I promessi sposi. - 37

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scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere
le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni
affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel
maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il
bene bisogna, le più volte, farlo per forza. Dove il suo zelo poteva
esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in
tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorchè don Ferrante, col quale
le cose andavano in un modo affatto particolare.
Uomo di studio, non gli piaceva nè di comandare nè d'ubbidire. Che,
in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla
buon'ora; ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava a un'occorrenza
l'ufizio della penna, era perchè ci aveva il suo genio; del rimanente,
anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò
che lei voleva fargli scrivere. «La s'ingegni,» diceva in que' casi;
«faccia da sè, giacchè la cosa le par tanto chiara.» Donna Prassede,
dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal
lasciar fare al fare, s'era ristretta a brontolare spesso contro di
lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un
letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c'entrava anche un
po' di compiacenza.
Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una
raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta
roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in
ognuna delle quali era più o meno versato. Nell'astrologia, era
tenuto, e con ragione, per più che un dilettante; perchè non ne
possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel vocabolario comune,
d'influssi, d'aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito,
e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de' circoli
massimi, de' gradi lucidi e tenebrosi, d'esaltazione e di deiezione,
di transiti e di rivoluzioni, de' principi in somma più certi e più
reconditi della scienza. Ed eran forse vent'anni che, in dispute
frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un
altro dotto attaccato ferocemente a quella dell'Alcabizio, per mera
ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la
superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar
ragione a' moderni, anche dove l'hanno chiara che la vedrebbe ognuno.
Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva
a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar
sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a
vôto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non
l'aveva saputa adoprar bene.
Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n'andava
di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome
però que' sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti;
e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don
Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è nè
antico nè moderno; è il filosofo. Aveva anche varie opere de' più savi
e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de' suoi impugnatori
non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo, diceva; nè
comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo
nella sua libreria a que' celebri ventidue libri _De subtilitate_,
e a qualche altr'opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del
suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il
trattato _De restitutione temporum et motuum cælestium_, e il libro
_Duodecim geniturarum_, meritava d'essere ascoltato, anche quando
spropositava; e che il gran difetto di quell'uomo era stato d'aver
troppo ingegno; e che nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato,
anche in filosofia, se fosse stato sempre nella strada retta. Del
rimanente, quantunque, nel giudizio de' dotti, don Ferrante passasse
per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne
abbastanza; e più d'una volta disse, con gran modestia, che l'essenza,
gli universali, l'anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose
tanto chiare, quanto si potrebbe credere.
[Illustrazione: Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio....
pag. 399]
Della filosofia naturale s'era fatto più un passatempo che uno studio;
l'opere stesse d'Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le
aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura,
con le notizie raccolte incidentemente da' trattati di filosofia
generale, con qualche scorsa data alla _Magia naturale_ del Porta,
alle tre storie _lapidum_, _animalium_, _plantarum_, del Cardano, al
Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali, d'Alberto Magno,
a qualche altr'opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una
conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità
più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme
e l'abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la
salamandra stia nel fuoco senza bruciare; come la remora, quel
pesciolino, abbia la forza e l'abilità di fermare di punto in bianco,
in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada
diventin perle in seno delle conchiglie; come il camaleonte si cibi
d'aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l'andar de' secoli,
si formi il cristallo; e altri de' più maravigliosi segreti della
natura.
In quelli della magia e della stregoneria s'era internato di più,
trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più
necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza,
e più a mano, da poterli verificare. Non c'è bisogno di dire che, in
un tale studio, non aveva mai avuta altra mira che d'istruirsi e di
conoscere a fondo le pessime arti de' maliardi, per potersene guardare,
e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio
(l'uomo della scienza), era in grado di discorrere _ex professo_ del
maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e
dell'infinite specie che, pur troppo, dice ancora l'anonimo, si vedono
in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malíe, con
effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di
don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i
suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il
Guazzo, i più riputati in somma.
Ma cos'è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica?
Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la
strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica
senza la storia è uno che cammina senza guida. C'era dunque ne' suoi
scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti
di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano il Bodino, il
Cavalcanti, il Sansovino, il Parata, il Boccalini. Due però erano i
libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa
materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi,
senza mai potersi risolvere a qual de' due convenisse unicamente quel
grado: l'uno, il _Principe_ e i _Discorsi_ del celebre segretario
fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l'altro,
la _Ragion di Stato_ del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo
sì, diceva pure, ma acuto. Ma, poco prima del tempo nel quale è
circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il libro che terminò
la questione del primato, passando avanti anche all'opere di que' due
_matadori_, diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse
e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le
virtù, per poterle praticare; quel libro piccino, ma tutto d'oro; in
una parola, lo _Statista Regnante_ di don Valeriano Castiglione, di
quell'uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più gran letterati
lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi facevano a rubarselo; di
quell'uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifiche
lodi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, don Pietro di
Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V,
l'altro le guerre del re cattolico in Italia, l'uno e l'altro invano;
di quell'uomo, che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del
cardinal di Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo
Emanuele di Savoia conferì la stessa carica; in lode di cui, per
tralasciare altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina, figlia
del cristianissimo re Enrico IV, potè in un diploma, con molti altri
titoli, annoverare «la certezza della fama ch'egli ottiene in Italia,
di primo scrittore de' nostri tempi.»
Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi
addottrinato, una ce n'era in cui meritava e godeva il titolo di
professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero
possesso, ma pregato frequentemente d'intervenire in affari d'onore,
dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può
dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia:
Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei,
l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso,
di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria
tutti i passi della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che
possono far testo in materia di cavalleria. L'autore però degli autori,
nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si
trovò anche, più d'una volta, a dar giudizio sopra casi d'onore; e
il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima
particolare. E fin da quando venner fuori i _Discorsi Cavallereschi_
di quell'insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione,
che quest'opera avrebbe rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe
rimasta, insieme con l'altre sue nobili sorelle, come codice di
primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l'anonimo, che
ognun può vedere come si sia avverata.
Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare
se veramente il lettore abbia una gran voglia d'andar avanti con lui
in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo
di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con
l'anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in
cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente
non s'è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che
non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è
scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente,
per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da
percorrere, senza incontrare alcun de' nostri personaggi, e uno più
lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de' quali certamente il
lettore s'interessa di più, se a qualche cosa s'interessa in tutto
questo.
Fino all'autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per
volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam
lasciati, senza che ad alcuno accadesse, nè che alcun altro potesse far
cosa degna d'esser riferita. Venne l'autunno, in cui Agnese e Lucia
avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento
pubblico mandò quel conto all'aria: e fu questo certamente uno de'
suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi avvenimenti,
che però non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de'
nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti,
più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di
loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante,
vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo
campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami,
solleva anche i fuscelli nascosti tra l'erba, va a cercare negli angoli
le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le
porta in giro involte nella sua rapina.
Ora, perchè i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan
chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di
quei pubblici, prendendola anche un po' da lontano.


CAPITOLO XXVIII.

Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve
che l'abbondanza fosse tornata in Milano, come per miracolo. Pane in
quantità da tutti i fornai; il prezzo, come nell'annate migliori; le
farine a proporzione. Coloro che, in que' due giorni, s'erano addati
a urlare o a far anche qualcosa di più, avevano ora (meno alcuni
pochi stati presi) di che lodarsi: e non crediate che se ne stessero,
appena cessato quel primo spavento delle catture. Sulle piazze, sulle
cantonate, nelle bettole, era un tripudio palese, un congratularsi e
un vantarsi tra' denti d'aver trovata la maniera di far rinviliare
il pane. In mezzo però alla festa e alla baldanza, c'era (e come non
ci sarebbe stata?) un'inquietudine, un presentimento che la cosa non
avesse a durare. Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan
fatto in quell'altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla
prima tariffa d'Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi
aveva qualche quattrino da parte, l'investiva in pane e in farine;
facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie. Così,
facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non
dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sè, ma sempre più
difficile anche la continuazione momentanea. Ed ecco che, il 15 di
novembre, Antonio Ferrer, _De orden de Su Excelencia_, pubblicò una
grida, con la quale, a chiunque avesse granaglie o farine in casa,
veniva proibito di comprarne nè punto nè poco, e ad ognuno di comprar
pane, per più che il bisogno di due giorni, _sotto pene pecuniarie e
corporali, all'arbitrio di Sua Eccellenza_; intimazione a chi toccava
per ufizio, e a ogni persona, di denunziare i trasgressori; ordine a'
giudici, di far ricerche nelle case che potessero venir loro indicate;
insieme però, nuovo comando a' fornai di tener le botteghe ben fornite
di pane, _sotto pena, in caso di mancamento, di cinque anni di galera,
et maggiore, all'arbitrio di S. E._ Chi sa immaginarsi una grida tale
eseguita, deve avere una bella immaginazione; e certo, se tutte quelle
che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il ducato di Milano
doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere ora la
gran Bretagna.
Sia com'esser si voglia, ordinando ai fornai di far tanto pane,
bisognava anche fare in modo che la materia del pane non mancasse
loro. S'era immaginato (come sempre in tempo di carestia rinasce uno
studio di ridurre in pane de' prodotti che d'ordinario si consumano
sott'altra forma), s'era, dico, immaginato di far entrare il riso nel
composto del pane detto _di mistura_. Il 23 di novembre, grida che
sequestra, agli ordini del vicario e de' dodici di provvisione, la metà
del riso vestito (_risone_ lo dicevano qui, e lo dicon tuttora) che
ognuno possegga; pena a chiunque ne disponga senza il permesso di que'
signori, la perdita della derrata, e una multa di tre scudi per moggio.
