I promessi sposi. - 01

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NOTE DEL TRASCRITTORE
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-Sono stati corretti gli ovii errori tipografici.
-L'indice è stato diviso in due parti all'inizio rispettivamente del
saggio e del romanzo; la prima parte è mancante nell'originale.
-L'accentazione delle parole francesi e spagnole è stata mantenuta
conforme all'originala, ancorché diversa dalla ortografia moderna.
conforme all'originale, ancorché diversa dalla ortografia moderna.


OPERE DI ALESSANDRO MANZONI
_EDIZIONE HOEPLI_
Vol. I.


I
PROMESSI SPOSI
STORIA MILANESE DEL SECOLO XVII
SCOPERTA E RIFATTA
DA
ALESSANDRO MANZONI
_Illustrati con 40 tavole tratte da disegni originali_
di GAETANO PREVIATI
E PRECEDUTI DA UNO STUDIO
SU GLI ANNI DI NOVIZIATO POETICO DEL MANZONI
DI
MICHELE SCHERILLO
MILANO--ULRICO HOEPLI--EDITORE


I PROMESSI SPOSI

[Illustrazione: ALESSANDRO MANZONI.]


I
PROMESSI SPOSI
STORIA MILANESE DEL SECOLO XVII
SCOPERTA E RIFATTA
DA
ALESSANDRO MANZONI
_Illustrati con 40 tavole tratte da disegni originali_
di GAETANO PREVIATI
E PRECEDUTI DA UNO STUDIO
SU GLI ANNI DI NOVIZIATO POETICO DEL MANZONI
DI
MICHELE SCHERILLO
ULRICO HOEPLI
EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
1905
_PROPRIETÀ LETTERARIA_
Tipografia Umberto Allegretti--Milano, via Orti, 2.


MICHELE SCHERRILLO
GLI ANNI DI NOVIZIATO POETICO
DI
ALESSANDRO MANZONI


INDICE DEI CAPITOLI DEL SAGGIO

I Pag. VII
II » IX
III » XII
IV » XVII
V » XXIV
VI » XXX
VII » XXXIV
VIII » XXXVIII
IX » XLIV
X » XLIX


I.

