I promessi sposi. - 38
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li visitassero; e tornavano essi medesimi a visitarli.
Non c'è bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a
questa estremità di patimenti, nè l'aveva aspettata per commoversi.
Quella carità ardente e versatile doveva tutto sentire, in tutto
adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto prevenire, prender, per dir
così, tante forme, in quante variava il bisogno. Infatti, radunando
tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il risparmio, mettendo mano
a risparmi destinati ad altre liberalità, divenute ora d'un'importanza
troppo secondaria, aveva cercato ogni maniera di far danari, per
impiegarli tutti in soccorso degli affamati. Aveva fatte gran compre
di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi,
che n'eran più scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al
bisogno, mandò anche del sale, «con cui,» dice, raccontando la cosa,
il Ripamonti[21], «l'erbe del prato e le cortecce degli alberi si
convertono in cibo.» Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai
parrochi della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere,
dispensando elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere;
nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore contemporaneo,
il medico Alessandro Tadino, in un suo _Ragguaglio_ che avremo spesso
occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina due
mila scodelle di minestra di riso[22].
[21] Historiæ Patriæ, Decadis V, Lib. VI, pag. 386.
[22] Ragguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste
contagiosa, venefica et malefica, seguita nella città di Milano etc.
Milano, 1648, pag. 10.
Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi,
quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi
(giacchè Federigo ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle
liberalità altrui), questi, insieme con le liberalità d'altre mani
private, se non così feconde, pur numerose; insieme con le sovvenzioni
che il Consiglio de' decurioni aveva decretate, dando al tribunal di
provvisione l'incombenza di distribuirle; erano ancor poca cosa in
paragone del bisogno. Mentre ad alcuni montanari vicini a morir di
fame, veniva, per la carità del cardinale, prolungata la vita, altri
arrivavano a quell'estremo; i primi, finito quel misurato soccorso,
ci ricadevano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come
meno angustiate, da una carità costretta a scegliere, l'angustie
divenivan mortali; per tutto si periva, da ogni parte s'accorreva alla
città. Qui, due migliaia, mettiamo, d'affamati più robusti ed esperti
a superar la concorrenza e a farsi largo, avevano acquistata una
minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più altre migliaia
rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati,
quando, tra i rimasti indietro, c'erano spesso le mogli, i figli, i
padri loro? E mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più
abbandonati e ridotti all'estremo venivan levati di terra, rianimati,
ricoverati e provveduti per qualche tempo; in cent'altre parti, altri
cadevano, languivano o anche spiravano, senza aiuto, senza refrigerio.
Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzío confuso di voci
supplichevoli; la notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in
quando da alti lamenti scoppiati all'improvviso, da urli, da accenti
profondi d'invocazione, che terminavano in istrida acute.
È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta
varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non incappasse
mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno.
Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c'era
un buon numero d'uomini educati a tutt'altro che a tollerare; c'erano
a centinaia, di que' medesimi che, il giorno di san Martino, s'erano
tanto fatti sentire. Nè si può pensare che l'esempio de' quattro
disgraziati che n'avevan portata la pena per tutti, fosse quello che
ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza,
ma la memoria de' supplizi sugli animi d'una moltitudine vagabonda e
riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già
lo pativa? Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo
sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio
sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di
ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.
Il vôto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile
moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso
continuo, prima da' paesi circonvicini, poi da tutto il contado,
poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto,
anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per
sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così,
preso il posto da' nuovi concorrenti d'accatto, uscivano a un'ultima
disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno
non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del
chiedere. S'incontravano nell'opposto viaggio questi e que' pellegrini,
spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio
sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati. Ma
seguitavano ognuno la sua strada, se non più per la speranza di mutar
sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non
rivedere i luoghi dove avevan disperato. Se non che taluno, mancandogli
affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo
ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d'orrore, forse
di rimprovero agli altri passeggieri. «Vidi io,» scrive il Ripamonti,
«nella strada che gira le mura, il cadavere d'una donna.... Le usciva
di bocca dell'erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora
quasi un atto di sforzo rabbioso.... Aveva un fagottino in ispalla,
e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva
la poppa.... Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali,
raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così
intanto il primo ufizio materno.»
Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria,
spettacolo ordinario de' tempi ordinari, era allora affatto cessato. I
cenci e la miseria eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva,
era appena un'apparenza di parca mediocrità. Si vedevano i nobili
camminare in abito semplice e dimesso, o anche logoro e gretto; alcuni,
perchè le cagioni comuni della miseria avevan mutata a quel segno anche
la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già sconcertati: gli
altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione,
o che si vergognassero d'insultare alla pubblica calamità. Que'
prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno
strascico di bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che
parevano offrire e chieder pace. Altri che, anche nella prosperità,
erano stati di pensieri più umani, e di portamenti più modesti,
parevano anch'essi confusi, costernati, e come sopraffatti dalla vista
continua d'una miseria che sorpassava, non solo la possibilità del
soccorso, ma direi quasi, le forze della compassione. Chi aveva il
modo di far qualche elemosina, doveva però fare una trista scelta
tra fame e fame, tra urgenze e urgenze. E appena si vedeva una mano
pietosa avvicinarsi alla mano d'un infelice, nasceva all'intorno una
gara d'altri infelici; coloro a cui rimaneva più vigore, si facevano
avanti a chieder con più istanza; gli estenuati, i vecchi, i fanciulli,
alzavano le mani scarne; le madri alzavano e facevan veder da lontano i
bambini piangenti, mal rinvoltati nelle fasce cenciose, e ripiegati per
languore nelle loro mani.
