I promessi sposi. - 15

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al guardiano che s'avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce:
«veramente, attesa la scarsezza dell'annate, non si pensava di
sostituir nessuno a quella giovine; ma parlerò io alla madre badessa, e
una mia parola.... e per una premura del padre guardiano.... In somma
do la cosa per fatta.»
Il guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l'interruppe: «non
occorron cerimonie: anch'io, in un caso, in un bisogno, saprei far
capitale dell'assistenza de' padri cappuccini. Alla fine,» continuò,
con un sorriso, nel quale traspariva un non so che d'ironico e d'amaro,
«alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?»
Così detto, chiamò una conversa, (due di queste erano, per una
distinzione singolare, assegnate al suo servizio privato) e le
ordinò che avvertisse di ciò la badessa, e prendesse poi i concerti
opportuni, con la fattoressa e con Agnese. Licenziò questa, accommiatò
il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla
porta, dandole nuove istruzioni, e se n'andò a scriver la lettera
di ragguaglio all'amico Cristoforo.--Gran cervellino che è questa
signora!--pensava tra sè, per la strada:--curiosa davvero! Ma chi la sa
prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo
non s'aspetterà certamente ch'io l'abbia servito così presto e bene.
Quel brav'uomo! non c'è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche
impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato
un amico, il quale, senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza
tante faccende, ha condotto l'affare a buon porto, in un batter
d'occhio. Sarà contento quel buon Cristoforo, e s'accorgerà che, anche
noi qui, siam buoni a qualche cosa.--
La signora, che, alla presenza d'un provetto cappuccino, aveva studiati
gli atti e le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina
inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi
divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi
crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente
di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione
dell'insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far
comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
Era essa l'ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese,
che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l'alta opinione
che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena
sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo
pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo,
per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non
lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al
chiostro tutti i cadetti dell'uno e dell'altro sesso, per lasciare
intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia,
a procrear cioè de' figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella
stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della
madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita.
Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca;
decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua
presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle
un nome che risvegliasse immediatamente l'idea del chiostro, e che
fosse stato portato da una santa d'alti natali, la chiamò Gertrude.
Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero
in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que' regali eran
sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto,
come cosa preziosa, e con quell'interrogare affermativo: «bello eh?»
Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de'
maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l'aspetto prosperoso
della fanciullina, pareva che non trovasser modo d'esprimer bene la
loro idea, se non con le parole: «che madre badessa!» Nessuno però le
disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un'idea sottintesa
e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi
destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche
atto un po' arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava
molto facilmente, «tu sei una ragazzina,» le si diceva: «queste maniere
non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai
a bacchetta, farai alto e basso.» Qualche altra volta il principe,
riprendendola di cert'altre maniere troppo libere e famigliari alle
quali essa trascorreva con uguale facilità, «ehi! ehi!» le diceva;
«non è questo il fare d'una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti
il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d'ora a star sopra di te:
ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero;
perchè il sangue si porta per tutto dove si va.»
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della
fanciullina l'idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che
venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l'altre
insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d'un padrone
austero; ma quando si trattava dello stato futuro de' suoi figli, dal
suo volto e da ogni sua parola traspariva un'immobilità di risoluzione,
una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d'una
necessità fatale.
