I promessi sposi. - 45

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lì, senza sospendere i discorsi, l'amico si mise in faccende per fare
un po' d'onore a Renzo, come si poteva così all'improvviso e in quel
tempo. Mise l'acqua al fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedè poi
il matterello a Renzo, perchè la dimenasse; e se n'andò dicendo: «son
rimasto solo; ma! son rimasto solo!»
Tornò con un piccol secchio di latte, con un po' di carne secca, con un
paio di raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata
la polenta sulla taffería, si misero insieme a tavola, ringraziandosi
scambievolmente, l'uno della visita, l'altro del ricevimento. E, dopo
un'assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici
di quello che avesser mai saputo d'essere nel tempo che si vedevano
quasi ogni giorno; perchè all'uno e all'altro, dice qui il manoscritto,
eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia
all'animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che
si trova negli altri.
Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo d'Agnese,
nè consolarlo della di lei assenza, non solo per quell'antica e
speciale affezione, ma anche perchè, tra le cose che a lui premeva di
decifrare, ce n'era una di cui essa sola aveva la chiave. Stette un
momento tra due, se dovesse continuare il suo viaggio, o andar prima
in cerca d'Agnese, giacchè n'era così poco lontano; ma, considerato
che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel
primo proposito d'andare addirittura a levarsi questo dubbio, a aver
la sua sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche
dall'amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro
che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli
avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se n'era andato con la coda tra
le gambe, e non s'era più veduto da quelle parti; insomma su tutto
quell'intreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo cognizione
di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: chè
Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il
cielo com'era stato scritto; e l'interprete bergamasco, nel leggergli
la lettera, n'aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato
con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non
avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure
quello era l'unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia. In
quanto alla giustizia, potè confermarsi sempre più ch'era un pericolo
abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestà
era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe un altro; anche la
sbirraglia se n'era andata la più parte; quelli che rimanevano, avevan
tutt'altro da pensare che alle cose vecchie.
Raccontò anche lui all'amico le sue vicende, e n'ebbe in contraccambio
cento storie, del passaggio dell'esercito, della peste, d'untori, di
prodigi. «Son cose brutte,» disse l'amico, accompagnando Renzo in una
camera che il contagio aveva resa disabitata; «cose che non si sarebbe
mai creduto di vedere; cose da levarvi l'allegria per tutta la vita; ma
però, a parlarne tra amici, è un sollievo.»
Allo spuntar del giorno, eran tutt'e due in cucina; Renzo in arnese
da viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il
coltellaccio nel taschino de' calzoni: il fagottino, per andar più
lesto, lo lasciò in deposito presso all'ospite. «Se la mi va bene,» gli
disse, «se la trovo in vita, se..... basta.... ripasso di qui; corro a
Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi....
Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia..... allora,
non so quel che farò, non so dov'anderò: certo, da queste parti non mi
vedete più.» E così parlando, ritto sulla soglia dell'uscio, con la
testa per aria, guardava, con un misto di tenerezza e d'accoramento,
l'aurora del suo paese, che non aveva più veduta da tanto tempo.
L'amico gli disse, come s'usa, di sperar bene; volle che prendesse con
sè qualcosa da mangiare; l'accompagnò per un pezzetto di strada, e lo
lasciò con nuovi augúri.
Renzo, s'incamminò con la sua pace, bastandogli d'arrivar vicino
a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buon'ora, e
cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza
nulla che potesse distrar Renzo da' suoi pensieri, fuorchè le solite
miserie e malinconie. Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a
suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi.
Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c'era de' pani
in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso.
Il fornaio gl'intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala
una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i
danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l'uno dopo l'altro,
i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.
Verso sera, arriva a Greco, senza però saperne il nome; ma, tra un po'
di memoria de' luoghi, che gli era rimasta dell'altro viaggio, e il
calcolo del cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva
esser poco lontano dalla città, uscì dalla strada maestra, per andar
ne' campi in cerca di qualche cascinotto, e lì passar la notte; chè con
osterie non si voleva impicciare. Trovò meglio di quel che cercava:
vide un'apertura in una siepe che cingeva il cortile d'una cascina;
entrò a buon conto. Non c'era nessuno: vide da un canto, un gran
portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala
a mano; diede un'occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s'accomodò
per dormire, e infatti s'addormentò subito, per non destarsi che
all'alba. Allora, andò carpon carponi verso l'orlo di quel gran letto;
mise la testa fuori, e non vedendo nessuno, scese di dov'era salito,
uscì di dov'era entrato, s'incamminò per viottole, prendendo per sua
stella polare il duomo; e dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar
sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta Nuova, e molto
vicino a questa.