Così passò l'inverno e la primavera: e già da qualche tempo il
tribunale della sanità andava rappresentando a quello della provvisione
il pericolo del contagio, che sovrastava alla città, per tanta miseria
ammontata in ogni parte di essa; e proponeva che gli accattoni
venissero raccolti in diversi ospizi. Mentre si discute questa
proposta, mentre s'approva, mentre si pensa ai mezzi, ai modi, ai
luoghi, per mandarla ad effetto, i cadaveri crescono nelle strade ogni
giorno più; a proporzion di questo, cresce tutto l'altro ammasso di
miserie. Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e
più speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani
e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e
curati a spese del pubblico; e così vien risoluto, contro il parere
della Sanità, la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe
cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo.
Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse
nelle mani di qualcheduno che non lo conoscesse, nè di vista nè per
descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della
città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo
spazio della fossa, d'una strada di circonvallazione, e d'una gora che
gira il recinto medesimo. I due lati maggiori son lunghi a un di presso
cinquecento passi; gli altri due, forse quindici meno; tutti, dalla
parte esterna, son divisi in piccole stanze d'un piano solo; di dentro
gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto da
piccole e magre colonne.
Le stanzine eran dugent'ottantotto, o giù di lì: a' nostri giorni,
una grande apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della
facciata del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate
via non so quante. Al tempo della nostra storia, non c'eran che due
entrature; una nel mezzo del lato che guarda le mura della città,
l'altra di rimpetto, nell'opposto. Nel centro dello spazio interno,
c'era, e c'è tuttora, una piccola chiesa ottangolare.
La prima destinazione di tutto l'edifizio, cominciato nell'anno 1489,
co' danari d'un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico
e d'altri testatori e donatori, fu, come l'accenna il nome stesso,
di ricoverarvi, all'occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già
molto prima di quell'epoca, era solita, e lo fa per molto tempo dopo,
a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in
questo, ora in quel paese d'Europa, prendendone talvolta una gran
parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e per il largo. Nel
momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per deposito
delle mercanzie soggette a contumacia.
Ora, per metterlo in libertà, non si stette al rigor delle leggi
sanitarie, e fatte in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti
prescritti, si rilasciaron tutte le mercanzie a un tratto. Si fece
stender della paglia in tutte le stanze, si fecero provvisioni di
viveri, della qualità e nella quantità che si potè; e s'invitarono, con
pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi lì.
Molti vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano
infermi per le strade e per le piazze, ci vennero trasportati; in
pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni e gli altri, più di tre mila.
Ma molti più furon quelli che restaron fuori. O che ognun di loro
aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a
goder l'elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla
clausura, o quella diffidenza de' poveri per tutto ciò che vien loro
proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre
proporzionata all'ignoranza comune di chi la sente e di chi l'ispira,
al numero de' poveri, e al poco giudizio delle leggi), o il saper di
fatto quale fosse in realtà il benefizio offerto, o fosse tutto questo
insieme, o che altro, il fatto sta che la più parte, non facendo conto
dell'invito, continuavano a strascicarsi stentando per le strade. Visto
ciò, si credè bene di passar dall'invito alla forza. Si mandarono in
ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero
legati quelli che resistevano; per ognun de' quali fu assegnato
a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori
strettezze, i danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli
a sproposito. E quantunque, com'era stata congettura, anzi intento
espresso della Provvisione, un certo numero d'accattoni sfrattasse
dalla città, per andare a vivere o a morire altrove, in libertà almeno;
pure la caccia fu tale che, in poco tempo, il numero de' ricoverati,
tra ospiti e prigionieri, s'accostò a dieci mila.
Le donne e i bambini, si vuol supporre che saranno stati messi in
quartieri separati, benchè le memorie del tempo non ne dican nulla.
Regole poi e provvedimenti per il buon ordine, non ne saranno
certamente mancati; ma si figuri ognuno qual ordine potesse essere
stabilito e mantenuto, in que' tempi specialmente e in quelle
circostanze, in una così vasta e varia riunione, dove coi volontari si
trovavano i forzati; con quelli per cui l'accatto era una necessità,
un dolore, una vergogna, coloro di cui era il mestiere; con molti
cresciuti nell'onesta attività de' campi e dell'officine, molti altri
educati nelle piazze, nelle taverne, ne' palazzi de' prepotenti,
all'ozio, alla truffa, allo scherno, alla violenza.
Come stessero poi tutti insieme d'alloggio e di vitto, si potrebbe
tristamente congetturarlo, quando non n'avessimo notizie positive; ma
le abbiamo. Dormivano ammontati a venti, a trenta per ognuna di quelle
cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po' di paglia putrida
e fetente, o sulla nuda terra: perchè, s'era bensì ordinato che la
paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata spesso; ma in effetto
era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava. S'era ugualmente ordinato
che il pane fosse di buona qualità: giacchè, quale amministratore ha
mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che non si
sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più ristretto
servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine. Si
disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto
fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo
credibile che non fosse uno di que' lamenti in aria. D'acqua perfino
c'era scarsità; d'acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune,
doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove
anche motosa, e divenuta poi quale poteva renderla l'uso e la vicinanza
d'una tanta e tal moltitudine.