Chiudendo il Discorso che prepose alla ristampa, per la Biblioteca
Italiana del Le Monnier, dei Versi e delle Prose del Parini (1846),
Giuseppe Giusti scriveva: «Così la Lombardia perdè il suo poeta; e non
poteva cadere in mente, ai cittadini che lo piangevano, di consolarsene
col caro aspetto d'un fanciullo di tredici anni che era allora in
Milano, e che di lì a poco fu quell'uomo che tutti sanno. Dico di te,
Alessandro mio; nè mi sarà imputato a vanità se ti rendo l'onore che
t'è dovuto, con quella amorosa dimestichezza che volesti concedermi,
della quale mi sento nell'animo un'alta compiacenza, temperata di
rispetto e di gratitudine».
Nato a Milano, sul Naviglio di San Damiano--dalle parti dell'antico
corso di Porta Orientale--, il 7 marzo 1785, da Pietro Manzoni, di
nobile famiglia originaria di Barzio nella Valsassina in territorio
di Lecco, e da Giulia, la giovane figliuola primogenita di Cesare
Beccaria, il bambino Alessandro era stato mandato a respirare le prime
aure vitali in un casolare a poca distanza dalla villa paterna del
Caleotto, a Castello sopra Lecco. Il magnifico, vario, tenero paesaggio
della mirabile costiera orientale di quell'ultima parte del «ramo
del lago di Como che volge a mezzogiorno»; lo spettacolo superbo di
quei «monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo», di quelle «cime
inuguali», di quelle «ville sparse e biancheggianti sul pendio, come
branchi di pecore pascenti»; l'armonia soave dell'Adda e dei torrenti
scroscianti: riempirono l'occhio e l'orecchio di quel bambino, che
lì appunto, in quell'angolo remoto e quasi segregato dal resto del
mondo, avrebbe, nella balda virilità, immaginata la scena del Romanzo
immortale. Anche lui, brianzuolo d'adozione, avrà allora imparato, in
quei vergini anni, a distinguere di quei torrenti «lo scroscio, come il
suono delle voci domestiche»; e le cime di quei monti si saranno allora
impresse pur nella sua mente, «non meno che l'aspetto dei suoi più
familiari».
Come non ripensare al Parini, e ai «colli beati e placidi» che cingono
il vago Eupili, un po' più là, verso occidente, dietro i Corni di Canzo,
Alta di monti schiena,
Cui sormontar non vale
Borea con rigid'ale,
quando, nel Romanzo, ascoltiamo l'inno di nostalgia traboccante
dall'anima dello scrittore; che sente battere all'unisono il suo col
cuore della cara contadina d'Acquate, fiorente di «quella bellezza
molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo»; che
divide con Renzo la tenera commozione del riudire di tra il fogliame
delle alte macchie di pruni, di quercioli, di marruche, la materna voce
dell'Adda? «Oh beato terreno», «colli ameni», «clima innocente», aura
Rotta e purgata sempre
Da venti fuggitivi
E da limpidi rivi!
Oh «beata gente, vegeta e robusta»,
E i baldanzosi fianchi
De le ardite villane;
E il bel volto giocondo
Fra il bruno e il rubicondo!
Oh l'inebriante profumo del timo, del croco, della menta selvaggia!
Il solenne spettacolo del lago, giacente, nella notte senza vento,
liscio e piano, così che parrebbe immobile «se non fosse il tremolare
e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchia di mezzo al
cielo»; e il sordo rumore del «fiotto morto e lento» che si frange
sulle ghiaie del lido, e «il gorgoglío più lontano dell'acqua rotta
tra le pile del ponte!».... E lo spettacolo, egualmente solenne, dei
monti e del «paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grandi
ombre», dove l'occhio esercitato sa distinguere i villaggi, le case,
le capanne!... «Quanto è tristo il passo di chi», cresciuto fra tali
incanti di natura, in tanta pace d'idillio, «se ne allontana!... Quanto
più s'avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco,
da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra
mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le
strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro».


II.