È, come ognun vede, la più onesta.
Ma questo riso bisognava pagarlo, e un prezzo troppo sproporzionato
da quello del pane. Il carico di supplire all'enorme differenza era
stato imposto alla città; ma il Consiglio de' decurioni, che l'aveva
assunto per essa, deliberò, lo stesso giorno 23 di novembre, di
rappresentare al governatore l'impossibilità di sostenerlo più a lungo.
E il governatore, con grida del 7 di dicembre, fissò il prezzo del riso
suddetto a lire dodici il moggio: a chi ne chiedesse di più, come a
chi ricusasse di vendere, intimò la perdita della derrata e una multa
d'altrettanto valore, _et maggior pena pecuniaria et ancora corporale
sino alla galera, all'arbitrio di S. E., secondo la qualità de' casi et
delle persone_.
Al riso brillato era già stato fissato il prezzo prima della sommossa;
come probabilmente la tariffa o, per usare quella denominazione
celeberrima negli annali moderni, il _maximum_ del grano e dell'altre
granaglie più ordinarie sarà stato fissato con altre gride, che non c'è
avvenuto di vedere.
Mantenuto così il pane e la farina a buon mercato in Milano, ne veniva
di conseguenza che dalla campagna accorresse gente a processione
a comprarne. Don Gonzalo, per riparare a questo, come dice lui,
inconveniente, proibì, con un'altra grida del 15 di dicembre, di
portar fuori della città pane, per più del valore di venti soldi; pena
la perdita del pane medesimo, e venticinque scudi, _et in caso di
inhabilità, di due tratti di corda in publico, et maggior pena ancora_,
secondo il solito, _all'arbitrio di S. E._ Il 22 dello stesso mese (e
non si vede perchè così tardi), pubblicò un ordine somigliante per le
farine e per i grani.
La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e
con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la
corda. I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col
fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo
vedrà a momenti. È poi facile anche vedere, e non inutile l'osservare
come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione
necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell'antecedente,
e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal
prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla
proporzione tra il bisogno e la quantità. Alla moltitudine un tale
espediente è sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme
all'equità, altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è
quindi cosa naturale che, nell'angustie e ne' patimenti della carestia,
essa lo desidèri, l'implori e, se può, l'imponga. Di mano in mano poi
che le conseguenze si fanno sentire, conviene che coloro a cui tocca,
vadano al riparo di ciascheduna, con una legge la quale proibisca
agli uomini di far quello a che eran portati dall'antecedente. Ci si
permetta d'osservar qui di passaggio una combinazione singolare. In
un paese e in un'epoca vicina, nell'epoca la più clamorosa e la più
notabile della storia moderna, si ricorse, in circostanze simili, a
simili espedienti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza,
con la sola differenza di proporzione, e a un di presso nel medesimo
ordine) ad onta de' tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute
in Europa, e in quel paese forse più che altrove; e ciò principalmente
perchè la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano
arrivate, potè far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come
colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge.
Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de' conti, i frutti
principali della sommossa: guasto e perdita effettiva di viveri,
nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo,
spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva
bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s'aggiunga
quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti
al forno delle grucce, due in cima della strada dov'era la casa del
vicario di provvisione.
Del resto, le relazioni storiche di que' tempi son fatte così a caso,
che non ci si trova neppur la notizia del come e del quando cessasse
quella tariffa violenta. Se, in mancanza di notizie positive, è
lecito propor congetture, noi incliniamo a credere che sia stata
abolita poco prima o poco dopo il 24 di dicembre, che fu il giorno di
quell'esecuzione. E in quanto alle gride, dopo l'ultima che abbiam
citata del 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia
di grasce; sian esse perite, o siano sfuggite alle nostre ricerche,
o sia finalmente che il governo, disanimato, se non ammaestrato
dall'inefficacia di que' suoi rimedi, e sopraffatto dalle cose, le
abbia abbandonate al loro corso. Troviamo bensì nelle relazioni di più
d'uno storico (inclinati, com'erano, più a descriver grand'avvenimenti,
che a notarne le cagioni e il progresso) il ritratto del paese, e della
città principalmente, nell'inverno avanzato e nella primavera, quando
la cagion del male, la sproporzione cioè tra i viveri e il bisogno, non
distrutta, anzi accresciuta da' rimedi che ne sospesero temporariamente
gli effetti, e neppure da un'introduzione sufficiente di granaglie
estere, alla quale ostavano l'insufficienza de' mezzi pubblici e
privati, la penuria de' paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza
e i vincoli del commercio, e le leggi stesse tendenti a produrre e
mantenere il prezzo basso, quando, dico, la cagion vera della carestia,
o per dir meglio, la carestia stessa operava senza ritegno, e con tutta
la sua forza. Ed ecco la copia di quel ritratto doloroso.