A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano
sopra corpi ammalati o ammalazzati, s'aggiunga una gran perversità
della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più
ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento. Ai mali s'aggiunga
il sentimento de' mali, la noia e la smania della prigionia, la
rimembranza dell'antiche abitudini, il dolore di cari perduti,
la memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ribrezzo
vicendevole, tant'altre passioni d'abbattimento o di rabbia, portate o
nate là dentro; l'apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte
resa frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova
e potente cagione. E non farà stupore che la mortalità crescesse e
regnasse in quel recinto a segno di prendere aspetto e, presso molti,
nome di pestilenza: sia che la riunione e l'aumento di tutte quelle
cause non facesse che aumentare l'attività d'un'influenza puramente
epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi
e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio,
il quale ne' corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva
qualità degli alimenti, dall'intemperie, dal sudiciume, dal travaglio
e dall'avvilimento trovi la tempera, per dir così, e la stagione sua
propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutrirsi e
moltiplicare (se a un ignorante è lecito buttar là queste parole,
dietro l'ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da ultimo,
con molte ragioni e con molta riserva, da uno, diligente quanto
ingegnoso[23]): sia poi che il contagio scoppiasse da principio nel
lazzeretto medesimo, come, da un'oscura e inesatta relazione, par che
pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando
prima d'allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il
disagio era già antico e generale, e la mortalità già frequente), e
che portato in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e
terribile rapidità. Qualunque di queste congetture sia la vera, il
numero giornaliero de' morti nel lazzeretto oltrepassò in poco tempo il
centinaio.
[23] Del morbo petecchiale... e degli altri contagi in generale, opera
del dott. F. Enrico Acerbi, Cap. III, § 1.
Mentre in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento,
rammarichío, fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento,
incertezza. Si discusse, si sentì il parere della Sanità; non si trovò
altro che di disfare ciò che s'era fatto con tanto apparato, con tanta
spesa, con tante vessazioni. S'aprì il lazzeretto, si licenziaron tutti
i poveri non ammalati che ci rimanevano, e che scapparon fuori con
una gioia furibonda. La città tornò a risonare dell'antico lamento,
ma più debole e interrotto; rivide quella turba più rada e più
compassionevole, dice il Ripamonti, per il pensiero del come fosse di
tanto scemata. Gl'infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella,
allora ospizio di poveri; dove la più parte perirono.
Intanto però cominciavano que' benedetti campi a imbiondire. Gli
accattoni venuti dal contado se n'andarono, ognuno dalla sua parte, a
quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo gli accomiatò con un
ultimo sforzo, e con un nuovo ritrovato di carità: a ogni contadino che
si presentasse all'arcivescovado, fece dare un giulio, e una falce da
mietere.
Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica
o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin
nell'autunno. Era sul finire, quand'ecco un nuovo flagello.
Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di
storiche, erano accadute in questo frattempo. Il cardinal di Richelieu,
presa, come s'è detto, la Roccella, abborracciata alla meglio una
pace col re d'Inghilterra, aveva proposto e persuaso con la sua
potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse
efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme determinato il re
medesimo a condurre in persona la spedizione. Mentre si facevan gli
apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in
Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando,
o questo manderebbe un esercito ad occuparli. Il duca che, in più
disperate circostanze, s'era schermito d'accettare una condizione
così dura e così sospetta, incoraggito ora dal vicino soccorso di
Francia, tanto più se ne schermiva; però con termini in cui il no fosse
rigirato e allungato, quanto si poteva, e con proposte di sommissione,
anche più apparente, ma meno costosa. Il commissario se n'era andato,
protestandogli che si verrebbe alla forza. In marzo, il cardinal di
Richelieu era poi calato infatti col re, alla testa d'un esercito;
aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s'era trattato; non s'era
concluso; dopo uno scontro, col vantaggio de' Francesi, s'era trattato
di nuovo, e concluso un accordo, nel quale il duca, tra l'altre
cose, aveva stipulato che il Cordova leverebbe l'assedio da Casale;
obbligandosi, se questo ricusasse, a unirsi co' Francesi, per invadere
il ducato di Milano. Don Gonzalo, parendogli anche d'uscirne con poco,
aveva levato l'assedio da Casale, dov'era subito entrato un corpo di
Francesi, a rinforzar la guarnigione.
Fu in questa occasione che l'Achillini scrisse al re Luigi quel suo
famoso sonetto:
Sudate, o fochi, a preparar metalli:
e un altro, con cui l'esortava a portarsi subito alla liberazione
di Terra santa. Ma è un destino che i pareri de' poeti non siano
ascoltati: e se nella storia trovate de' fatti conformi a qualche
loro suggerimento, dite pur francamente ch'eran cose risolute prima.
Il cardinal di Richelieu aveva invece stabilito di ritornare in
Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo Soranzo,
inviato de' Veneziani, potè bene addurre ragioni per combattere quella
risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come
ai versi dell'Achillini, se ne ritornarono col grosso dell'esercito,
lasciando soltanto sei mila uomini in Susa, per mantenere il passo, e
per caparra del trattato.
