I promessi sposi. - 42

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e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S'aggiunga che,
fin dall'anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal
re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch'erano scappati da
Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti
velenosi, pestiferi: stesse all'erta, se mai coloro fossero capitati
a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al
tribunale della sanità; nè, per allora, pare che ci si badasse più che
tanto. Però scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti
quell'avviso potè servir di conferma al sospetto indeterminato d'una
frode scellerata; potè anche essere la prima occasione di farlo nascere.
Ma due fatti, l'una di cieca e indisciplinata paura, l'altro di non
so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto
indeterminato d'un attentato possibile, in sospetto, e per molti in
certezza, d'un attentato positivo, e d'una trama reale. Alcuni, ai
quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo
andare ungendo un assito, che serviva a dividere gli spazi assegnati
a' due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l'assito
e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente
della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell'ufizio,
avendo visitato l'assito, le panche, le pile dell'acqua benedetta,
senza trovar nulla che potesse confermare l'ignorante sospetto d'un
attentato venefico, avesse, per compiacere all'immaginazioni altrui,
e _più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno_, avesse,
dico, deciso che bastava dar una lavata all'assito. Quel volume di
roba accatastata produsse una grand'impressione di spavento nella
moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento.
Si disse e si credette generalmente che fossero state unte in duomo
tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane. Nè si disse
soltanto allora: tutte le memorie de' contemporanei che parlano di quel
fatto (alcune scritte molt'anni dopo), ne parlano con ugual sicurezza:
e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se non si
trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore, che
si conserva nell'archivio detto di san Fedele; dalla quale l'abbiamo
cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo.
La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo
colpì gli occhi e le menti de' cittadini. In ogni parte della città,
si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti,
intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi
come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere
uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo
disegno d'accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro;
la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole
l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d'alcuni: fatto, del
resto, che non sarebbe stato, nè il primo nè l'ultimo di tal genere.
Il Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell'unzioni, deride,
e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma d'aver veduto
quell'impiastramento e lo descrive[30]. Nella lettera sopraccitata, i
signori della Sanità raccontan la cosa ne' medesimi termini; parlan di
visite, d'esperimenti fatti con quella materia sopra de' cani, e senza
cattivo effetto: aggiungono, esser loro opinione, _che cotale temerità
sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato_: pensiero
che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d'animo bastante per
non vedere ciò che non ci fosse stato. L'altre memorie contemporanee,
raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime,
opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna
parla di nessuno che la negasse; e n'avrebbero parlato certamente, se
ce ne fosse stati; se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto
che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi
particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d'un
celebre delirio; perchè, negli errori e massime negli errori di molti,
ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia
appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i modi con cui hanno
potuto entrar nelle menti, e dominarle.
[30] .... et nos quoque ivimus visere. Maculæ erant sparsim
inæqualiterque manantes, veluti si quis haustam spongia saniem
adspersisset, impressissetive parieti: et ianuæ passim, ostiaque ædium
eadem adspergine contaminata cernebantur. Pag. 75.
La città già agitata ne fa sottosopra: i padroni delle case, con paglia
accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano,
guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo
solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano
arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si
fecero interrogatòri, esami d'arrestati, d'arrestatori, di testimoni;
non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare,
d'esaminare, d'intendere. Il tribunale della sanità pubblicò una
grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in
chiaro l'autore o gli autori del fatto. _Ad ogni modo non parendoci
conueniente_, dicono que' signori nella citata lettera, che porta la
data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno
segnato nella grida stampata, _che questo delitto in qualsiuoglia modo
resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per
consolatone e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto,
habbiamo oggi publicata grida, etc._ Nella grida stessa però, nessun
cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura,
che partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una
preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto
più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa.
Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan
già trovato. Coloro che credevano esser quella un'unzione velenosa,
chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de
Cordova, per gl'insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato
del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza
fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore
il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell'altro gentiluomo
milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano
in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l'attribuivano a
scolari, a signori, a ufiziali che s'annoiassero all'assedio di Casale.
Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un
infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel
primo spavento s'andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o
paresse messa in oblio.
C'era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che
questa peste ci fosse. E perchè, tanto nel lazzeretto, come per la
città, alcuni pur ne guarivano, «si diceua,» (gli ultimi argomenti
d'una opinione battuta dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi)
«si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non
essere vera peste, perchè tutti sarebbero morti[31].» Per levare ogni
dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato
al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano
richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano
i cittadini di concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di Porta
Orientale, a pregar per i morti dell'altro contagio, ch'eran sepolti
là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di
spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel
giorno morta di peste, tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del
maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a
piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità,
condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinchè la
folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza.
Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il
carro; un lungo mormorío regnava dove era passato; un altro mormorío lo
precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi
fede da sè, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dovè
servir poco a propagarla.
[31] Tadino, pag. 93.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto:
proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali:
l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste;
vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una
cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste
senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea,
l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea
espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d'esser molto versato nella storia dell'idee
e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per
grazia del cielo, che non sono molte quelle d'una tal sorte, e d'una
tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e
alle quali si possano attaccare accessôri d'un tal genere. Si potrebbe
però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran
parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo
proposto da tanto tempo, d'osservare, ascoltare, paragonare, pensare,
prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte
quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo
un po' da compatire.


CAPITOLO XXXII.

Divenendo sempre più difficile il supplire all'esigenze dolorose
della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio
de' decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono
spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e
le strettezze della città: le spese enormi, le casse vôte, le rendite
degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la
miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in
ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini
non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della
peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576, avere
il governatore, marchese d'Ayamonte, non solo sospese tutte le
imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta
mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose:
che l'imposizioni fossero sospese, come allora s'era fatto; la Camera
desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della
città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari
il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta
condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi
nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma
sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que' signori: questo
essere il tempo di spendere senza risparmio, d'ingegnarsi in ogni
maniera. In quanto alle richieste espresse, _proueeré en el mejor
modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren_. E sotto,
un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue
promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta
era stata letta dai decurioni, _con gran desconsuelo_; ci furono altre
andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a
più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il
governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer
medesimo, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale,
sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de'
soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio,
tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte
della Romagna; dopo aver desolati, come s'è visto di sopra, i luoghi
per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il
sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per
escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire
che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato,
della rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla
altre terre, della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato
a parte e segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedè
Pinerolo alla Francia: trattato eseguito qualche tempo dopo, sott'altri
pretesti, e a furia di furberie.
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un'altra:
di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione
solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella
fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse
corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo[32].
Temeva di più, che, _se pur c'era di questi untori_, la processione
fosse un'occasion troppo comoda al delitto: _se non ce n'era_, il
radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio:
_pericolo ben più reale_[33]. Chè il sospetto sopito dell'unzioni s'era
intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.
[32] Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal
contaggioso l'anno 1630, ec. raccolte da D. Pio la Croce, Milano, 1730.
È tratta evidentemente da scritto inedito d'autore vissuto al tempo
della pestilenza: se pure non è una semplice edizione, piuttosto che
una nuova compilazione.
[33] Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent... Si non
essent... Certiusque adeo malum. Ripamonti, pag. 185.
S'era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte
muraglie, porte d'edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove
di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che
mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l'effetto del
vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de' mali,
irritati dall'insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri
quella credenza: chè la collera aspira a punire: e, come osservò
acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno[34], le piace
più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far
le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non
ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo,
penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza,
e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva
composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia
d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie
sapessero trovar di sozzo e d'atroce. Vi s'aggiunsero poi le malíe,
per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva
la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s'eran
veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perchè; era
stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l'arte era
perfezionata, e le volontà più accanite nell'infernale proposito. Ormai
chi avesse sostenuto ancora ch'era stata una burla, chi avesse negata
l'esistenza d'una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non
cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero l'attenzion
del pubblico, di complice, d'_untore_: il vocabolo fu ben presto
comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero
untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi
stavano all'erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva
facilmente certezza, la certezza furore.
[34] P. Verri. Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani
d'economia politica; parte moderna, tom. 17, pag. 203.
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d'averli scelti,
non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perchè
dell'uno e dell'altro era stato pur troppo testimonio.
Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un
vecchio più che ottuagenario dopo aver pregato alquanto inginocchioni,
volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca.
«Quel vecchio unge le panche!» gridarono a una voce alcune donne che
vider l'atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu
addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com'erano; lo
carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori;
se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione,
ai giudici, alle torture. «Io lo vidi mentre lo strascinavan così,»
dice il Ripamonti: «e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia
potuto sopravvivere più di qualche momento.»
L'altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non
ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un
pittore, un meccanico, venuti per veder l'Italia, per istudiarvi le
antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s'erano accostati
a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando
attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un
altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a
tener d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce,
accusavano di stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi. Come per
accertarsi ch'era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono
circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle
carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal
duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e
rilasciati.
Nè tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s'era propagata
come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de' contadini,
fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in
qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si
trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano
untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d'un ragazzo, si
sonava a martello, s'accorreva; gl'infelici eran tempestati di pietre,
o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il
Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto
di salvamento.
