I promessi sposi. - 26

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nello stesso tempo, sarebbe cresciuto l'odio pubblico, e scemata la
riputazion del potere? dove sul viso d'ogni mascalzone, anche in mezzo
agl'inchini, si potrebbe leggere un amaro: l'hai ingoiata, ci ho gusto?
La strada dell'iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo
non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi
scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benchè vada all'ingiù.
[Illustrazione: ....fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere
l'obbedienza.... (pag. 283)]
A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, nè dare addietro, nè
fermarsi, e non poteva andare avanti da sè, veniva bensì in mente un
mezzo con cui potrebbe: ed era di chieder l'aiuto d'un tale, le cui
mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un
uomo o un diavolo, per cui la difficoltà dell'imprese era spesso uno
stimolo a prenderle sopra di sè. Ma questo partito aveva anche i suoi
inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno si potevano
calcolar prima; giacchè nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove
anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell'uomo, potente
ausiliario certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.
Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no,
l'uno e l'altro più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino,
la quale diceva che la trama era ben avviata. Poco dopo il baleno,
scoppiò il tuono; vale a dire che, una bella mattina, si sentì che il
padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico. Questo buon
successo così pronto, la lettera d'Attilio che faceva un gran coraggio,
e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più don
Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l'ultima spinta, fu la
notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento
di meno vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti,
cominciando dall'ultimo.
Le due povere donne s'erano appena accomodate nel loro ricovero, che
si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova
di quel gran fracasso di Milano; e dietro alla nuova grande, una serie
infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ogni
momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva tenere un orecchio
alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui, notizie
di lì, e ne faceva parte all'ospiti. «Due, sei, otto, quattro, sette
ne hanno messi in prigione; gl'impiccheranno, parte davanti al forno
_delle grucce_, parte in cima alla strada dove c'è la casa del vicario
di provvisione.... Ehi, ehi, sentite questa! n'è scappato uno, che è di
Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che
me lo saprà dire; per veder se lo conoscete.»
Quest'annunzio, con la circostanza d'esser Renzo appunto arrivato in
Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e
principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne
a dir loro: «è proprio del vostro paese quello che se l'è battuta, per
non essere impiccato: un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo
conoscete?»
A Lucia, ch'era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro
di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se
ne sarebbe avvista certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era
ritta sulla soglia con Agnese; la quale, conturbata anche lei, però
non tanto, potè star forte; e, per risponder qualcosa, disse che, in
un piccolo paese, tutti si conoscono, e che lo conosceva; ma che non
sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una cosa simile;
perchè era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di certo, e
dove.
«Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che
l'acchiappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna
sotto l'unghie, il vostro giovine posato....»
Qui, per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n'andò:
figuratevi come rimanessero la madre e la figlia. Più d'un giorno,
dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale
incertezza, a mulinare sul come, sul perchè, sulle conseguenze di quel
fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sè, o sottovoce tra loro,
quando potevano, quelle terribili parole.
Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d'Agnese.
Era un pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo
l'ordinario, a spacciarla sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo
l'aveva pregato che, passando per Monza, facesse una scappata al
monastero, salutasse le donne da parte sua, raccontasse loro quel che
si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse loro d'aver pazienza,
e confidare in Dio; e che lui povero frate non si dimenticherebbe
certamente di loro, e spierebbe l'occasione di poterle aiutare; e
intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue
nuove, per quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non
seppe dir altro di nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa,
e le ricerche per averlo nelle mani; ma insieme ch'erano andate tutte a
vôto, e si sapeva di certo che s'era messo in salvo sul bergamasco. Una
tale certezza, e non fa bisogno di dirlo, fu un gran balsamo per Lucia:
d'allora in poi le sue lacrime scorsero più facili e più dolci; provò
maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue
preghiere, c'era mescolato un ringraziamento.
Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e
la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi dell'ingenuità e
della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire
ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la
parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar
lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s'andava
cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che
sufficienti a spiegar ciò che c'era d'un po' strano nelle maniere della
sua benefattrice; tanto più con l'aiuto di quella dottrina d'Agnese
su' cervelli de' signori. Per quanto però si sentisse portata a
contraccambiare la confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò
neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua
nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel filatore scappato; per non
rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si
schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di
quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non eran ragioni
di prudenza. Era perchè alla povera innocente quella storia pareva
più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva
sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c'era
tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si
potevan nominare: nella sua c'era mescolato per tutto un sentimento,
una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sè; e
alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non
le paresse sfacciata: l'amore!
Qualche volta, Gertrude quasi s'indispettiva di quello star così sulle
difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta
riconoscenza, e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore
così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro
verso; ma tutto si perdeva nella soavità d'un pensiero che le tornava
ogni momento, guardando Lucia:--a questa fo del bene.--Ed era vero;
perchè, oltre il ricovero, que' discorsi, quelle carezze famigliari
erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar
di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche
nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in
esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo,
cucendo, ch'era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in
mente il suo aspo; e dietro all'aspo, quante cose!
Il secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co' saluti
del padre Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo.
Notizie più positive intorno a' suoi guai, nessuna; perchè, come
abbiam detto al lettore, il cappuccino aveva sperato d'averle dal suo
confratello di Milano, a cui l'aveva raccomandato; e questo rispose
di non aver veduto nè la persona, nè la lettera; che uno di campagna
era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non avendocelo
trovato, era andato via, e non era più comparso.
Il terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu
non solo una privazione d'un conforto desiderato e sperato, ma, come
accade per ogni piccola cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione
d'inquietudine, di cento sospetti molesti. Già prima d'allora, Agnese
aveva pensato a fare una scappata a casa; questa novità di non vedere
l'ambasciatore promesso, la fece risolvere. Per Lucia era una faccenda
seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania
di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell'asilo così
guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra loro
che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada
il pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli
chiederebbe in cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a'
suoi monti. Lo trovò infatti, gli domandò se il padre Cristoforo non
gli aveva data qualche commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il
giorno avanti la sua partenza era stato a pescare, e non aveva saputo
niente del padre. La donna non ebbe bisogno di pregare, per ottenere il
piacere che desiderava: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non
senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e di tornar
presto; e partì.
Nel viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della
notte in un'osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e
arrivaron di buon'ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del
convento, lasciò andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda
merito; e giacchè era lì, volle, prima d'andare a casa, vedere il suo
buon frate benefattore. Sonò il campanello; chi venne a aprire, fu fra
Galdino, quel delle noci.
«Oh! la mia donna, che vento v'ha portata?»
«Vengo a cercare il padre Cristoforo.»
«Il padre Cristoforo? Non c'è.»
«Oh! starà molto a tornare?»
«Ma...?» disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio
la testa rasa.
«Dov'è andato?»
«A Rimini.»
«A?»
«A Rimini.»
«Dov'è questo paese?»
«Eh eh eh!» rispose il frate, trinciando verticalmente l'aria con la
mano distesa, per significare una gran distanza.
«Oh povera me! Ma perchè è andato via così all'improvviso?»
«Perchè ha voluto così il padre provinciale.»
«E perchè mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore!»
«Se i superiori dovessero render conto degli ordini che danno, dove
sarebbe l'ubbidienza, la mia donna?»
«Sì; ma questa è la mia rovina.»
«Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d'un buon
predicatore; (ce n'abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell'uomo
fatto apposta) il padre provinciale di là avrà scritto al padre
provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre
provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Dev'esser
proprio così, vedete.»
«Oh poveri noi! Quand'è partito?»
«Jerlaltro.»
«Ecco! s'io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno
prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso?»
«Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui.
Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può
prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercan di qua, li
cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo.
Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo faccia un gran fracasso
col suo quaresimale: perchè non predica sempre a braccio, come faceva
qui, per i pescatori e i contadini: per i pulpiti delle città, ha le
sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da
quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da....
da che so io? E allora, bisogna mandarlo; perchè noi viviamo della
carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo.»
«Oh Signore! Signore!» esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: «come
devo fare, senza quell'uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi
è una rovina.»
«Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma
ce n'abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che
sanno trattare ugualmente co' signori e co' poveri. Volete il padre
Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo
di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno
certi ignoranti, che sia così mingherlino, con una vocina fessa, e una
barbetta misera misera: non dico per predicare, perchè ognuno ha i suoi
doni; ma per dar pareri, è un uomo, sapete?»