Mentre quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando
s'avvicinava dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la
Valtellina; si disponeva a calar nel milanese. Oltre tutti i danni
che si potevan temere da un tal passaggio, eran venuti espressi
avvisi al tribunale della sanità, che in quell'esercito covasse la
peste, della quale allora nelle truppe alemanne c'era sempre qualche
sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo avanti,
avevan portata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de' conservatori
della Sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due
medici), fu incaricato dal tribunale, come racconta lui stesso, in
quel suo ragguaglio già citato[24], di rappresentare al governatore
lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente ci
passava, per andare all'assedio di Mantova, come s'era sparsa la voce.
Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania
d'acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non potè non
occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si
curò di registrare l'atto di lui più degno di memoria, la risposta che
diede al Tadino in quella circostanza. Rispose che non sapeva cosa
farci; che i motivi d'interesse e di riputazione, per i quali s'era
mosso quell'esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che
con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella
Provvidenza.
[24] Pag. 16.
Per riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino
suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in
quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba
di nessuna sorte da' soldati ch'eran per passare; ma non fu possibile
far intendere la necessità d'un tal ordine al presidente, «uomo,» dice
il Tadino, «di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere
incontri di morte di tante migliaia di persone, per il comercio di
questa gente, et loro robbe.» Citiamo questo tratto per uno de'
singolari di quel tempo: chè di certo, da che ci son tribunali di
sanità, non accadde mai a un altro presidente d'un tal corpo, di fare
un ragionamento simile; se ragionamento si può chiamare.
In quanto a Don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n'andò da
Milano; e la partenza fu trista per lui, come lo era la cagione. Veniva
rimosso per i cattivi successi della guerra, della quale era stato il
promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta
sotto il suo governo. (Quello che aveva fatto per la peste, o non si
sapeva, o certo nessuno se n'inquietava, come vedremo più avanti,
fuorchè il tribunale della sanità, e i due medici specialmente.)
All'uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte,
in mezzo a una guardia d'alabardieri, con due trombetti a cavallo
davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito, fu
accolto con gran fischiate da ragazzi ch'eran radunati sulla piazza
del duomo, e che gli andaron dietro alla rinfusa. Entrata la comitiva
nella strada che conduce a porta ticinese, di dove si doveva uscire,
cominciò a trovarsi in mezzo a una folla di gente che, parte era lì
ad aspettare, parte accorreva; tanto più che i trombetti, uomini di
formalità, non cessaron di sonare, dal palazzo di corte, fino alla
porta. E nel processo che si fece poi su quei tumulto, uno di costoro,
ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo
crescere, risponde: «caro signore, questa è la nostra professione; et
se S. E. non hauesse hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva
comandarne che tacessimo.» Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa
che mostrasse timore, o per timore di render con questo più ardita la
moltitudine, o perchè fosse in effetto un po' sbalordito, non dava
nessun ordine. La moltitudine, che le guardie avevan tentato in vano
di respingere, precedeva, circondava, seguiva le carrozze, gridando:
«la va via la carestia, va via il sangue de' poveri,» e peggio. Quando
furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mattoni,
torsoli, bucce d'ogni sorte, la munizione solita in somma di quelle
spedizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un'ultima
scarica sulle carrozze che uscivano. Subito dopo si sbandarono.
In luogo di don Gonzalo, fu mandato il marchese Ambrogio Spinola,
il cui nome aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella
celebrità militare che ancor gli rimane.
Intanto l'esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte
Rambaldo di Collalto, altro condottiere italiano, di minore, ma
non d'ultima fama, aveva ricevuto l'ordine definitivo di portarsi
all'impresa di Mantova; e nel mese di settembre, entrò nel ducato di
Milano.
La milizia, a que' tempi, era ancor composta in gran parte di soldati
di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di
questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto,
e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli
uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da
tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale
non ce n'era; nè avrebbe potuto accordarsi così facilmente con
l'autorità in parte indipendente de' vari condottieri. Questi poi in
particolare, nè erano molto raffinatori in fatto di disciplina, nè,
anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e
a mantenerla; chè soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati
contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d'abolire
il saccheggio; o per lo meno, l'avrebbero lasciato solo a guardar le
bandiere. Oltre di ciò, siccome i principi, nel prendere, per dir così,
ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per
assicurar l'imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di
pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe venivano per lo più
tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de' paesi a cui la toccava, ne
divenivano come un supplimento tacitamente convenuto. È celebre, poco
meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile
mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila.
E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che,
sotto il suo comando, aveva desolata la Germania, in quella guerra
celebre tra le guerre, e per sè e per i suoi effetti, che ricevette
poi il nome da' trent'anni della sua durata: e allora ne correva
l'undecimo. C'era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio
reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato
sotto di lui, e ci si trovava più d'uno di quelli che, quattr'anni
dopo, dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa.
Eran vent'otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla
Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il
corso che fa l'Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume
fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da
costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.
Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi
quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri
rimanevano, o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar
la casa dall'incendio, o per tener d'occhio cose preziose nascoste,
sotterrate; altri perchè non avean nulla da perdere, o anche facevan
conto d'acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della
fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li
metteva a sacco addirittura: ciò che c'era da godere o da portar via,
spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili
diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle
ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l'astuzie per salvar
la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni
Non c'è bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a
questa estremità di patimenti, nè l'aveva aspettata per commoversi.
