I promessi sposi. - 09

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di gran cappe, d'alte penne, di durlindane pendenti, un moversi
librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di
rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan
di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo
vide quell'apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier
turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sè:--sta bene: l'ho ucciso
in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandolo,
questa è riparazione.--Così, con gli occhi bassi, col padre compagno
al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra
una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì
le scale, e, di mezzo all'altra folla signorile, che fece ala al suo
passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron
di casa; il quale, circondato da' parenti più prossimi, stava ritto
nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria,
impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con
la destra il bavero della cappa sul petto.
C'è talvolta, nel volto e nel contegno d'un uomo, un'espressione così
immediata, si direbbe quasi un'effusione dell'animo interno, che, in
una folla di spettatori, il giudizio sopra quell'animo sarà un solo.
Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti,
che non s'era fatto frate, nè veniva a quell'umiliazione per timore
umano: e questo cominciò a conciliarglieli tutti. Quando vide l'offeso,
affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le
mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: «io
sono l'omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a
costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e
tarde scuse, la supplico d'accettarle per l'amor di Dio.» Tutti gli
occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava;
tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s'alzò, per
tutta la sala, un mormorío di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che
stava in atto di degnazione forzata, e d'ira compressa, fu turbato da
quelle parole; e, chinandosi verso l'inginocchiato, «alzatevi,» disse,
con voce alterata: «l'offesa.... il fatto veramente.... ma l'abito che
portate.... non solo questo, ma anche per voi.... S'alzi, padre....
Mio fratello.... non lo posso negare.... era un cavaliere.... era
un uomo.... un po' impetuoso.... un po' vivo. Ma tutto accade per
disposizion di Dio. Non se ne parli più.... Ma, padre, lei non deve
stare in codesta positura.» E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra
Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: «io posso dunque
sperare che lei m'abbia concesso il suo perdono! E se l'ottengo da lei,
da chi non devo sperarlo? Oh! s'io potessi sentire dalla sua bocca
questa parola, perdono!»
«Perdono?» disse il gentiluomo. «Lei non ne ha più bisogno. Ma pure,
poichè lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti....»
«Tutti! tutti!» gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate
s'aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora
un'umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli
uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell'aspetto, e
trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e
gli diede e ne ricevette il bacio di pace.
Un «bravo! bene!» scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si
mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori,
con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro
Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse:
«padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d'amicizia.» E si
mise per servirlo prima d'ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una
certa resistenza cordiale, «queste cose,» disse, «non fanno più per
me; ma non sarà mai ch'io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in
viaggio: si degni di farmi portare un pane, perchè io possa dire d'aver
goduto la sua carità, d'aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del
suo perdono.» Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e
venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto
d'argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato,
lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo
il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui,
poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a
combatter nell'anticamere, per isbrigarsi da' servitori, e anche da'
bravi, che gli baciavano il lembo dell'abito, il cordone, il cappuccio;
e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una
folla di popolo, fino a una porta della città; d'onde uscì, cominciando
il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell'ucciso, e il parentado, che s'erano aspettati
d'assaporare in quel giorno la trista gioia dell'orgoglio, si trovarono
invece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza.
La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e
con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era
preparato, andando là. Invece di soddisfazioni prese, di soprusi
vendicati, d'impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione,
la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per
la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo
padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere
il marchese Stanislao, ch'era quel rodomonte che ognun sa, parlò
invece delle penitenze e della pazienza mirabile d'un fra Simone,
morto molt'anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto
commosso, riandava tra sè, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò
ch'egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti:--diavolo
d'un frate! (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise
parole)--diavolo d'un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora
per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m'abbia
ammazzato il fratello.--La nostra storia nota espressamente che, da
quel giorno in poi, quel signore fu un po' men precipitoso, e un po'
più alla mano.
Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai
più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la
sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch'era imposto a' novizi,
l'osservava, senza avvedersene, assorto com'era, nel pensiero delle
fatiche, delle privazioni e dell'umiliazioni che avrebbe sofferte, per
iscontare il suo fallo. Fermandosi, all'ora della refezione, presso un
benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono:
ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un
ricordo perpetuo.
Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo
soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura,
gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare
e d'assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un'occasione
d'esercitarne due altri, che s'era imposti da sè: accomodar differenze,
e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte,
senza ch'egli se n'avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un
resticciolo di spiriti guerreschi, che l'umiliazioni e le macerazioni
non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente
umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità
combattuta, l'uomo s'animava, a un tratto, dell'impeto antico, che,
secondato e modificato da un'enfasi solenne, venutagli dall'uso del
predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo
contegno, come l'aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un'indole
focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa,
sempre all'erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un
suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l'aveva una volta
paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale,
che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione
trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel
travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.
Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto
l'aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente.
Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in
quanto conosceva e ammirava l'innocenza di lei, era già in pensiero
per i suoi pericoli, e sentiva un'indegnazione santa, per la turpe
persecuzione della quale era divenuta l'oggetto. Oltre di ciò, avendola
consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene
quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche
tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch'era in lui come
ingenita, s'aggiungeva, in questo caso, quell'angustia scrupolosa che
spesso tormenta i buoni.
Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre
Cristoforo, è arrivato, s'è affacciato all'uscio; e le donne, lasciando
il manico dell'aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate,
dicendo, a una voce: «oh padre Cristoforo! sia benedetto!»


CAPITOLO V.

Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena
ebbe data un'occhiata alle donne, dovette accorgersi che i suoi
presentimenti non eran falsi. Onde, con quel tono d'interrogazione
che va incontro a una trista risposta, alzando la barba con un moto
leggiero della testa all'indietro, disse: «ebbene?» Lucia rispose
con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a far le scuse d'aver
osato.... ma il frate s'avanzò, e, messosi a sedere sur un panchetto a
tre piedi, troncò i complimenti, dicendo a Lucia: «quietatevi, povera
figliuola. E voi,» disse poi ad Agnese, «raccontatemi cosa c'è!»
Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il
frate diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora
batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le mani,
ed esclamò: «o Dio benedetto! fino a quando...!» Ma, senza compir la
frase, voltandosi di nuovo alle donne: «poverette!» disse: «Dio vi ha
visitate. Povera Lucia!»
«Non ci abbandonerà, padre?» disse questa, singhiozzando.
«Abbandonarvi!» rispose. «E con che faccia potrei io chieder a Dio
qualcosa per me, quando v'avessi abbandonata? voi in questo stato! voi,
ch'Egli mi confida! Non vi perdete d'animo: Egli v'assisterà: Egli vede
tutto: Egli può servirsi anche d'un uomo da nulla come son io, per
confondere un.... Vediamo, pensiamo quel che si possa fare.»
Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la
fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento,
come per tener ferme e unite tutte le potenze dell'animo. Ma la
più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più
distintamente quanto il caso fosse pressante e intrigato, e quanto
scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi.--Mettere un po' di
vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere?
Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E fargli
paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha
d'una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e
invocar la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand'anche
questa povera innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per
quell'uomo? Chi sa a qual segno possa arrivare?... E resistergli?
Come? Ah! se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla
mia i miei frati di qui, que' di Milano! Ma! non è un affare comune;
sarei abbandonato. Costui fa l'amico del convento, si spaccia per
partigiano de' cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d'una
volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche
dell'inquieto, dell'imbroglione, dell'accattabrighe; e, quelch'è
più, potrei fors'anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la
condizione di questa poveretta.--Contrappesato il pro e il contro di
questo e di quel partito, il migliore gli parve d'affrontar don Rodrigo
stesso, tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere,
coi terrori dell'altra vita, anche di questa, se fosse possibile. Alla
peggio, si potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente
quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le
sue intenzioni, e prender consiglio da ciò.
Mentre il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le
ragioni che ognun può indovinare, non sapeva star lontano da quella
casa, era comparso sull'uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le
donne che facevan cenno di non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in
silenzio. Alzando la faccia, per comunicare alle donne il suo progetto,
il frate s'accorse di lui, e lo salutò in un modo ch'esprimeva
un'affezione consueta, resa più intensa dalla pietà.
«Le hanno detto..., padre?» gli domandò Renzo, con voce commossa.
«Pur troppo; e per questo son qui.»
«Che dice di quel birbone...?»
«Che vuoi ch'io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le
mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio
non t'abbandonerà.»
«Benedette le sue parole!» esclamò il giovine. «Lei non è di quelli che
dan sempre torto a' poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor
delle cause perse....»
«Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti
inutilmente. Io sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a
queste donne: per quel poco che posso, non v'abbandonerò.»
«Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto
alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran
pronti a dare il sangue per me; m'avrebbero sostenuto contro il
diavolo. S'io avessi avuto un nemico?... bastava che mi lasciassi
intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse
come si ritirano....» A questo punto, alzando gli occhi al volto del
padre, vide che s'era tutto rannuvolato, e s'accorse d'aver detto ciò
che conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s'andava intrigando
e imbrogliando: «volevo dire.... non intendo dire.... cioè, volevo
dire....»
«Cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l'opera
mia, prima che fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato
in tempo. Che! tu andavi in cerca d'amici.... quali amici!... che
non t'avrebber potuto aiutare, neppur volendo! E cercavi di perder
Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l'amico de'
tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter fuori
l'unghie, il debole non ci guadagna? E quando pure....» A questo
punto, afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza
perder d'autorità, s'atteggiò d'una compunzione solenne, gli occhi
s'abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: «quando
pure.... è un terribile guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?...
che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?»
«Oh sì!» rispose Renzo. «Quello è il Signore davvero.»
«Ebbene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che
ti lascerai guidar da me.»
«Lo prometto.»
Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso
d'addosso; e Agnese disse: «bravo figliuolo.»
«Sentite, figliuoli,» riprese fra Cristoforo: «io anderò oggi a parlare
a quell'uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole,
bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto,
statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi fate vedere.
Stasera, o domattina al più tardi, mi rivedrete.» Detto questo, troncò
tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S'avviò al convento,
arrivò a tempo d'andare in coro a cantar sesta, desinò, e si mise
subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva provarsi
d'ammansare.
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una
bicocca, sulla cima d'uno de' poggi ond'è sparsa e rilevata quella
costiera. A questa indicazione l'anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe
fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello
degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal
convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e
verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini
di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno.
Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de' costumi
del paese. Dando un' occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio
fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe,
rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere,
alla rinfusa. La gente che vi s'incontrava erano omacci tarchiati e
arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una
reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi
nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce
maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della
lingua, quando questa non bastasse: ne' sembianti e nelle mosse de'
fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che
di petulante e di provocativo.
[Illustrazione: ....se quattro creature, due vive e due morte,
collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio
d'abitanti. (pag. 65)]
Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a
chiocciola, e pervenne sur una piccola spianata, davanti al palazzotto.
La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva
esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada,
chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da
grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant'alte che appena vi
sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d'un altro.--Regnava quivi un
gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una
casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate
in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d'abitanti. Due
grand'avoltoi, con l'ali spalancate, e co' teschi penzoloni, l'uno
spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l'altro ancor saldo e pennuto,
erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi,
sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra,
facevan la guardia, aspettando d'esser chiamati a goder gli avanzi
della tavola del signore. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si
dispone ad aspettare; ma un de' bravi s'alzò, e gli disse: «padre,
padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini:
noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che
fuori non era troppo buon'aria per me; e se mi avesser tenuta la porta
chiusa, la sarebbe andata male.» Così dicendo, diede due picchi col
martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida
di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando
un vecchio servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand'inchino,
acquietò le bestie, con le mani e con la voce, introdusse l'ospite
in un angusto cortile, e richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un
salotto, e guardandolo con una cert'aria di maraviglia e di rispetto,
disse: «non è lei.... il padre Cristoforo di Pescarenico?»
«Per l'appunto.»
«Lei qui?»
«Come vedete, buon uomo.»
«Sarà per far del bene. Del bene,» continuò mormorando tra i denti,
e rincamminandosi, «se ne può far per tutto.» Attraversati due o tre
altri salotti oscuri, arrivarono all'uscio della sala del convito.
Quivi un gran frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri,
di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di
soverchiarsi. Il frate voleva ritirarsi, e stava contrastando dietro
l'uscio col servitore, per ottenere d'esser lasciato in qualche canto
della casa, fin che il pranzo fosse terminato; quando l'uscio s'aprì.
Un certo conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del
padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo),
veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi dell'intenzione modesta
del buon frate, «ehi! ehi!» gridò: «non ci scappi, padre riverito:
avanti, avanti.» Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto
di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso,
n'avrebbe fatto di meno. Ma, poichè lo spensierato d'Attilio aveva
fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro;
e disse: «venga, padre, venga.» II padre s'avanzò, inchinandosi al
padrone, e rispondendo, a due mani, ai saluti de' commensali.