Di sei anni, Alessandro fu affidato ai padri Somaschi del collegio di
Morate: un ridente paese anche questo, in collina, a poca distanza
dall'Adda; ma vi manca il lago, e i monti son lontani. Nell'aprile del
1796 mutò collegio, e fu rinchiuso in quel di Lugano; dove insegnava
il padre Soave, un instancabile imbastitore di libri scolastici
d'ogni genere e novellatore a tempo perso. Il Manzoni non lo ebbe
effettivamente a maestro che un giorno solo, in luogo del professore
di matematica, infermo; pure, da vecchio narrava: «Io volevo bene al
padre Soave, e mi pareva di vedergli intorno al capo un'aureola di
gloria[1]». Agli altri _padri_ però non gli riusciva davvero di voler
bene: eran tutti un po' maneschi, screanzati, ignoranti, venali. Che
noia e che stizza vedersi costretto a quella educazione collegialesca e
fratesca; a quegli studi tutto meccanici, arretrati, insipidi! Ed egli
s'atteggiava a ribelle.
...............Nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto
De l'insipida stoppia, il viso torsi
Da la fetente mangiatoia; e franco
M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.
Si sente aria di temporale; e si capisce che anche nel collegio di
Merate e in quel di Lugano era penetrato di contrabbando qualche
volumetto del Rousseau o qualche volume dell'Alfieri. A buon conto,
quel giovanotto era nipote di Cesare Beccaria, e pel grande nonno aveva
imparato dalla madre ad avere una venerazione oltre che filiale. Non
lo aveva visto che una volta sola: la signora Giulia lo aveva condotto
nella casa di via Brera, prima di metterlo in collegio. E il marchese,
che non avrà certo indovinato in quel bambino il più insigne scrittore
del secolo prossimo a cominciare, s'era accostato a un armadio, per
prendere dei cioccolatini e donarglieli. Non ricordava se non questo
solo aneddoto, il Manzoni, ma si sentiva fiero del cognome materno. Da
giovanotto, nelle lettere agli amici o già compagni di collegio, si
compiaceva di aggiungerlo al paterno.
[1] CRISTOFORO FABRIS, _Memorie Manzoniane_; Milano, Cogliati, 1901; p.
95.
Anzichè, dunque, mortificar il suo spirito in quegli esercizi
facchineschi di memoria, il giovanetto si chiudeva, quando nessuno
avrebbe potuto impedirglielo, in una stanza remota, e lì leggeva i
suoi poeti o invocava per suo conto la Musa. Per buona fortuna, un di
quei Padri, più umano cultore delle lettere umane, «invece di darmi
le busse come i Prefetti»--narrava il Manzoni,--«vedendo questa mia
facilità a compor versi, mi dava le chicche». Un giorno, soggiungeva,
«sento bussare all'uscio dai miei compagni, che mi dicono: Apri,
camerata; vieni fuori, che abbiamo stabilito di tagliarci le code. Io
dapprima risposi: Lasciatemi star quieto. Ma poi ho ceduto, ho aperto,
e mi sono lasciato tagliare il codino. È stato un gran delitto, perchè
era segno d'idee liberali; e molti anni dopo, morto mio padre, tra le
sue lettere ne ho trovata una del Padre rettore del mio Collegio, la
quale diceva: «Questa volta la camerata dei mezzanelli me ne ha fatta
una di grossa: si son tagliate le code! E quello che più mi dispiace
si è di doverle dire, signor Manzoni, che suo figlio è stato uno dei
caporioni[2]».--Un altro giorno, dell'agosto (1799), mentre usciva
dal solitario ripostiglio, dove era stato a quattr'occhi con la Musa
e le aveva recitata a voce alta _La caduta_ pariniana, s'incontrò in
un compagno che gli diede la notizia, giunta fresca fresca da Milano,
che il Parini era morto. Ne ebbi, ricordava da vecchio il poeta, «una
delle più forti e dolorose impressioni della mia vita[3]».
[2] FABRIS, op. cit., 94-5.
[3] FABRIS, op. cit., 85-86.
Il Parini, l'abate, il professor Parini: oh questi sì ch'era «scola
e palestra di virtù»! Peccato non averlo potuto neanche una volta
veder di persona, l'austero vate della cara Brianza, degno, per le sue
virtù cittadine e l'alto ideale dell'arte, di stare accanto al fiero
Allobrogo,
......che ne le reggie primo
L'orma stampò de l'italo coturno;
E l'aureo manto lacerato ai grandi,
Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili!
E invece, uscito dalle mani di quei Somaschi luganesi, il piccolo
ribelle era cascato, alla fine dello stesso anno, in quelle, che
non pare sapessero star meglio a posto, dei Barnabiti, che allora
tenevano, qui in Milano, il collegio _dei Nobili_, poi detto Longone,
sul Naviglio di Porta Nuova (a pochi passi da quella piazza di San
Marco e da quel ponte Marcellino, che aveva traversato, in mezzo alla
desolazione della peste, il povero Renzo). Vedendosi «discepolo di
tale» cui gli sarebbe parso vergogna esser maestro, egli si volse «ai
prischi sommi»;
........o ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente, e ragionar con loro.
E, insieme coi _prischi_, i sommi moderni, che ad essi s'erano
ispirati, e ne continuavano l'opera magnanima col «chiaro esemplo»
e con le «veraci carte». Quale e quanto «sdegno», invece, per quei
«mille» che usurpavano «il nome che più dura e più onora», portando «in
Pindo l'immondizia del trivio, e l'arroganza, e i vizii lor!»


III.