CAPITOLO XXXIV.

In quanto alla maniera di penetrare in città, Renzo aveva sentito,
così all'ingrosso, che c'eran ordini severissimi di non lasciar
entrar nessuno, senza bulletta di sanità; ma che in vece ci s'entrava
benissimo, chi appena sapesse un po' aiutarsi e cogliere il momento.
Era infatti così; e lasciando anche da parte le cause generali, per
cui in que' tempi ogni ordine era poco eseguito; lasciando da parte
le speciali, che rendevano così malagevole la rigorosa esecuzione di
questo; Milano si trovava ormai in tale stato, da non veder cosa
giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer
piuttosto noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de'
cittadini.
Su queste notizie, il disegno di Renzo era di tentare d'entrar dalla
prima porta a cui si fosse abbattuto; se ci fosse qualche intoppo,
riprender le mura di fuori, finchè ne trovasse un'altra di più facile
accesso. E sa il cielo quante porte s'immaginava che Milano dovesse
avere. Arrivato dunque sotto le mura, si fermò a guardar d'intorno,
come fa chi, non sapendo da che parte gli convenga di prendere, par che
n'aspetti, e ne chieda qualche indizio da ogni cosa. Ma, a destra e a
sinistra, non vedeva che due pezzi d'una strada storta; dirimpetto, un
tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d'uomini viventi: se non
che, da un certo punto del terrapieno, s'alzava una colonna d'un fumo
oscuro e denso, che salendo s'allargava e s'avvolgeva in ampi globi,
perdendosi poi nell'aria immobile e bigia. Eran vestiti, letti e altre
masserizie infette che si bruciavano: e di tali triste fiammate se ne
faceva di continuo, non lì soltanto, ma in varie parti delle mura.
Il tempo era chiuso, l'aria pesante, il cielo velato per tutto da una
nuvola o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole,
senza prometter la pioggia; la campagna d'intorno, parte incolta,
e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una gocciola di
rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per di più, quella solitudine,
quel silenzio, così vicino a una gran città, aggiungevano una nuova
costernazione all'inquietudine di Renzo, e rendevan più tetri tutti i
suoi pensieri.
Stato lì alquanto, prese la diritta, alla ventura, andando, senza
saperlo, verso porta Nuova, della quale, quantunque vicina, non poteva
accorgersi, a cagione d'un baluardo, dietro cui era allora nascosta.
Dopo pochi passi, principiò a sentire un tintinnío di campanelli, che
cessava e ricominciava ogni tanto, e poi qualche voce d'uomo. Andò
avanti e, passato il canto del baluardo, vide per la prima cosa, un
casotto di legno, e sull'uscio, una guardia appoggiata al moschetto,
con una cert'aria stracca e trascurata: dietro c'era uno stecconato,
e dietro quello, la porta, cioè due alacce di muro, con una tettoia
sopra, per riparare i battenti; i quali erano spalancati, come pure il
cancello dello stecconato. Però, davanti appunto all'apertura, c'era
in terra un tristo impedimento: una barella, sulla quale due monatti
accomodavano un poverino, per portarlo via. Era il capo de' gabellieri,
a cui, poco prima, s'era scoperta la peste. Renzo si fermò, aspettando
la fine: partito il convoglio, e non venendo nessuno a richiudere il
cancello, gli parve tempo, e ci s'avviò in fretta; ma la guardia, con
una manieraccia, gli gridò: «olà!» Renzo si fermò di nuovo su due
piedi, e, datogli d'occhio, tirò fuori un mezzo ducatone, e glielo
fece vedere. Colui, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse
meno di quel che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo
buttasse; e vistoselo volar subito a' piedi, susurrò: «va innanzi
presto.» Renzo non se lo fece dir due volte; passò lo stecconato, passò
la porta, andò avanti, senza che nessuno s'accorgesse di lui, o gli
badasse; se non che, quando ebbe fatti forse quaranta passi, sentì un
altro «olà» che un gabelliere gli gridava dietro. Questa volta, fece
le viste di non sentire, e, senza voltarsi nemmeno, allungò il passo.