Quella carità ardente e versatile doveva tutto sentire, in tutto
adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto prevenire, prender, per dir
così, tante forme, in quante variava il bisogno. Infatti, radunando
tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il risparmio, mettendo mano
a risparmi destinati ad altre liberalità, divenute ora d'un'importanza
troppo secondaria, aveva cercato ogni maniera di far danari, per
impiegarli tutti in soccorso degli affamati. Aveva fatte gran compre
di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi,
che n'eran più scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al
bisogno, mandò anche del sale, «con cui,» dice, raccontando la cosa,
il Ripamonti[21], «l'erbe del prato e le cortecce degli alberi si
convertono in cibo.» Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai
parrochi della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere,
dispensando elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere;
nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore contemporaneo,
il medico Alessandro Tadino, in un suo _Ragguaglio_ che avremo spesso
occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina due
mila scodelle di minestra di riso[22].
[21] Historiæ Patriæ, Decadis V, Lib. VI, pag. 386.
[22] Ragguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste
contagiosa, venefica et malefica, seguita nella città di Milano etc.
Milano, 1648, pag. 10.
Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi,
quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi
(giacchè Federigo ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle
liberalità altrui), questi, insieme con le liberalità d'altre mani
private, se non così feconde, pur numerose; insieme con le sovvenzioni
che il Consiglio de' decurioni aveva decretate, dando al tribunal di
provvisione l'incombenza di distribuirle; erano ancor poca cosa in
paragone del bisogno. Mentre ad alcuni montanari vicini a morir di
fame, veniva, per la carità del cardinale, prolungata la vita, altri
arrivavano a quell'estremo; i primi, finito quel misurato soccorso,
ci ricadevano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come
meno angustiate, da una carità costretta a scegliere, l'angustie
divenivan mortali; per tutto si periva, da ogni parte s'accorreva alla
città. Qui, due migliaia, mettiamo, d'affamati più robusti ed esperti
a superar la concorrenza e a farsi largo, avevano acquistata una
minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più altre migliaia
rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati,
quando, tra i rimasti indietro, c'erano spesso le mogli, i figli, i
padri loro? E mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più
abbandonati e ridotti all'estremo venivan levati di terra, rianimati,
ricoverati e provveduti per qualche tempo; in cent'altre parti, altri
cadevano, languivano o anche spiravano, senza aiuto, senza refrigerio.
Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzío confuso di voci
supplichevoli; la notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in
quando da alti lamenti scoppiati all'improvviso, da urli, da accenti
profondi d'invocazione, che terminavano in istrida acute.
È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta
varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non incappasse
mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno.
Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c'era
un buon numero d'uomini educati a tutt'altro che a tollerare; c'erano
a centinaia, di que' medesimi che, il giorno di san Martino, s'erano
tanto fatti sentire. Nè si può pensare che l'esempio de' quattro
disgraziati che n'avevan portata la pena per tutti, fosse quello che
ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza,
ma la memoria de' supplizi sugli animi d'una moltitudine vagabonda e
riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già
lo pativa? Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo
sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio
sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di
ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.
Il vôto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile
moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso
continuo, prima da' paesi circonvicini, poi da tutto il contado,
poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto,
anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per
sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così,
preso il posto da' nuovi concorrenti d'accatto, uscivano a un'ultima
disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno
non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del
chiedere. S'incontravano nell'opposto viaggio questi e que' pellegrini,
spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio
sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati. Ma
seguitavano ognuno la sua strada, se non più per la speranza di mutar
sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non
rivedere i luoghi dove avevan disperato. Se non che taluno, mancandogli
affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo
ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d'orrore, forse
di rimprovero agli altri passeggieri. «Vidi io,» scrive il Ripamonti,
«nella strada che gira le mura, il cadavere d'una donna.... Le usciva
di bocca dell'erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora
quasi un atto di sforzo rabbioso.... Aveva un fagottino in ispalla,
e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva
la poppa.... Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali,
raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così
intanto il primo ufizio materno.»
Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria,
spettacolo ordinario de' tempi ordinari, era allora affatto cessato. I
cenci e la miseria eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva,
era appena un'apparenza di parca mediocrità. Si vedevano i nobili
camminare in abito semplice e dimesso, o anche logoro e gretto; alcuni,
perchè le cagioni comuni della miseria avevan mutata a quel segno anche
la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già sconcertati: gli
altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione,
o che si vergognassero d'insultare alla pubblica calamità. Que'
prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno
strascico di bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che
parevano offrire e chieder pace. Altri che, anche nella prosperità,
erano stati di pensieri più umani, e di portamenti più modesti,
parevano anch'essi confusi, costernati, e come sopraffatti dalla vista
continua d'una miseria che sorpassava, non solo la possibilità del
soccorso, ma direi quasi, le forze della compassione. Chi aveva il
modo di far qualche elemosina, doveva però fare una trista scelta
tra fame e fame, tra urgenze e urgenze. E appena si vedeva una mano
pietosa avvicinarsi alla mano d'un infelice, nasceva all'intorno una
gara d'altri infelici; coloro a cui rimaneva più vigore, si facevano
avanti a chieder con più istanza; gli estenuati, i vecchi, i fanciulli,
alzavano le mani scarne; le madri alzavano e facevan veder da lontano i
bambini piangenti, mal rinvoltati nelle fasce cenciose, e ripiegati per
languore nelle loro mani.