Il Parini era morto, e l'Alfieri «errava muto ov'Arno è più deserto»,
avendo «sul volto il pallor della morte e la speranza». Rimaneva il
Monti; la cui _Basvilliana_ era stata, per mano del boia e per la
boriosa insania dei demagoghi, bruciata nella piazza del Duomo. Il
giovanotto Manzoni, come farà qualche anno dopo il giovanetto Leopardi,
prese a venerarlo.
Il Monti frequentava, con Pietro Verri ed altri egregi, la casa di don
Pietro Manzoni; e dicono che un giorno il poeta già celebre andasse a
visitare, nel collegio milanese, il novizio che moveva i primi passi.
Ad ogni modo, la benevolenza dimostratagli in quei primi passi, rese
poi sempre assai indulgente il caposcuola dei romantici italiani verso
l'ultimo paladino del classicismo. Riconosceva, sì, con l'usato acume,
come al poeta ferrarese mancasse l'arte di sottintendere incitando così
la fantasia dei lettori: «aveva bisogno di dir tutto», osservava. Ne
ricordava la senile vanità d'infliggere ai visitatori della sua casa la
recitazione dei «versi che aveva composti nel giorno», aspettando che
glieli lodassero. Ma, povero vecchio, gli voleva bene! Una volta gli
manifestò l'intenzione di voler dedicare alla Giulia--la primogenita
del Manzoni: «une Juliette», scriveva questi al Fauriel nell'estate
del 1819, «dont vous verrez que tout le sérieux se trouve dans le
portrait»--la _Feroniade_. «Oh povera Giulia!», esclamò il Manzoni;
«lasciala nella sua oscurità!»--E a proposito della volubilità del
pensiero politico dell'autore dei poemetti rivoluzionarii, di quelli
napoleonici, e del _Ritorno d'Astrea_, il Manzoni narrava ai suoi
intimi quest'aneddoto. Il Monti «aveva fatto un'istanza all'imperatore
Francesco, perchè gli continuasse la pensione che gli aveva assegnata
Napoleone; ma di lì a qualche mese se la vide tornar indietro, ed a
tergo era scritto, di proprio carattere dell'imperatore: Si rimanda
inesaudita la presente istanza, perchè, dalle informazioni prese,
questo individuo disse sempre bene di tutti i governi che vi furono
nel suo paese». Il povero Monti ingoiò amaro. «E quando, sul finire
della sua vita, io andai a trovarlo a Monza, dove allora soggiornava
infermiccio, egli mi parlò della sua speranza nella misericordia di
Dio; e io gli dissi: Senti, Monti; quello che a te deve aprire le
porte del Cielo, è lo smettere quell'odio che porti all'imperatore
Francesco[4]».
[4] FABRIS, op. cit., 83-84.
[Illustrazione: Alessandro Manzoni a 17 anni.--Disegno del pittore
Bordiga.]
Ma a quindici anni, quando non si è ancora abbastanza esperti
«del mondo e degli vizii umani e del valore» e si pretende invece
d'insegnare agli altri, non si peritava, nelle note al poemetto in
terzine Il _trionfo della Libertà_, di chiamarlo «il più gran poeta
dei nostri tempi». È vero che più tardi s'affrettò a correggere:
«un gran poeta dei nostri tempi»; ma non corresse, in quelle note
medesime, l'altra espressione: «il grande emulatore» di Dante. E non lo
avrebbe, anche volendo, potuto; giacchè nel testo del poemetto stesso
aveva affermato che non solo l'emulo raggiungeva l'atleta, ma talora
l'avanzava! Si capisce che fin d'allora la mente del Manzoni--che,
in fatto di giudizi letterarii, ebbe sempre i suoi capricci--veniva
cedendo alle seduzioni di quel bizzarro ravvicinamento del poeta
cuor di leone col rimatore cuor di coniglio, che lo trascinò poi a
quell'infelice e ingiustificabile epigramma che tutti ricordano, di
parecchi anni dopo[5].
[5] Mi pare opera vana l'arrabattarsi che altri fa per dare a
quell'epigramma un'interpretazione meno ripugnante. Notò con l'usata
ponderazione Cesare Balbo, non certo sospetto di poca stima pel grande
lombardo: «Il Monti fu più ingegno che animo dantesco; e le mutazioni
di lui furono più d'arrendevolezza che d'ira. Quindi l'imitazione più
esterna: nella forma sola e nelle immagini».
Quel poemetto--che ha bensì titolo e metro, e qua e là, immaginazioni
petrarchesche, ma si chiarisce subito esemplato sulla _Basvilliana_ e
sulla _Mascheroniana_, ricordate pur nelle note--si chiude anzi con un