«Olà!» gridò di nuovo il gabelliere, con una voce però che indicava più
impazienza che risoluzione di farsi ubbidire; e non essendo ubbidito,
alzò le spalle, e tornò nella sua casaccia, come persona a cui premesse
più di non accostarsi troppo ai passeggieri, che d'informarsi de' fatti
loro.
La strada che Renzo aveva presa, andava allora, come adesso, diritta
fino al canale detto il _Naviglio_: i lati erano siepi o muri d'orti,
chiese e conventi, e poche case. In cima a questa strada, e nel mezzo
di quella che costeggia il canale, c'era una colonna, con una croce
detta la croce di sant'Eusebio. E per quanto Renzo guardasse innanzi,
non vedeva altro che quella croce. Arrivato al crocicchio che divide la
strada circa alla metà, e guardando dalle due parti, vide a diritta, in
quella strada che si chiama lo stradone di santa Teresa, un cittadino
che veniva appunto verso di lui.--Un cristiano, finalmente!--disse tra
sè; e si voltò subito da quella parte, pensando di farsi insegnar la
strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che s'avanzava;
e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e tanto
più, quando s'accorse che, in vece d'andarsene per i fatti suoi, gli
veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello,
da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra,
mise l'altra mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo
sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo
addietro, alzò un noderoso bastone e voltata la punta, ch'era di ferro,
alla vita di Renzo, gridò: «via! via! via!»
«Oh oh!» gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa,
e, avendo tutt'altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la
cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello
stravagante, e continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in
cui si trovava avviato.
L'altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi,
ogni momento, indietro. E arrivato a casa, raccontò che gli s'era
accostato un untore, con un'aria umile, mansueta, con un viso d'infame
impostore, con lo scatolino dell'unto, o l'involtino della polvere
(non era ben certo qual de' due) in mano, nel cocuzzolo del cappello,
per fargli il tiro, se lui non l'avesse saputo tener lontano. «Se mi
s'accostava un passo di più,» soggiunse, «l'infilavo addirittura,
prima che avesse tempo d'accomodarmi me, il birbone. La disgrazia fu
ch'eravamo in un luogo così solitario, che se era in mezzo Milano,
chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli si
trovava quella scellerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo,
mi son dovuto contentare di fargli paura, senza risicare di cercarmi
un malanno; perchè un po' di polvere è subito buttata; e coloro hanno
una destrezza particolare; e poi hanno il diavolo dalla loro. Ora sarà
in giro per Milano: chi sa che strage fa!» E fin che visse, che fu per
molt'anni, ogni volta che si parlasse d'untori, ripeteva la sua storia,
e soggiungeva: «quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo
vengano a dire a me; perchè le cose bisogna averle viste.»
Renzo, lontano dall'immaginarsi come l'avesse scampata bella, e
agitato più dalla rabbia che dalla paura, pensava, camminando,
a quell'accoglienza, e indovinava bene a un di presso ciò che
lo sconosciuto aveva pensato di lui; ma la cosa gli pareva così
irragionevole, che concluse tra sè che colui doveva essere un qualche
mezzo matto.--La principia male,--pensava però:--par che ci sia un
pianeta per me, in questo Milano. Per entrare, tutto mi va a seconda;
e poi, quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati.
Basta.... coll'aiuto di Dio.... se trovo.... se ci riesco a
trovare.... eh! tutto sarà stato niente.--
Arrivato al ponte, voltò, senza esitare, a sinistra, nella strada di
san Marco, parendogli, a ragione, che dovesse condurre verso l'interno
della città. E andando avanti, guardava in qua e in là, per veder se
poteva scoprire qualche creatura umana; ma non ne vide altra che uno
sformato cadavere nel piccol fosso che corre tra quelle poche case (che
allora erano anche meno), e un pezzo della strada. Passato quel pezzo,
sentì gridare: «o quell'uomo!» e guardando da quella parte, vide poco
lontano, a un terrazzino d'una casuccia isolata, una povera donna, con
una nidiata di bambini intorno; la quale, seguitandolo a chiamare, gli
fece cenno anche con la mano. Ci andò di corsa; e quando fu vicino, «o
quel giovine,» disse quella donna: «per i vostri poveri morti, fate la
carità d'andare a avvertire il commissario che siamo qui dimenticati.