A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le
strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un
soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati
ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine,
ridotti a litigar l'elemosina con quelli talvolta da cui in altri
giorni l'avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati da padroni
di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero,
vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de' padroni stessi,
per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina;
operai, e anche maestri d'ogni manifattura e d'ogn'arte, delle più
comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle
di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati
alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese,
chiedendo pietosamente l'elemosina, o esitanti tra il bisogno e una
vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e
dalla fame ne' panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora
i segni d'un'antica agiatezza; come nell'inerzia e nell'avvilimento,
compariva non so quale indizio d'abitudini operose e franche. Mescolati
tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori
licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza,
o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale
annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi
diversi indigenti s'aggiunga un numero d'altri, avvezzi in parte a
vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co'
loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all'accatto.
C'eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi,
o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel
marchio che le consuetudini stampano su' visi, tanto più rilevato
e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genía de' bravi
che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne
andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con
gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per
le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con
isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre,
con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e
paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a
minacciare, o traditrice a ferire.
[Illustrazione: A gli affamati dispensavano minestre, ova, pane,
vino..... (pag. 410)]
Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo
erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti,
mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi
per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le
loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n'eran
fuggiti disperatamente; e tra questi ce n'era di quelli che, per far
più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere
i lividi e le margini de' colpi ricevuti nel difendere quelle loro
poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e
brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti
da que' due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le
gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava
i bisogni della guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede
antica e ad ultimo asilo di ricchezza e di pia munificenza. Si potevan
distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all'andare incerto
e all'aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare
una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan
creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d'attirare a
sè gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o men tempo giravano
e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co' sussidi ottenuti
o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il
bisogno, avevan dipinta ne' volti e negli atti una più cupa e stanca
costernazione. Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir
vestiti; e diversi anche nell'aspetto: facce dilavate del basso paese,
abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari;
ma tutte affilate e stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi
fissi, tra il torvo e l'insensato; arruffati i capelli, lunghe e
irsute le barbe: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora
dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi
e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai cenci scomposti.
E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigore
abbattuto, l'aspetto d'una natura più presto vinta, d'un languore e
d'uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell'età più deboli.
Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po' di
paglia pesta, trita e mista d'immondo ciarpume. E una tal porcheria
era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati
a qualcheduno di que' meschini, per posarci il capo la notte. Ogni
tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui
la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe:
qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche volta si
vedeva uno cader come un cencio all'improvviso, e rimaner cadavere sul
selciato.
Accanto a qualcheduno di que' covili, si vedeva pure chinato qualche
passeggiero o vicino, attirato da una compassion subitanea. In qualche
luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso
da una mano ricca di mezzi, e avvezza a beneficare in grande; ed era
la mano del buon Federigo. Aveva scelto sei preti ne' quali una carità
viva e perseverante fosse accompagnata e servita da una complessione
robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna assegnata una terza
parte della città da percorrere, con dietro facchini carichi di vari
cibi, d'altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti. Ogni
mattina, le tre coppie si mettevano in istrada da diverse parti,
s'avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano
a ciascheduno aiuto secondo il bisogno. Taluno già agonizzante e non
più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le
consolazioni della religione. Agli affamati dispensavano minestra,
ova, pane, vino; ad altri, estenuati da più antico digiuno, porgevano
consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se faceva di
bisogno, con cose spiritose. Insieme, distribuivano vesti alle nudità
più sconce e più dolorose.
Nè qui finiva la loro assistenza: il buon pastore aveva voluto che,
almeno dov'essa poteva arrivare, recasse un sollievo efficace e non
momentaneo. Ai poverini a cui quel primo ristoro avesse rese forze
bastanti per reggersi e per camminare, davano un po' di danaro,
affinchè il bisogno rinascente e la mancanza d'altro soccorso non
li rimettesse ben presto nello stato di prima; agli altri cercavano
ricovero e mantenimento, in qualche casa delle più vicine. In
quelle de' benestanti, erano per lo più ricevuti per carità, e
come raccomandati dal cardinale; in altre, dove alla buona volontà
mancassero i mezzi, chiedevan que' preti che il poverino fosse ricevuto
a dozzina, fissavano il prezzo, e ne sborsavan subito una parte a
conto. Davano poi, di questi ricoverati, la nota ai parrochi, acciocchè
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