inno baldo e generoso al cigno di Ferrara.
O Pïeride Dea,.................
Tu l'ali impenni al Ferrarese ingegno,
Tu co' tuoi divi carmi il vizio fiedi,
E volgi l'alme a glorïoso segno.
Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
Fai de' tuoi carmi, e trapassando pungi
La vil ciurmaglia che ti striscia ai piedi.
_Tu il gran cantor di Beätrice aggiungi,
E l'avanzi talor_; d'invidia piene
Ti rimiran le felle alme da lungi,
Che non bagnar le labbia in Ippocrene,
Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,
Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;
Cigni non già, ma corvi da carogne.
Ma tu l'invida turba addietro lassi,
E le robuste penne ergendo come
Aquila altera, li compiangi e passi.
Invano atro velen sopra il tuo nome
Sparge l'Invidia, al proprio danno industre,
Da le inquiete sibilanti chiome.
Ed io puranco, ed io Vate trilustre,
Io ti seguo da lungo, e il tuo gran lume
A me fo scorta no l'arringo illustre.
E te veggendo su l'erto cacume
Ascender di Parnaso, alma spedita,
Già sento al volo mio crescer le piume.
Meno enfatici, di fattura più schiettamente neoclassica, sono gli altri
versi che tre anni dopo, il 15 settembre 1803, il poeta diciottenne
dirigeva al tanto ammirato «canoro spirto». Parla l'Adda, «diva di
fonte umil», e invita l'illustre «nato a le grandi de l'Eridano sponde»
a venire per qualche giorno agli «ameni cheti recessi» e alle «tacite
ombre» della villa del Galeotto. Essa non può vantare «pompa d'infinito
flutto o di abitati pin»;
Ma verdi colli e biancheggianti ville
E lieti colti in mio cammin vagheggio,
E tenaci boscaglie a cui commisi,
Contro i villani d'Aquilone insulti,
Servar la pace del mio picciol regno,
E con Febo alternar l'ombre salubri.
È mite e amabile, l'Adda; e non si diletta di «rapir l'ostello e i
lavorati campi» agl'industri villani,
nè udir le preci
Inesaudite e gl'imprecanti voti
De le madri che seguono da lungo
Con l'umid'occhio o con le strida il caro
Fan destinato a la lame de' figli,
E la sacra dimora e il dolce letto.
Sol talor godo con l'innocua mano
Piegar l'erbe cedenti, e da le rive
Sveller fioretti per ornarmi il seno
E le trecce stillanti.
Umile sì; pure, «con l'irta alga natía» le splende in fronte il lauro.
................Salve,
Vocal colle Eupilino: a te mai sempre
Rida Bacco vermiglio o Cerer bionda;
Salve, onor di mia riva! A te sovente
Scendean Febo e le Muse eliconìadi,
Scordato il rezzo de l'Ascrea fontana.
Quivi sovente il buon cantor vid'io
Venir trattando con la man secura
Il plettro di Venosa e il suo flagello;
O, traendo l'inerte fianco a stento,
Invocar la salute e la ritrosa
Erato bella; che di lui temea
L'irato ciglio e il satiresco ghigno,
Ma alfin seguìalo e su le tempie antiche
Fea di sua mano rinverdire il mirto.
Qui spesso udíilo rammentar piangendo,
Come si fa di cosa amata e tolta,
Il dolce tempo de la prima etade,
O de' potenti maledir l'orgoglio,
Come il genio natio movèalo al canto
E l'indomata gioventù de l'alma.
Or tace il plettro arguto; e ne' miei boschi
È silenzio ed orror!
Chi non ricorda il leggiadro episodio della _Mascheroniana_ (1801;
canto IV), in cui l'ombra di Pietro Verri, alla vista dei «placidi
colli felici»,
Che con dolce pendio cingon le liete
Dell'Eupili lagune irrigataci,
esclama:
Salvete,
Piagge diletto al Ciel, che al mio Parini
Foste cortesi di vostr'ombre quete,
Quando ei, fabbro di numeri divini,
L'acre bile fe' dolce, e la vestia
Di tebani concenti e venosini?
Invano il futuro narratore dei _Promessi sposi_ cercava, in quei cari
luoghi, di risentire la cara voce del poeta eupilino: «le commosse
reliquie sotto la terra argute sibilar»; il «plettro arguto» taceva, e
negli amati boschi fiancheggianti l'Adda era «silenzio ed orror».Venga
dunque lui, il Ferrarese, «a risvegliar, col canto, novo romor Cirreo»:
............A te concesse
Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi
E le immagini e l'estro e il furor sacro
E l'estasi soavi e l'auree voci
Già di sua man rinchiuse.