Ci hanno chiusi in casa come sospetti, perchè il mio povero marito è
morto; ci hanno inchiodato l'uscio, come vedete; e da ier mattina,
nessuno è venuto a portarci da mangiare. In tante ore che siam qui, non
m'è mai capitato un cristiano che me la facesse questa carità: e questi
poveri innocenti moion di fame.»
«Di fame!» esclamò Renzo; e, cacciate le mani nelle tasche, «ecco,
ecco,» disse, tirando fuori i due pani: «calatemi giù qualcosa da
metterli dentro.»
«Dio ve ne renda merito; aspettate un momento,» disse quella donna; e
andò a cercare un paniere, e una fune da calarlo, come fece. A Renzo
intanto gli vennero in mente que' pani che aveva trovati vicino alla
croce, nell'altra sua entrata in Milano, e pensava:--ecco: è una
restituzione, e forse meglio che se gli avessi restituiti al proprio
padrone; perchè qui è veramente un'opera di misericordia.--
«In quanto al commissario che dite, la mia donna,» disse poi, mettendo
i pani nel paniere, «io non vi posso servire in nulla; perchè, per
dirvi la verità, son forestiero, e non son niente pratico di questo
paese. Però, se incontro qualche uomo un po' domestico e umano, da
potergli parlare, lo dirò a lui.»
La donna lo pregò che facesse così, e gli disse il nome della strada,
onde lui sapesse indicarla.
«Anche voi,» riprese Renzo, «credo che potrete farmi un piacere, una
vera carità, senza vostro incomodo. Una casa di cavalieri, di gran
signoroni, qui di Milano, casa ***, sapreste insegnarmi dove sia?»
«So che la c'è questa casa,» rispose la donna: «ma dove sia, non lo
so davvero. Andando avanti di qua, qualcheduno che ve la insegni, lo
troverete. E ricordatevi di dirgli anche di noi.»
«Non dubitate,» disse Renzo, e andò avanti.
A ogni passo, sentiva crescere e avvicinarsi un rumore che già aveva
cominciato a sentire mentre era lì fermo a discorrere: un rumor di
ruote e di cavalli, con un tintinnío di campanelli, e ogni tanto
un chioccar di fruste, con un accompagnamento d'urli. Guardava
innanzi, ma non vedeva nulla. Arrivato allo sbocco di quella strada,
scoprendosegli davanti la piazza di san Marco, la prima cosa che gli
diede nell'occhio, furon due travi ritte, con una corda, e con certe
carrucole; e non tardò a riconoscere (ch'era cosa famigliare in quel
tempo) l'abbominevole macchina della tortura. Era rizzata in quel
luogo, e non in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle strade
più spaziose, affinchè i deputati d'ogni quartiere, muniti a questo
d'ogni facoltà più arbitraria, potessero farci applicare immediatamente
chiunque par esse loro meritevole di pena: o sequestrati che uscissero
di casa, o subalterni che non facessero il loro dovere, o chiunque
altro. Era uno di que' rimedi eccessivi e inefficaci de' quali, a quel
tempo, e in que' momenti specialmente, si faceva tanto scialacquío.
Ora, mentre Renzo guarda quello strumento, pensando perchè possa essere
alzato in quel luogo, sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede
spuntar dalla cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello:
era un apparitore; e dietro a lui due cavalli che, allungando il collo,
e puntando le zampe, venivano avanti a fatica; e strascinato da quelli,
un carro di morti, e dopo quello un altro, e poi un altro e un altro;
e di qua e di là, monatti alle costole de' cavalli, spingendoli, a
frustate, a punzoni, a bestemmie. Eran que' cadaveri, la più parte
ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati,
intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano
al tepore della primavera; che, a ogni intoppo, a ogni scossa, si
vedevan que' mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente,
e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia
svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all'occhio già inorridito
come un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio.