L'uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a
tutti) immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col
petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per
fargli prender quell'attitudine, si richiedon molte circostanze, le
quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate
se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col
sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a
sostenere, con un sentimento misto d'orrore e di compassione per don
Rodrigo, stesse con una cert'aria di suggezione e di rispetto, alla
presenza di quello stesso don Rodrigo, ch'era lì in capo di tavola, in
casa sua, nel suo regno, circondato d'amici, d'omaggi, di tanti segni
della sua potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una
preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un
rimprovero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se
fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il
quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui.
A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto,
temperato però d'una certa sicurezza, e d'una certa saccenteria, il
signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far
giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come
s'è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d'un rispetto il più
puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli,
in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due
cugini, due convitati oscuri, de' quali la nostra storia dice soltanto
che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e
approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non
contraddicesse.
«Da sedere al padre,» disse don Rodrigo. Un servitore presentò una
sedia, sulla quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa
al signore, d'esser venuto in ora inopportuna. «Bramerei di parlarle
da solo a solo, con suo comodo, per un affare d'importanza,» soggiunse
poi, con voce più sommessa, all'orecchio di don Rodrigo.
«Bene, bene, parleremo;» rispose questo: «ma intanto si porti da bere
al padre.»
II padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo
al trambusto ch'era ricominciato, gridava: «no, per bacco, non mi farà
questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa
casa, senza aver gustato del mio vino, nè un creditore insolente, senza
aver assaggiate le legna de' miei boschi.» Queste parole eccitarono un
riso universale, e interruppero un momento la questione che s'agitava
caldamente tra i commensali. Un servitore, portando sur una sottocoppa
un'ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma di calice, lo
presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito tanto
pressante dell'uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò
a mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino.
«L'autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà
riverito; anzi è contro di lei;» riprese a urlare il conte Attilio:
«perchè quell'uomo erudito, quell'uomo grande, che sapeva a menadito
tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d'Argante,
prima d'esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio
Buglione....»
«Ma questo» replicava, non meno urlando, il podestà, «questo è un di
più, un mero di più, un ornamento poetico, giacchè il messaggiero è di
sua natura inviolabile, per diritto delle genti, _jure gentium_: e,
senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator
non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del
genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio
nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto....»
«Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario,
che non conosceva le prime...?»
«Con buona licenza di lor signori,» interruppe don Rodrigo, il
quale non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti:
«rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza.»
«Bene, benissimo,» disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto
garbata il far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre
il podestà, più infervorato di cuore nella questione, si chetava a
stento, e con un certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate.
«Ma, da quel che mi pare d'aver capito,» disse il padre, «non son cose
di cui io mi deva intendere.»
«Solite scuse di modestia di loro padri;» disse don Rodrigo: «ma non
mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col
cappuccio in capo, e che il mondo l'ha conosciuto. Via, via: ecco la
questione.»
«Il fatto è questo,» cominciava a gridare il conte Attilio.
«Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino,» riprese don Rodrigo.
«Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier
milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il
cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida,
e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta....»
«Ben date, ben applicate,» gridò il conte Attilio. «Fu una vera
ispirazione.»
«Del demonio,» soggiunse il podestà. «Battere un ambasciatore! persona
sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.»
«Sì, signore, da cavaliere,» gridò il conte: «e lo lasci dire a me,
che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero
stati pugni, sarebbe un'altra faccenda; ma il bastone non isporca le
mani a nessuno. Quello che non posso capire è perchè le premano tanto
le spalle d'un mascalzone.»
«Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire
spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del
carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle
genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani
mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza
d'esporre l'ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia
menzione che un feciale sia mai stato bastonato.»
«Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che
andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro.
Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch'è la vera, dico e
sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere
una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile
violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo....»
«Risponda un poco a questo sillogismo.»
«Niente, niente, niente.»
«Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto
proditorio; _atqui_ il messo _de quo_ era senz'arme; _ergo_....»
«Piano, piano, signor podestà.»
«Che piano?»
«Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno
con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena:
e, anche per questo, si possono dar certi casi.... ma stiamo nella
questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto
proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe
bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a
un galantuomo: mano alla spada.--E lei, signor dottor riverito, in vece
di farmi de' sogghigni, per farmi capire ch'è del mio parere, perchè
non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a
persuader questo signore?»
«Io....» rispose confusetto il dottore: «io godo di questa dotta
disputa: e ringrazio il bell'accidente che ha dato occasione a una
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