IV.

Anche a lui adolescente Euterpe aveva fatto qualche carezza:
Me dalla palla spesso e dalle noci
Chiamava Euterpe al pollice percosso
Undici volte.
E appunto, in uno di quei momenti in cui si sentì infiammato dal «furor
sacro» o «furor santo» che quella Musa suol destare nel seno de' suoi
devoti, il Manzoni scrisse il poemetto, di titolo e forma petrarchesca,
_Il trionfo della Libertà_.Il 20 piovoso, o, per parlare un linguaggio
meno repubblicano, il 9 febbraio 1801, era stata firmata la pace di
Luneville. Insieme con tutto il mondo liberale, applaudì anche il
quindicenne Manzoni, scrivendo quel poemetto. V'inneggia all'aurora
d'un'êra novella: son finite le guerre, la Superstizione è stata
finalmente sbandita dal mondo, la Libertà procede trionfatrice.
Coronata, di rose e di vïole,
Scendea di Giano a rinserrar le porte
La bella Pace pel cammin del Sole;
E le spade stringea d'aspre ritorte,
E cancellava con l'orme divine
I luridi vestigi de la Morte;
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
Si rivestian le valli e le colline....
Son mosse e colori montiani. Il novizio cerca la sua forma, ma
per ora non sa che calcar le orme altrui. Il modello prossimo è
la _Mascheroniana_; ma ogni tanto spunta il ricordo pur della
_Basvilliana_ o degli altri poemetti del fecondo e facondo Ferrarese.
La dea Libertà v'è raffigurata
Umilemente altera, ed il decenne
Berretto il crine affrena;
com'è appunto nel _Pericolo_:
E di Bruto l'insegna è il suo cappello.
E oltre alla forma in generale, e ai tanti particolari d'invenzione
e di stile, è montiana perfino l'idea prima, di celebrare in versi
quella pace, e di celebrarla a guisa d'un Trionfo. Non so che altri
ci abbia pensato; e, per esempio, il Petrocchi non ha rammentato, su
quell'avvenimento, se non una lirica del Ceroni. Altro che Ceroni!
Quella pace fu cantata dal Monti in persona, in un'ode a strofi
saffiche (il metro della pariniana _Alla Musa_), che ha ispirazione
moderna e gusto classico. Di sotto alla patina caduca del frasario
mitologico e alle incrostazioni parassitarie della rettorica giacobina,
quanta freschezza di sentimento in quest'ode, che fa non a caso
ripensare ai Cori manzoniani e a taluna delle più belle poesie del
Carducci!
Voi che dell'armi al suono impaurite
Pace invocaste su le patrie arene,
Tenere madri, ardenti spose, uscite:
La dea già viene.
De' suoi bianchi corsieri odo il nitrito,
Sotto l'asse tremar sento la riva.
Fuori uscite: ogni pianto è già finito:
Ecco la diva.
Lungi il loto, o fanciulle, ed il narciso,
Ch'ella non ama delle Parche i fiori:
Date rose e mortelle, e al fiordaliso
Misti gli allori....
Alate strofette; che fan meglio comprendere il paterno compiacimento
del provetto poeta, quando, nel lodare i primi tentativi dell'amato
novizio, gli scriveva: «I versi che m'hai mandati son belli: io li
trovo respiranti quel _molle atque facetum_ virgiliano, che a pochi