Il giovine s'era fermato sulla cantonata della piazza, vicino alla
sbarra del canale, e pregava intanto per que' morti sconosciuti. Un
atroce pensiero gli balenò in mente:--forse là, là insieme, là sotto...
Oh, Signore! fate che non sia vero! fate ch'io non ci pensi!--
Passato il convoglio funebre, Renzo si mosse, attraversò la piazza,
prendendo lungo il canale a mancina, senz'altra ragione della scelta,
se non che il convoglio era andato dall'altra parte. Fatti que'
quattro passi tra il fianco della chiesa e il canale, vide a destra il
ponte Marcellino; prese di lì, e riuscì in Borgo Nuovo. E guardando
innanzi, sempre con quella mira di trovar qualcheduno da farsi
insegnar la strada, vide in fondo a quella un prete in farsetto, con
un bastoncino in mano, ritto vicino a un uscio socchiuso, col capo
chinato, e l'orecchio allo spiraglio; e poco dopo lo vide alzar la
mano e benedire. Congetturò quello ch'era di fatto, cioè che finisse
di confessar qualcheduno; e disse tra sè:--questo è l'uomo che fa per
me. Se un prete, in funzion di prete, non ha un po' di carità, un po'
d'amore e di buona grazia, bisogna dire che non ce ne sia più in questo
mondo.--
Intanto il prete, staccatosi dall'uscio, veniva dalla parte di Renzo,
tenendosi, con gran riguardo, nel mezzo della strada. Renzo, quando gli
fu vicino, si levò il cappello, e gli accennò che desiderava parlargli,
fermandosi nello stesso tempo, in maniera da fargli intendere che non
si sarebbe accostato di più. Quello pure si fermò, in atto di stare a
sentire, puntando però in terra il suo bastoncino davanti a sè, come
per farsene un baluardo. Renzo espose la sua domanda, alla quale il
prete soddisfece, non solo con dirgli il nome della strada dove la
casa era situata, ma dandogli anche, come vide che il poverino n'aveva
bisogno, un po' d'itinerario; indicandogli, cioè, a forza di diritte
e di mancine, di chiese e di croci, quell'altre sei o otto strade che
aveva da passare per arrivarci.
«Dio la mantenga sano, in questi tempi, e sempre,» disse Renzo: e
mentre quello si moveva per andarsene, «un'altra carità,» soggiunse;
e gli disse della povera donna dimenticata. Il buon prete ringraziò
lui d'avergli dato occasione di fare una carità così necessaria; e,
dicendo che andava ad avvertire chi bisognava, tirò avanti. Renzo
si mosse anche lui, e, camminando, cercava di fare a sè stesso una
ripetizione dell'itinerario, per non esser da capo a dover domandare
a ogni cantonata. Ma non potreste immaginarvi come quell'operazione
gli riuscisse penosa, e non tanto per la difficoltà della cosa in
sè, quanto per un nuovo turbamento che gli era nato nell'animo. Quel
nome della strada, quella traccia del cammino l'avevan messo così
sottosopra. Era l'indizio che aveva desiderato e domandato, e del
quale non poteva far di meno; nè gli era stato detto nient'altro,
da che potesse ricavare nessun augurio sinistro; ma che volete?
quell'idea un po' più distinta d'un termine vicino, dove uscirebbe
d'una grand'incertezza, dove potrebbe sentirsi dire: è viva, o sentirsi
dire: è morta; quell'idea l'aveva così colpito, che, in quel momento,
gli sarebbe piaciuto più di trovarsi ancora al buio di tutto, d'essere
al principio del viaggio, di cui ormai toccava la fine. Raccolse però
le sue forze, e disse a sè stesso:--ehi! se principiamo ora a fare il
ragazzo, com'anderà?--Così rinfrancato alla meglio, seguitò la sua
strada, inoltrandosi nella città.
Quale città! e cos'era mai, al paragone, quello ch'era stata l'anno
avanti, per cagion della fame!