Così passò l'inverno e la primavera: e già da qualche tempo il
tribunale della sanità andava rappresentando a quello della provvisione
il pericolo del contagio, che sovrastava alla città, per tanta miseria
ammontata in ogni parte di essa; e proponeva che gli accattoni
venissero raccolti in diversi ospizi. Mentre si discute questa
proposta, mentre s'approva, mentre si pensa ai mezzi, ai modi, ai
luoghi, per mandarla ad effetto, i cadaveri crescono nelle strade ogni
giorno più; a proporzion di questo, cresce tutto l'altro ammasso di
miserie. Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e
più speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani
e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e
curati a spese del pubblico; e così vien risoluto, contro il parere
della Sanità, la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe
cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo.
Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse
nelle mani di qualcheduno che non lo conoscesse, nè di vista nè per
descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della
città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo
spazio della fossa, d'una strada di circonvallazione, e d'una gora che
gira il recinto medesimo. I due lati maggiori son lunghi a un di presso
cinquecento passi; gli altri due, forse quindici meno; tutti, dalla
parte esterna, son divisi in piccole stanze d'un piano solo; di dentro
gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto da
piccole e magre colonne.
Le stanzine eran dugent'ottantotto, o giù di lì: a' nostri giorni,
una grande apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della
facciata del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate
via non so quante. Al tempo della nostra storia, non c'eran che due
entrature; una nel mezzo del lato che guarda le mura della città,
l'altra di rimpetto, nell'opposto. Nel centro dello spazio interno,
c'era, e c'è tuttora, una piccola chiesa ottangolare.
La prima destinazione di tutto l'edifizio, cominciato nell'anno 1489,
co' danari d'un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico
e d'altri testatori e donatori, fu, come l'accenna il nome stesso,
di ricoverarvi, all'occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già
molto prima di quell'epoca, era solita, e lo fa per molto tempo dopo,
a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in
questo, ora in quel paese d'Europa, prendendone talvolta una gran
parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e per il largo. Nel
momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per deposito
delle mercanzie soggette a contumacia.
Ora, per metterlo in libertà, non si stette al rigor delle leggi
sanitarie, e fatte in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti
prescritti, si rilasciaron tutte le mercanzie a un tratto. Si fece
stender della paglia in tutte le stanze, si fecero provvisioni di
viveri, della qualità e nella quantità che si potè; e s'invitarono, con
pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi lì.
Molti vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano
infermi per le strade e per le piazze, ci vennero trasportati; in
pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni e gli altri, più di tre mila.
Ma molti più furon quelli che restaron fuori. O che ognun di loro
aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a
goder l'elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla
clausura, o quella diffidenza de' poveri per tutto ciò che vien loro
proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre
proporzionata all'ignoranza comune di chi la sente e di chi l'ispira,
al numero de' poveri, e al poco giudizio delle leggi), o il saper di
fatto quale fosse in realtà il benefizio offerto, o fosse tutto questo
insieme, o che altro, il fatto sta che la più parte, non facendo conto
dell'invito, continuavano a strascicarsi stentando per le strade. Visto
ciò, si credè bene di passar dall'invito alla forza. Si mandarono in
ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero
legati quelli che resistevano; per ognun de' quali fu assegnato
a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori
strettezze, i danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli
a sproposito. E quantunque, com'era stata congettura, anzi intento
espresso della Provvisione, un certo numero d'accattoni sfrattasse
dalla città, per andare a vivere o a morire altrove, in libertà almeno;
pure la caccia fu tale che, in poco tempo, il numero de' ricoverati,
tra ospiti e prigionieri, s'accostò a dieci mila.
Le donne e i bambini, si vuol supporre che saranno stati messi in
quartieri separati, benchè le memorie del tempo non ne dican nulla.
Regole poi e provvedimenti per il buon ordine, non ne saranno
certamente mancati; ma si figuri ognuno qual ordine potesse essere
stabilito e mantenuto, in que' tempi specialmente e in quelle
circostanze, in una così vasta e varia riunione, dove coi volontari si
trovavano i forzati; con quelli per cui l'accatto era una necessità,
un dolore, una vergogna, coloro di cui era il mestiere; con molti
cresciuti nell'onesta attività de' campi e dell'officine, molti altri
educati nelle piazze, nelle taverne, ne' palazzi de' prepotenti,
all'ozio, alla truffa, allo scherno, alla violenza.
Come stessero poi tutti insieme d'alloggio e di vitto, si potrebbe
tristamente congetturarlo, quando non n'avessimo notizie positive; ma
le abbiamo. Dormivano ammontati a venti, a trenta per ognuna di quelle
cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po' di paglia putrida
e fetente, o sulla nuda terra: perchè, s'era bensì ordinato che la
paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata spesso; ma in effetto
era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava. S'era ugualmente ordinato
che il pane fosse di buona qualità: giacchè, quale amministratore ha
mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che non si
sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più ristretto
servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine. Si
disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto
fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo
credibile che non fosse uno di que' lamenti in aria. D'acqua perfino
c'era scarsità; d'acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune,
doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove
anche motosa, e divenuta poi quale poteva renderla l'uso e la vicinanza
d'una tanta e tal moltitudine.