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per
istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l'abbiamo
veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore
delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in
Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre
indicazioni che l'anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi
potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque
sia, vi godeva d'una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che
altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con
quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero
per sua perpetua dimora. Nè s'ingannava: la badessa e alcune altre
monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in
mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d'una protezione tanto
utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la
proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto
fossero forti; e corrisposero pienamente all'intenzioni che il principe
aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola:
intenzioni che andavan così d'accordo con le loro. Gertrude, appena
entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina;
posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta
all'altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con
quella famigliarità un po' rispettosa, che tanto adesca i fanciulli,
quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli
con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache
fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio: ce n'eran molte
delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di
sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo;
ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte
non s'accorgevan bene di tutti que' maneggi, parte non distinguevano
quanto vi fosse di cattivo, parte s'astenevano dal farvi sopra esame,
parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna
anche, rammentandosi d'essere stata, con simili arti, condotta a
quello di cui s'era pentita poi, sentiva compassione della povera
innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche:
ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero;
e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla
fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma,
tra le sue compagne d'educazione, ce n'erano alcune che sapevano
d'esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della
sua superiorità, parlava magnificamente de' suoi destini futuri di
badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser
per le altre un soggetto d'invidia; e vedeva con maraviglia e con
dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. All'immagini
maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato
in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti di
nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora,
di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono
nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichío che produrrebbe
un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I
parenti e l'educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità
naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu
stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con
un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto
di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo
nuovo genio, rispondeva che, alla fin de' conti, nessuno le poteva
mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva
maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte
loro; che lo poteva, pur che l'avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo
voleva; e lo voleva in fatti. L'idea della necessità del suo consenso,
idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata
in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con
tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per
godersi più tranquillamente l'immagini d'un avvenire gradito. Dietro
quest'idea però, ne compariva sempre infallibilmente un'altra: che
quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo
teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l'animo
della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue
parole. Si paragonava allora con le compagne, ch'erano ben altrimenti
sicure, e provava per esse dolorosamente l'invidia che, da principio,
aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta
l'odio s'esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti;
talvolta l'uniformità dell'inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e
faceva nascere un'intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta,
volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si
compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire
all'altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar
la solitudine de' suoi timori e de' suoi desidèri, andava, tutta
buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli,
coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sè e con gli altri,
aveva varcata la puerizia, e s'inoltrava in quell'età così critica,
nella quale par che entri nell'animo quasi una potenza misteriosa, che
solleva, adorna, rinvigorisce tutte l'inclinazioni, tutte l'idee, e
qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò
che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que'
sogni dell'avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so
che di molle e d'affettuoso, che da prima v'era diffuso leggermente
e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle
sue fantasie. S'era fatto, nella parte più riposta della mente, come
uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi
accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie
della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di
ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con
essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e
riceveva omaggi d'ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della
religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma
la religione, come l'avevano insegnata alla nostra poveretta, e come
essa l'aveva ricevuta, non bandiva l'orgoglio, anzi lo santificava e
lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata
così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come
l'altre. Negl'intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto,
e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l'infelice, sopraffatta da
terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s'immaginava
che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all'insinuazioni
de' suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e
prometteva in cuor suo d'espiarla, chiudendosi volontariamente nel
chiostro.
Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima
d'essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario
delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinchè fosse certo
che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver
luogo, se non un anno dopo ch'ella avesse esposto a quel vicario il
suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevan
preso il tristo incarico di far che Gertrude s'obbligasse per sempre,
con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de'
momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una
tal supplica. E a fine d'indurla più facilmente a ciò, non mancaron di
dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale
(e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti
posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la
supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s'era
già pentita d'averla sottoscritta. Si pentiva poi d'essersi pentita,
passando così i giorni e i mesi in un'incessante vicenda di sentimenti
contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per
timore d'esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per
vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio
di sfogar l'animo, e d'accattar consiglio e coraggio. C'era un'altra
legge, che una giovine non fosse ammessa a quell'esame della vocazione,
se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove
era stata in educazione. Era già scorso l'anno da che la supplica era
stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal
monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e
far tutti i passi necessari al compimento dell'opera che aveva di fatto
cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò
per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt'altro
in testa: in vece di far gli altri passi, pensava alla maniera di
tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d'aprirsi
con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar
consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d'informar con una lettera
il padre della sua nuova risoluzione; giacchè non le bastava l'animo
di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri
gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar
questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera
fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e
fatta ricapitare per via d'artifizi molto studiati. Gertrude stava con
grand'ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che,
alcuni giorni dopo, la badessa la fece venir nella sua cella, e, con un
contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno
oscuro d'una gran collera del principe, e d'un fallo ch'ella doveva
aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva
sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò
domandar più in là.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude
sapesse che andava a un combattimento, pure l'uscir di monastero,
il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott'anni rinchiusa, lo
scorrere in carrozza per l'aperta campagna, il riveder la città, la
casa, furon sensazioni piene d'una gioia tumultuosa. In quanto al
combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti,
aveva già prese le sue misure, e fatto, com'ora si direbbe, il suo
piano.--O mi vorranno forzare,--pensava,--e io starò dura; sarò umile,
rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro
sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più
buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente
non pretendo altro che di non esser sacrificata.--Ma, come accade
spesso di simili previdenze, non avvenne nè una cosa nè l'altra.
I giorni passavano, senza che il padre nè altri le parlasse della
supplica, nè della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta
nessuna, nè con carezze, nè con minacce. I parenti eran seri, tristi,
burberi con lei, senza mai dirne il perchè. Si vedeva solamente che
la riguardavano come una rea, come un'indegna: un anatema misterioso
pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia,
lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la
sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa
alla compagnia de' parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva
che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e
più doloroso l'abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le
rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche
parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva
corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che
se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione,
insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po' d'amore,
si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto
della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c'era
un mezzo di riacquistar l'affetto della famiglia. Allora Gertrude, che
non l'avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi
indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva
tanto desiderati, di rimettersi da sè al suo posto di scomunicata; e
per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto.