Renzo s'abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e
più desolate: quella crociata di strade che si chiamava il _carrobio_
di porta Nuova. (C'era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad
essa, accanto a dove ora è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa
col titolo di sant'Anastasia.) Tanta era stata in quel vicinato la
furia del contagio, e il fetor de' cadaveri lasciati lì, che i pochi
rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare: sicchè, alla mestizia
che dava al passeggiero quell'aspetto di solitudine e d'abbandono,
s'aggiungeva l'orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi della
recente abitazione. Renzo affrettò il passo, facendosi coraggio col
pensare che la meta non doveva essere così vicina, e sperando che,
prima d'arrivarci, troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e
infatti, di lì a non molto riuscì in un luogo che poteva pur dirsi
città di viventi; ma quale città ancora, e quali viventi! Serrati,
per sospetto e per terrore, tutti gli usci di strada, salvo quelli
che fossero spalancati per esser le case disabitate, o invase; altri
inchiodati e sigillati, per esser nelle case morta o ammalata gente
di peste; altri segnati d'una croce fatta col carbone, per indizio ai
monatti, che c'eran de' morti da portar via: il tutto più alla ventura
che altro, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche
commissario della Sanità o altro impiegato, che avesse voluto eseguir
gli ordini, o fare un'angheria. Per tutto cenci e, più ributtanti
de' cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle
finestre; talvolta corpi, o di persone morte all'improvviso, nella
strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o
cascati da' carri medesimi, o buttati anch'essi dalle finestre: tanto
l'insistere e l'imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli
animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni riguardo sociale!
Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze,
ogni grido di venditori, ogni chiacchierío di passeggieri, era ben
raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di
carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichío d'infermi, da urli
di frenetici, da grida di monatti. All'alba, a mezzogiorno, a sera,
una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate
dall'arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell'altre
chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a
pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti,
che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto.
Morti a quell'ora forse i due terzi de' cittadini, andati via o
ammalati una buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso
della gente di fuori, de' pochi che andavan per le strade, non se ne
sarebbe per avventura, in un lungo giro, incontrato uno solo in cui
non si vedesse qualcosa di strano, e che dava indizio d'una funesta
mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più qualificati, senza
cappa nè mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile;
senza sottana i preti, e anche de' religiosi in farsetto; dismessa
in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar
qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio
agli untori. E fuor di questa cura d'andar succinti e ristretti il
più che fosse possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe
le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima
costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature, non
solo per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento,
ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e
condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora: nome
che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d'infamia, e ne
meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano
da una mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento
minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo; dall'altra pasticche
odorose, o palle di metallo o di legno traforate, con dentro spugne
inzuppate d'aceti medicati; e se le andavano ogni tanto mettendo al
naso, o ce le tenevano di continuo. Portavano alcuni attaccata al collo
una boccetta con dentro un po' d'argento vivo, persuasi che avesse
la virtù d'assorbire e di ritenere ogni esalazione pestilenziale; e
avevan poi cura di l'innovarlo ogni tanti giorni. I gentiluomini, non
solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta
in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici,
quando pur due s'incontrassero per la strada, si salutavan da lontano,
con cenni taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare,
per iscansare gli schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era
sparso e, in qualche luogo, anche affatto ingombro: ognuno cercava di
stare in mezzo alla strada, per timore d'altro sudiciume, o d'altro
più funesto peso che potesse venir giù dalle finestre; per timore
delle polveri venefiche che si diceva essere spesso buttate da quelle
su' passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte.
Così l'ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva
ora angustie all'angustie, e dava falsi terrori, in compenso de'
ragionevoli e salutari che aveva levati da principio.
Tal era ciò che di meno deforme e di men compassionevole si faceva
vedere intorno, i sani, gli agiati: chè, dopo tante immagini di
miseria, e pensando a quella ancor più grave, per mezzo alla quale
dovrem condurre il lettore, non ci fermeremo ora a dir qual fosse
lo spettacolo degli appestati che si strascicavano o giacevano per
le strade, de' poveri, de' fanciulli, delle donne. Era tale, che il
riguardante poteva trovar quasi un disperato conforto in ciò che ai
lontani e ai posteri fa la più forte e dolorosa impressione; nel
pensare, dico, nel vedere quanto que' viventi fossero ridotti a pochi.
In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del
suo cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui
doveva voltare, sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si
faceva distinguere quel solito orribile tintinnío.
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