A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano
sopra corpi ammalati o ammalazzati, s'aggiunga una gran perversità
della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più
ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento. Ai mali s'aggiunga
il sentimento de' mali, la noia e la smania della prigionia, la
rimembranza dell'antiche abitudini, il dolore di cari perduti,
la memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ribrezzo
vicendevole, tant'altre passioni d'abbattimento o di rabbia, portate o
nate là dentro; l'apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte
resa frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova
e potente cagione. E non farà stupore che la mortalità crescesse e
regnasse in quel recinto a segno di prendere aspetto e, presso molti,
nome di pestilenza: sia che la riunione e l'aumento di tutte quelle
cause non facesse che aumentare l'attività d'un'influenza puramente
epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi
e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio,
il quale ne' corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva
qualità degli alimenti, dall'intemperie, dal sudiciume, dal travaglio
e dall'avvilimento trovi la tempera, per dir così, e la stagione sua
propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutrirsi e
moltiplicare (se a un ignorante è lecito buttar là queste parole,
dietro l'ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da ultimo,
con molte ragioni e con molta riserva, da uno, diligente quanto
ingegnoso[23]): sia poi che il contagio scoppiasse da principio nel
lazzeretto medesimo, come, da un'oscura e inesatta relazione, par che
pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando
prima d'allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il
disagio era già antico e generale, e la mortalità già frequente), e
che portato in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e
terribile rapidità. Qualunque di queste congetture sia la vera, il
numero giornaliero de' morti nel lazzeretto oltrepassò in poco tempo il
centinaio.
[23] Del morbo petecchiale... e degli altri contagi in generale, opera
del dott. F. Enrico Acerbi, Cap. III, § 1.
Mentre in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento,
rammarichío, fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento,
incertezza. Si discusse, si sentì il parere della Sanità; non si trovò
altro che di disfare ciò che s'era fatto con tanto apparato, con tanta
spesa, con tante vessazioni. S'aprì il lazzeretto, si licenziaron tutti
i poveri non ammalati che ci rimanevano, e che scapparon fuori con
una gioia furibonda. La città tornò a risonare dell'antico lamento,
ma più debole e interrotto; rivide quella turba più rada e più
compassionevole, dice il Ripamonti, per il pensiero del come fosse di
tanto scemata. Gl'infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella,
allora ospizio di poveri; dove la più parte perirono.
Intanto però cominciavano que' benedetti campi a imbiondire. Gli
accattoni venuti dal contado se n'andarono, ognuno dalla sua parte, a
quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo gli accomiatò con un
ultimo sforzo, e con un nuovo ritrovato di carità: a ogni contadino che
si presentasse all'arcivescovado, fece dare un giulio, e una falce da
mietere.
Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica
o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin
nell'autunno. Era sul finire, quand'ecco un nuovo flagello.
Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di
storiche, erano accadute in questo frattempo. Il cardinal di Richelieu,
presa, come s'è detto, la Roccella, abborracciata alla meglio una
pace col re d'Inghilterra, aveva proposto e persuaso con la sua
potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse
efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme determinato il re
medesimo a condurre in persona la spedizione. Mentre si facevan gli
apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in
Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando,
o questo manderebbe un esercito ad occuparli. Il duca che, in più
disperate circostanze, s'era schermito d'accettare una condizione
così dura e così sospetta, incoraggito ora dal vicino soccorso di
Francia, tanto più se ne schermiva; però con termini in cui il no fosse
rigirato e allungato, quanto si poteva, e con proposte di sommissione,
anche più apparente, ma meno costosa. Il commissario se n'era andato,
protestandogli che si verrebbe alla forza. In marzo, il cardinal di
Richelieu era poi calato infatti col re, alla testa d'un esercito;
aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s'era trattato; non s'era
concluso; dopo uno scontro, col vantaggio de' Francesi, s'era trattato
di nuovo, e concluso un accordo, nel quale il duca, tra l'altre
cose, aveva stipulato che il Cordova leverebbe l'assedio da Casale;
obbligandosi, se questo ricusasse, a unirsi co' Francesi, per invadere
il ducato di Milano. Don Gonzalo, parendogli anche d'uscirne con poco,
aveva levato l'assedio da Casale, dov'era subito entrato un corpo di
Francesi, a rinforzar la guarnigione.
Fu in questa occasione che l'Achillini scrisse al re Luigi quel suo
famoso sonetto:
Sudate, o fochi, a preparar metalli:
e un altro, con cui l'esortava a portarsi subito alla liberazione
di Terra santa. Ma è un destino che i pareri de' poeti non siano
ascoltati: e se nella storia trovate de' fatti conformi a qualche
loro suggerimento, dite pur francamente ch'eran cose risolute prima.
Il cardinal di Richelieu aveva invece stabilito di ritornare in
Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo Soranzo,
inviato de' Veneziani, potè bene addurre ragioni per combattere quella
risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come
ai versi dell'Achillini, se ne ritornarono col grosso dell'esercito,
lasciando soltanto sei mila uomini in Susa, per mantenere il passo, e
per caparra del trattato.