«Oh per carità!» esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e
d'impazienza, che si prova a un'esibizione in cui si trovi più la buona
volontà altrui, che la propria convenienza: «cosa m'importa a me che
uomo sia o non sia un altro, quando quel pover'uomo che non c'è più,
era quello che sapeva le nostre cose, e aveva preparato tutto per
aiutarci?»
«Allora, bisogna aver pazienza.»
«Questo lo so,» rispose Agnese: «scusate dell'incomodo.»
«Di che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di
cercar qualcheduno de' nostri padri, il convento è qui che non si move.
Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell'olio.»
«State bene,» disse Agnese; e s'incamminò verso il suo paesetto,
desolata, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto
il suo bastone.
Un po' meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò
veramente la cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva
promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio
segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di
toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo
uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporariamente il governo.)
Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un
certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri,
non c'era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo,
un restare a mezzo, uno stringer d'occhi che esprimeva: non posso
parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia;
tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in
pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare:
detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era
creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo
potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di
speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c'è nulla; ma servono
a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran
tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente
aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per
un'occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione
alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo
raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca l'aveva trattato
con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno
d'avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la
corte, come gli piacesse Madrid, e d'avergli un'altra volta detto a
quattr'occhi, nel vano d'una finestra, che il duomo di Milano era il
tempio più grande che fosse negli stati del re.
Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del
cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere
a tempo, disse: «credo di fare il mio dovere, senza mancare alla
confidenza di Rodrigo, avvertendo il signor zio d'un affare che,
se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle
conseguenze....»
«Qualcheduna delle sue, m'immagino.»
«Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio
cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c'è che il signore zio, che
possa....»
«Vediamo, vediamo.»
«C'è da quelle parti un frate cappuccino che l'ha con Rodrigo; e la
cosa è arrivata a un punto, che....»
«Quante volte v'ho detto, all'uno e all'altro, che i frati bisogna
lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che danno a chi
deve.... a chi tocca....» E qui soffiò. «Ma voi altri che potete
scansarli....»
«Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l'avrebbe
scansato, se avesse potuto. E il frate che l'ha con lui, che ha preso a
provocarlo in tutte le maniere....»
«Che diavolo ha codesto frate con mio nipote?»
«Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa
professione di prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che
so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una
carità.... non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa,
permalosa.»
«Intendo,» disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine,
dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani,
di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo
vedere.
«Ora, da qualche tempo,» continuò Attilio, «s'è cacciato in testa
questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa....»
«S'è cacciato in testa, s'è cacciato in testa: lo conosco anch'io il
signor don Rodrigo; e ci vuoi altro avvocato che vossignoria, per
giustificarlo in queste materie.»
«Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella
creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo:
è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da
non trattenerne il signor zio: il serio è che il frate s'è messo a
parlar di Rodrigo come si farebbe d'un mascalzone, cerca d'aizzargli
contro tutto il paese....»
«E gli altri frati?»
«Non se ne impicciano, perchè lo conoscono per una testa calda, e hanno
tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall'altra parte, questo frate ha un
gran credito presso i villani, perchè fa poi anche il santo, e....»
«M'immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.»
«Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.»
«Come? come?»
«Perchè, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a
Rodrigo, appunto perchè questo ha un protettor naturale, di tanta
autorità come vossignoria: e che lui se la ride de' grandi e de'
politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade,
e che....»
«Oh frate temerario! Come si chiama costui?»
«Fra Cristoforo da ***» disse Attilio; e il conte zio, preso da una
cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse,
soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: «è
sempre stato di quell'umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo
che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del
suo paese; e, per rabbia di non poterla vincere con tutti, ne ammazzò
uno: onde, per iscansar la forca, si fece frate.»
«Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo,» diceva il conte zio,
seguitando a soffiare.
«Ora poi,» continuava Attilio, «è più arrabbiato che mai, perchè gli
è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo
il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua
creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m'intende,
o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva
trovato il.... l'uomo: un'altra sua creatura, un soggetto, che, forse
e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perchè tengo
per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno
soggetto.»
