare i voleri del cielo; ma faceva spesso uno sbaglio grosso,
ch'era di prender per cielo il suo cervello. Però, della seconda
intenzione che abbiam detto, si guardò bene di darne il minimo indizio.
Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far del bene alla
gente, la prima cosa, nella maggior parte de' casi, è di non metterli a
parte del disegno.
La madre e la figlia si guardarono in viso. Nella dolorosa necessità di
dividersi, l'esibizione parve a tutt'e due da accettarsi, se non altro
per esser quella villa così vicina al loro paesetto: per cui, alla
peggio de' peggi, si ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme,
alla prossima villeggiatura. Visto, l'una negli occhi dell'altra, il
consenso, si voltaron tutt'e due a donna Prassede con quel ringraziare
che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e le promesse, e disse che
manderebbe subito una lettera da presentare a monsignore.
Partite le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di
cui, per esser letterato, come diremo più in particolare, si serviva
per segretario, nell'occasioni d'importanza. Trattandosi d'una di
questa sorte, don Ferrante ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando
la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente
l'ortografia; ch'era una delle molte cose che aveva studiate, e delle
poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Donna Prassede copiò
diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto. Questo
fu due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per
ricondur le donne al loro paese.
Arrivate, smontarono alla casa parrocchiale, dove si trovava il
cardinale. C'era ordine d'introdurle subito: il cappellano, che fu il
primo a vederle, l'eseguì, trattenendole solo quant'era necessario per
dar loro, in fretta in fretta, un po' d'istruzione sul cerimoniale da
usarsi con monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare,
ogni volta che lo potesse di nascosto a lui. Era per il pover'uomo
un tormento continuo il vedere il poco ordine che regnava intorno al
cardinale, su quel particolare: «tutto,» diceva con gli altri della
famiglia, «per la troppa bontà di quel benedett'uomo; per quella gran
famigliarità.» E raccontava d'aver perfino sentito più d'una volta co'
suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no.
Stava in quel momento il cardinale discorrendo con don Abbondio, sugli
affari della parrocchia: dimodochè questo non ebbe campo di dare anche
lui, come avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo,
nel passar loro accanto, mentre usciva, e quelle venivano avanti,
potè dar loro d'occhio, per accennare ch'era contento di loro, e che
continuassero, da brave, a non dir nulla.
Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall'altra,
Agnese si cavò di seno la lettera, e la presentò al cardinale, dicendo:
«è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto
vossignoria illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro
signori grandi, si devon conoscer tutti. Quand'avrà letto, vedrà.»
«Bene,» disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso
da' fiori di don Ferrante. Conosceva quella casa quanto bastasse per
esser certo che Lucia c'era invitata con buona intenzione, e che lì
sarebbe sicura dall'insidie e dalla violenza del suo persecutore. Che
concetto avesse della testa di donna Prassede, non n'abbiam notizia
positiva. Probabilmente, non era quella la persona che avrebbe scelta
a un tal intento; ma come abbiam detto o fatto intendere altrove, non
era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per rifarle
meglio.
«Prendete in pace anche questa separazione, e l'incertezza in cui vi
trovate,» soggiunse poi: «confidate che sia per finir presto, e che il
Signore voglia guidar le cose a quel termine a cui pare che le avesse
indirizzate; ma tenete per certo che quello che vorrà Lui, sarà il
meglio per voi.» Diede a Lucia in particolare qualche altro ricordo
amorevole; qualche altro conforto a tutt'e due; le benedisse, e le
lasciò andare. Appena fuori, si trovarono addosso uno sciame d'amici
e d'amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le
condusse a casa, come in trionfo. Era tra tutte quelle donne una gara
di congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte esclamavano
dal dispiacere, sentendo che Lucia se n'anderebbe il giorno dopo. Gli
uomini gareggiavano nell'offrir servizi; ognuno voleva star quella
notte a far la guardia alla casetta. Sul qual atto, il nostro anonimo
credè bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate
di non averne bisogno.
Tante accoglienze confondevano e sbalordivano Lucia: Agnese non
s'imbrogliava così per poco. Ma in sostanza fecero bene anche a Lucia,
distraendola alquanto da' pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo,
anche in mezzo al frastono, le si risvegliavano, su quell'uscio, in
quelle stanzucce, alla vista d'ogni oggetto.
Al tocco della campana che annunziava vicino il cominciar delle
funzioni, tutti si mossero verso la chiesa, e fu per le nostre donne
un'altra passeggiata trionfale.
Terminate le funzioni, don Abbondio, ch'era corso a vedere se Perpetua
aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal
cardinale. Andò subito dal grand'ospite, il quale, lasciatolo venir
vicino, «signor curato,» cominciò; e quelle parole furon dette in
maniera, da dover capire, ch'erano il principio d'un discorso lungo e
serio: «signor curato; perchè non avete voi unita in matrimonio quella
povera Lucia col suo promesso sposo?»
--Hanno votato il sacco stamattina coloro,--pensò don Abbondio; e
rispose borbottando: «monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare
degli scompigli che son nati in quell'affare: è stata una confusione
tale, da non poter, neppure al giorno d'oggi, vederci chiaro: come
anche vossignoria illustrissima può argomentare da questo, che la
giovine è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovine,
dopo altri accidenti, non si sa dove sia.»
«Domando,» riprese il cardinale, «se è vero che, prima di tutti codesti
casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n'eravate
richiesto, nel giorno fissato; e il perchè.»
«Veramente.... se vossignoria illustrissima sapesse.... che
intimazioni.... che comandi terribili ho avuti di non parlare....» E
restò lì, senza concludere, in un cert'atto, da far rispettosamente
intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più.
«Ma!» disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto:
«è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione,
vuol saper da voi il perchè non abbiate tatto ciò che, nella via
regolare, era obbligo vostro di fare.»
«Monsignore,» disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, «non ho
già voluto dire.... Ma m'è parso che, essendo cose intralciate, cose
vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare.... Però, però,
dico.... so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo
povero parroco. Perchè vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima
non può esser per tutto; e io resto qui esposto.... Però, quando Lei me
lo comanda, dirò, dirò tutto.»
«Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.»
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque
il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla
prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
«E non avete avuto altro motivo?» domandò il cardinale, quando don
Abbondio ebbe finito.
«Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,» rispose questo: «sotto pena
della vita, m'hanno intimato di non far quel matrimonio.»
«E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d'adempire un dovere
preciso?»
«Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave
incomodo, ma quando si tratta della vita....»
«E quando vi siete presentato alla Chiesa,» disse, con accento ancor
più grave, Federigo, «per addossarvi codesto ministero, v'ha essa
fatto sicurtà della vita? V'ha detto che i doveri annessi al ministero
fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto
forse che dove cominciasse, il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O
non v'ha espressamente detto il contrario? Non v'ha avvertito che vi
mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c'eran de'
violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato?
Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio, ad imitazione di Cui
ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a
esercitarne l'ufizio, mise forse per condizione d'aver salva la vita?
E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla
terra, a spese della carità e del dovere, c'era bisogno dell'unzione
santa, dell'imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta
il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico?
oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch'esso le
sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo
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