dettano gaudentes _rure camoenae_.....; e se al bello e vigoroso
colorito che già possiedi, mischierai un po' più di virgiliana
mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri
originali».
Quanto a sentimento e impeto patriottico, il figliuolo della Giulia
Beccarla non aveva certo bisogno che altri venisse ad insegnarglieli:
le idee nuove ed innovatrici, e le dottrine umanitarie e sociali che
avevano scosso e scotevano l'antico assetto, eran roba di casa. Il
fiero imberbe dubita persino che l'uomo abbia un'anima (c. I):
........s'egli è ver che in noi s'annidi
Parte miglior che de le membra è donna;
e ha sobbalzi e scatti d'un paganesimo così vivace, da fare al libire
l'autore degl'_Inni_ e della _Morale cattolica_ (c. II):
Che il celibe Levita ti governa
Con le venali chiavi, ond'ei si vanta
Chiuder la porta e disserrar superna.
E i Druidi porporati: oh casta, oh santa
Turba di Lupi mansueti in mostra,
Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!
E il popol reverente a lor si prostra
In vile atto sommesso, e quasi Dii
Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!
....................
Questi i diletti de l'Eterno sono?
Questi i ministri del divin volere?
E questi è un Dio di pace e di perdono?
....................
O degenere figlia di Quirino,
Che i tuoi prodi oblïando, al Galileo
Cedesti i fasci del valor latino!
[Illustrazione: Dichiarazione premessa al manoscritto del «Trionfo della
Libertà».]
Codeste note antipapali e peggio avevano nutrita e infiammata la
letteratura transalpina e cisalpina di prima e dopo la Rivoluzione,
dal Voltaire all'Alfieri, dal Montesquieu al Monti. E con quella
letteratura il Manzoni era più che affiatato. Il Foscolo, che lo
conobbe di quegli anni appunto, lo proclamava «nato alle lettere e
caldo d'amor patrio».Ma certi bollori tra giacobini e tribunizii,
gorgoglianti qua e colà nel poemetto, tradiscono un fuoco che non
è nativo. Sta bene che, negli anni più maturi, il Manzoni dichiari
d'avere scritto quei versi «nell'anno quindicesimo» dell'età sua, «non
senza compiacenza e presunzione di nome di poeta», e di rifiutarli
perchè troppo primaticci; «ma», soggiungeva, «veggendo non menzogna,
non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti
riconosco per miei». Ripudiava i versi, «come follia di giovanile
ingegno»; legittimava i sentimenti, «come dote di puro e virile animo».
Oh, non tutti i sentimenti! Questo, per esempio, che ha suggerito di
raffigurare la Libertà con le mani tutte e due ingombre: la destra dal
brando, la sinistra dalla scure che troncò il capo di re Luigi (c. I):
Stringe la manca la fatal bipenne,
E l'altra il brando scotitor de' troni....
(imitazione un po' goffa della figurazione montiana, dei due Cherubini
sospesi su le penne, ai fianchi del trono dell'Eterno: «Quegli d'olivo
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