Mentre quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando
s'avvicinava dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la
Valtellina; si disponeva a calar nel milanese. Oltre tutti i danni
che si potevan temere da un tal passaggio, eran venuti espressi
avvisi al tribunale della sanità, che in quell'esercito covasse la
peste, della quale allora nelle truppe alemanne c'era sempre qualche
sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo avanti,
avevan portata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de' conservatori
della Sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due
medici), fu incaricato dal tribunale, come racconta lui stesso, in
quel suo ragguaglio già citato[24], di rappresentare al governatore
lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente ci
passava, per andare all'assedio di Mantova, come s'era sparsa la voce.
Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania
d'acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non potè non
occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si
curò di registrare l'atto di lui più degno di memoria, la risposta che
diede al Tadino in quella circostanza. Rispose che non sapeva cosa
farci; che i motivi d'interesse e di riputazione, per i quali s'era
mosso quell'esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che
con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella
Provvidenza.
[24] Pag. 16.
Per riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino
suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in
quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba
di nessuna sorte da' soldati ch'eran per passare; ma non fu possibile
far intendere la necessità d'un tal ordine al presidente, «uomo,» dice
il Tadino, «di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere
incontri di morte di tante migliaia di persone, per il comercio di
questa gente, et loro robbe.» Citiamo questo tratto per uno de'
singolari di quel tempo: chè di certo, da che ci son tribunali di
sanità, non accadde mai a un altro presidente d'un tal corpo, di fare
un ragionamento simile; se ragionamento si può chiamare.
In quanto a Don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n'andò da
Milano; e la partenza fu trista per lui, come lo era la cagione. Veniva
rimosso per i cattivi successi della guerra, della quale era stato il
promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta
sotto il suo governo. (Quello che aveva fatto per la peste, o non si
sapeva, o certo nessuno se n'inquietava, come vedremo più avanti,
fuorchè il tribunale della sanità, e i due medici specialmente.)
All'uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte,
in mezzo a una guardia d'alabardieri, con due trombetti a cavallo
davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito, fu
accolto con gran fischiate da ragazzi ch'eran radunati sulla piazza
del duomo, e che gli andaron dietro alla rinfusa. Entrata la comitiva
nella strada che conduce a porta ticinese, di dove si doveva uscire,
cominciò a trovarsi in mezzo a una folla di gente che, parte era lì
ad aspettare, parte accorreva; tanto più che i trombetti, uomini di
formalità, non cessaron di sonare, dal palazzo di corte, fino alla
porta. E nel processo che si fece poi su quei tumulto, uno di costoro,
ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo
crescere, risponde: «caro signore, questa è la nostra professione; et
se S. E. non hauesse hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva
comandarne che tacessimo.» Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa
che mostrasse timore, o per timore di render con questo più ardita la
moltitudine, o perchè fosse in effetto un po' sbalordito, non dava
nessun ordine. La moltitudine, che le guardie avevan tentato in vano
di respingere, precedeva, circondava, seguiva le carrozze, gridando:
«la va via la carestia, va via il sangue de' poveri,» e peggio. Quando
furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mattoni,
torsoli, bucce d'ogni sorte, la munizione solita in somma di quelle
spedizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un'ultima
scarica sulle carrozze che uscivano. Subito dopo si sbandarono.
In luogo di don Gonzalo, fu mandato il marchese Ambrogio Spinola,
il cui nome aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella
celebrità militare che ancor gli rimane.
Intanto l'esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte
Rambaldo di Collalto, altro condottiere italiano, di minore, ma
non d'ultima fama, aveva ricevuto l'ordine definitivo di portarsi
all'impresa di Mantova; e nel mese di settembre, entrò nel ducato di
Milano.
La milizia, a que' tempi, era ancor composta in gran parte di soldati
di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di
questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto,
e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli
uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da
tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale
non ce n'era; nè avrebbe potuto accordarsi così facilmente con
l'autorità in parte indipendente de' vari condottieri. Questi poi in
particolare, nè erano molto raffinatori in fatto di disciplina, nè,
anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e
a mantenerla; chè soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati
contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d'abolire
il saccheggio; o per lo meno, l'avrebbero lasciato solo a guardar le
bandiere. Oltre di ciò, siccome i principi, nel prendere, per dir così,
ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per
assicurar l'imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di
pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe venivano per lo più
tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de' paesi a cui la toccava, ne
divenivano come un supplimento tacitamente convenuto. È celebre, poco
meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile
mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila.
E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che,
sotto il suo comando, aveva desolata la Germania, in quella guerra
celebre tra le guerre, e per sè e per i suoi effetti, che ricevette
poi il nome da' trent'anni della sua durata: e allora ne correva
l'undecimo. C'era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio
reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato
sotto di lui, e ci si trovava più d'uno di quelli che, quattr'anni
dopo, dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa.
Eran vent'otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla
Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il
corso che fa l'Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume
fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da
costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.
Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi
quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri
rimanevano, o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar
la casa dall'incendio, o per tener d'occhio cose preziose nascoste,
sotterrate; altri perchè non avean nulla da perdere, o anche facevan
conto d'acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della
fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li
metteva a sacco addirittura: ciò che c'era da godere o da portar via,
spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili
diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle
ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l'astuzie per salvar
la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni
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