Tali sensazioni d'oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con
quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s'era già tanto occupata,
e s'occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che,
nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere
almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del
tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero;
d'andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa,
guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l'unica necessità
che ci sarebbe stata d'uscire. La compagnia era più trista, più
scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d'una visita,
Gertrude doveva salire all'ultimo piano, per chiudersi con alcune
vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c'era invito. I
servitori s'uniformavano, nelle maniere e ne' discorsi, all'esempio
e all'intenzioni de' padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione,
avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello
stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero
qualche dimostrazione d'affetto, come a una loro pari, e scendeva anche
a mendicarne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi
corrisposta con una noncuranza manifesta, benchè accompagnata da un
leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio,
ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una
compassione d'un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto
era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a
quell'ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al
contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non
so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e
un'inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche
cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar
vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è
che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre
stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto
meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase
nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe.
Il terrore di Gertrude, al rumor de' passi di lui, non si può
descrivere nè immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si
sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire con quel cipiglio, con
quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra,
non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il
gastigo intimato subito non fu che d'esser rinchiusa in quella camera,
sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo
non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva,
si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e
quindi più spaventoso.
Il paggio fu subito sfrattato, com'era naturale; e fu minacciato anche
a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato
fiatar nulla dell'avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe
gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell'avventura un
ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene.
Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio,
non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch'era
incomodata.
Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col
terrore dell'avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata
da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua
disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si
trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di
carceriera, e divenuta per sempre custode d'un segreto pericoloso.
Il primo confuso tumulto di que' sentimenti s'acquietò a poco a poco;
ma tornando essi poi a uno per volta nell'animo, vi s'ingrandivano, e
si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell'agio. Che poteva
mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane
se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude.
Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero
di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di
colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con
quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di
dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l'apprensione della
vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato,
passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate,
pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui
eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi
anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di
ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L'immagine di colui
ch'era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di
venire spesso anch'essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate
che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così
diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perchè non
poteva separarlo da essi, nè tornare un momento a quelle fuggitive
compiacenze, senza che subito non le s'affacciassero i dolori presenti
che n'erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di
rado, a respingerne la rimembranza, a divezzarsene. Nè più a lungo, o
più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d'una
volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità
dell'avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare
un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era
il monastero, quando si risolvesse d'entrarci per sempre. Una tal
risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa,
saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro
questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita:
ma i tempi eran mutati; e, nell'abisso in cui Gertrude era caduta, e
al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione
di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino.
Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a
scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e
una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l'orgoglio amareggiato
e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire
il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel
minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva
mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora
dell'insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude
sentiva d'uscir dall'unghie di colei, e di comparirle in uno stato al
di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale
diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che
potesse condurre ad appagarlo.
In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina,
Gertrude stuccata e invelenita all'eccesso, per un di que' dispetti
della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì,
con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la
sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di
sentire altre parole, d'esser trattata diversamente. Pensò al padre,
alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in
mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò
una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento
straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d'espiarlo. Non già
che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non
c'era entrata con tanto ardore. S'alzò di lì, andò a un tavolino,
riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena
d'entusiasmo e d'abbattimento, d'afflizione e di speranza, implorando
il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che
potesse piacere a chi doveva accordarlo.


CAPITOLO X.

Vi son de' momenti in cui l'animo, particolarmente de' giovani, è
disposto in maniera che ogni poco d'istanza basta a ottenerne ogni
cosa che abbia un'apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore
appena sbocciato, s'abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto
a concedere le sue fragranze alla prim'aria che gli aliti punto
d'intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con
timido rispetto, son quelli appunto che l'astuzia interessata spia
attentamente e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio
aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che
venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentr'era
caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre,
gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire:
«perdono!» Egli le fece cenno che s'alzasse; ma, con una voce poco
atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo
nè chiederlo; ch'era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque
sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava
meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa
dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo
momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a
parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano
sull'animo della poveretta, come lo scorrere d'una mano ruvida sur una
ferita. Continuò dicendo che, quand'anche.... caso mai.... che avesse
avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa
ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacchè a un cavalier
d'onore, com'era lui, non sarebbe mai bastato l'animo di regalare a un
galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sè. La misera
ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a
grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c'era
rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio
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