«Chi è costui?»
«Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che....»
«Lorenzo Tramaglino!» esclamò il conte zio. «Ma bene! ma bravo, padre!
Sicuro.... in fatti.... aveva una lettera per un.... Peccato che.... Ma
non importa; va bene. E perchè il signor don Rodrigo non mi dice nulla
di tutto questo? perchè lascia andar le cose tant'avanti, e non si
rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere?»
«Dirò il vero anche in questo,» proseguiva Attilio. «Da una parte,
sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio....»
(questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran
fatica ch'era a farcele star tutte) «s'è fatto scrupolo di darle una
briga di più. E poi, dirò tutto: da quello che ho potuto capire, è così
irritato, così fuor de' gangheri, così stucco delle villanie di quel
frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sè, in qualche maniera
sommaria, che d'ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal
braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo che la
cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d'avvertir
di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della
casa....»
«Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.»
«È vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sè, o che il
frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n'anderebbe da quel
convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e
allora tutto sarebbe finito. Ma....»
«Ora toccherà a me a raccomodarla.»
«Così ho pensato anch'io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua
avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo,
e insieme salvar l'onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo
frate, dicevo io, l'ha sempre col cordone di san Francesco; ma per
adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario
d'averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha cento mezzi ch'io
non conosco: so che il padre provinciale ha, com'è giusto, una gran
deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso
il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due
parole....»
«Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria,» disse un po' ruvidamente
il conte zio.
«Ah è vero!» esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un
sogghigno di compassione per sè stesso. «Son io l'uomo da dar pareri al
signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che
mi fa parlare. E ho anche paura d'aver fatto un altro male,» soggiunse
con un'aria pensierosa: «ho paura d'aver fatto torto a Rodrigo nel
concetto del signore zio. Non mi darei pace, se fossi cagione di farle
pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella
sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è
proprio....»
«Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre
amici, finchè l'uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che
sempre ne fate una; e a me tocca di rattopparle: che.... mi fareste
dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che,» e qui
immaginatevi che soffio mise, «tutti questi benedetti affari di stato.»
Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche
complimento; poi si licenziò, e se n'andò, accompagnato da un «e
abbiamo giudizio,» ch'era la formola di commiato del conte zio per i
suoi nipoti.


CAPITOLO XIX.

Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un'erbaccia, per esempio un bel
lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel
campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello,
per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così
anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o
dall'insinuazione d'Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di
servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel
nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella
parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così
scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni
modo volle fargli balenar dinanzi l'idea di quel ripiego, e metterlo
sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall'altra parte, il ripiego
era talmente adattato all'umore del conte zio, talmente indicato dalle
circostanze, che, senza suggerimento di chi si sia, si può scommettere
che l'avrebbe trovato da sè. Si trattava che, in una guerra pur troppo
aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di sotto:
punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a
cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sè, sarebbe
stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava
impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che
partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e
quand'anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa
dinanzi a un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere,
non valevano contro un avversario di quella condizione: il clero
regolare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale;
non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso: come deve
sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che
starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era
cercar d'allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in
arbitrio del quale era l'andare e lo stare di quello.
Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un'antica
conoscenza: s'eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni
d'amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è
meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con
un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che
la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l'altro vede in un
tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose
da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento
parti.
Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre
provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con
un intendimento sopraffino. Qualche parente de' più titolati, di quelli
il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con
una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando
di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo
apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l'idea della
superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una
dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la
vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca,
con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il
corpo, con tutta l'anima, alle frutte v'avevan ridotto un uomo a non
ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema
di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per
tutte. Parlò della corte, del conte duca, de' ministri, della famiglia
del governatore, delle cacce del toro, che lui poteva descriver
benissimo, perchè le aveva godute da un posto distinto dell'Escuriale,
di cui poteva render conto a un puntino, perchè un creato del conte
duca l'aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la
compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise
in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di
quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era
accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede
una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di
dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch'era cappuccino,
e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte
zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire,
e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c'era soltanto i
personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il
padre provinciale di passar con lui in un'altra stanza.
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a
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