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato,
andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava
rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di
convincerli; questo è quello che potè il senno d'un uomo, contro la
forza de' tempi, e l'insistenza di molti. In quello stato d'opinioni,
con l'idea del pericolo, confusa com'era allora, contrastata, ben
lontana dall'evidenza che ci si trova ora non è difficile a capire come
le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate
dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non
avesse parte un po' di debolezza della volontà, sono misteri del
cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto
l'errore all'intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti
di que' pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de'
quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a
interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell'istanze, cedette
egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì
di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov'eran
rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto
giorni, sull'altar maggiore del duomo.
Non trovo che il tribunale della sanità, nè altri, facessero
rimostranza nè opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale
suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo,
ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l'entrata
delle persone in città; e, per assicurarne l'esecuzione, fece star
chiuse le porte: come pure, a fine d'escludere, per quanto fosse
possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar
gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in
un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d'uno scrittore, e
d'uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento[35].
[35] Alleggiamento dello Stato di Milano, etc. di G. C. Cavatio della
Somaglia. Milano, 1653, pag. 482.
Tre giorni furono spesi in preparativi: l'undici di giugno, ch'era il
giorno stabilito, la processione uscì, sull'alba, dal duomo. Andava
dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il
volto d'ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi
l'arti, precedute da' loro gonfaloni, le confraternite, in abiti
vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare,
ognuno con l'insegne del grado, e con una candela o un torcetto in
mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor
più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa,
portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano
ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito
di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme
mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio
dell'antico sembiante, quale lo rappresentano l'immagini, quale alcuni
si ricordavan d'averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del
morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo
questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di
dignità, così ora anche di persona, veniva l'arcivescovo Federigo.
Seguiva l'altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di
maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come
a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza,
abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con
torcetti. Finalmente una coda d'altro popolo misto.
Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le
suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state
ornate da de' vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di
parati, dove sopra i parati, c'eran de' rami fronzuti; da ogni parte
pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su' davanzali delle finestre
stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A
molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione,
e l'accompagnavano con le loro preci. L'altre strade, mute, deserte;
se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l'orecchio al ronzío
vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran
saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il
corteggio, qualche cosa.
La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di
que' crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne'
borghi, e che allora serbavano l'antico nome di _carrobi_, ora rimasto
a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce
che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e
delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in
duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella
presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la
processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni
classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così
subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione,
nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un
pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per
tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti,
attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che
gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio
disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col
loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva
un mezzo bastante, nè appropriato a una mortalità così vasta, e così
diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era
stato possibile all'occhio così attento, e pur così travedente, del
sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su' muri, nè
altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell'altro
ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune
d'Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri
tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate,
si fossero attaccate agli strascichi de' vestiti, e tanto più ai
piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi.
«Vide pertanto,» dice uno scrittore contemporaneo[36], «l'istesso giorno
della processione, la pietà cozzar con l'empietà, la perfidia con la
sincerità, la perdita con l'acquisto.» Ed era in vece il povero senno
umano che cozzava co' fantasmi creati da sè.
[36] Agostino Lampugnano. La pestilenza seguita in Milano, l'anno 1630.
Milano, 1634, pag. 44.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco
tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la
popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò
da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò
fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un'altra lettera de'
conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera
oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo
il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più
di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche
afferma che, «per le diligenze fatte,» dopo la peste, si trovò la
popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime,
e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti,
era di sole dugento mila: de' morti, dice che ne risulta cento quaranta
mila da' registri civici, oltre quelli di cui non si potè tener conto.
Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.
Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai
quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di
riparare a ciò che c'era di riparabile in un tal disastro. Bisognava
ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di
varie specie: _monatti_, _apparitori_, commissari. I primi erano
addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar
dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui
carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto
gl'infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta.
Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco _monos_; Gaspare
Bugatti (in una descrizion della peste antecedente), dal latino
_monere_; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca,
per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne'
Grigioni. Nè sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del
vocabolo _monathlich_ (mensuale); giacchè, nell'incertezza di quanto
potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che
di mese in mese. L'impiego speciale degli apparitori era di precedere
i carri, avvertendo, col suono d'un campanello, i passeggieri, che si
ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli
ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito
il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di
tutti gli attrezzi d'infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo
alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero
a quest'effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello
spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne,
cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone.
E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano;
ma, per mancanza di mezzi d'ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi,
le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno
cresceva.
E non solo l'esecuzione rimaneva sempre addietro de' progetti e degli
ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si
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