I promessi sposi. - 06

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insieme di comando e di supplica, e dicendo: «per amor del cielo!»
«Delle sue!» esclamò Perpetua. «Oh che birbone! oh che soverchiatore!
oh che uomo senza timor di Dio!»
«Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?»
«Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor
padrone?»
«Oh vedete,» disse don Abbondio, con voce stizzosa: «vedete che bei
pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi
fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di levarnela.»
«Ma! io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi....»
«Ma poi, sentiamo.»
«Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro
arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di
nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per
sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse
una bella lettera, per informarlo come qualmente....»
«Volete tacere? volete tacere? Son pareri cedesti da dare a un
pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena,
Dio liberi! l'arcivescovo me la leverebbe?»
«Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi
cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre
veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta
rispetto; e, appunto perchè lei non vuol mai dir la sua ragione, siam
ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a....»
«Volete tacere?»
«Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che
uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le....»
«Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?»
«Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da
sè, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.»
«Ci penserò io,» rispose, brontolando, don Abbondio: «sicuro; io ci
penserò, io ci ho da pensare.» E s'alzò, continuando: «non voglio
prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a
pensarci a me. Ma! la doveva accader per l'appunto a me.»
«Mandi almen giù quest'altro gocciolo,» disse Perpetua, mescendo. «Lei
sa che questo le rimette sempre lo stomaco.»
«Eh! ci vuoi altro, ci vuoi altro, ci vuoi altro.»
Così dicendo, prese il lume, e, brontolando sempre: «una piccola
bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com'andrà?» e altre
simili lamentazioni, s'avviò per salire in camera. Giunto su la soglia,
si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con
tono lento e solenne: «per amor del cielo!» e disparve.


CAPITOLO II.

Si racconta che il principe di Condé dormi profondamente la notte
avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato;
secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie,
e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio invece
non sapeva altro ancora se non che l'indomani sarebbe giorno di
battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte
angosciose. Non far caso dell'intimazione ribalda, nè delle minacce,
e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in
deliberazione. Confidare a Renzo l'occorrente, e cercar con lui qualche
mezzo.... Dio liberi! «Non si lasci scappar parola.... altrimenti....
_ehm!_» aveva detto un di que' bravi; e, al sentirsi rimbombar
quell'_ehm!_ nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire
una tal legge, si pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua.
Fuggire? Dove? E poi! Quant'impicci, e quanti conti da rendere! A
ogni partito che rifiutava, il pover'uomo si rivoltava nel letto.
Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di
guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito,
che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze;--e, se posso
tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due
mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose.--Ruminò
pretesti da metter in campo; e, benchè gli paressero un po' leggieri,
pur s'andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe
fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe
gran vantaggio sur un giovanotto ignorante.--Vedremo,--diceva tra
sè:--egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato
son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu
ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne
di mezzo.--Fermato così un poco l'animo a una deliberazione, potè
finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo,
Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate.
Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento
molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all'idee abituali
della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di
cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo
in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento,
don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò
in essi, gli ordinò meglio, s'alzò, e stette aspettando Renzo con
timore e, ad un tempo, con impazienza.
Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare.
Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al
curato, v'andò, con la lieta furia d'un uomo di vent'anni, che deve in
quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall'adolescenza, rimasto
privo de' parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta,
ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni
indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno
che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il
lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l'emigrazione continua
de' lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi
e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che
rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che
faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo;
di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque
quell'annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si
cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che,
da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio,
si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la
fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario
colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de'
calzoni, con una cert'aria di festa e nello stesso tempo di bravería,
comune allora anche agli uomini più quieti. L'accoglimento incerto
e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi
gioviali e risoluti del giovinotto.
--Che abbia qualche pensiero per la testa,--argomentò Renzo tra sè, poi
disse: «son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che
ci troviamo in chiesa.»
«Di che giorno volete parlare?»
«Come, di che giorno? non si ricorda che s'è fissato per oggi?»
«Oggi?» replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima
volta. «Oggi, oggi.... abbiate pazienza, ma oggi non posso.»
«Oggi non può! Cos'è nato?»
«Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.»
«Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di
così poca fatica....»
«E poi, e poi, e poi....»
«E poi che cosa?»
«E poi c'è degli imbrogli.»
«Degl'imbrogli? Che imbrogli ci può essere?»
«Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci
nascono in queste materie, quanti conti s'ha da rendere. Io son
troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a
facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il
mio dovere; e poi mi toccan de' rimproveri, e peggio.»
«Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica
chiaro e netto cosa c'è.»
«Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un
matrimonio in regola?»
«Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa,» disse Renzo, cominciando ad
alterarsi, «poichè me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi
giorni addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni cosa? non s'è fatto tutto
ciò che s'aveva a fare?»
«Tutto, tutto, pare a voi: perchè, abbiate pazienza, la bestia son io,
che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora....
basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l'ancudine e
il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovine; e i
superiori.... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne
andiam di mezzo.»
«Ma mi spieghi una volta cos'è quest'altra formalità che s'ha a fare,
come dice; e sarà subito fatta.»
«Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?»
«Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?»
«_Error_, _conditio_, _votum_, _cognatio_, _crimen_, _Cultus
disparitas_, _vis_, _ordo_, _ligamen_, _honestas_, _Si sis affinis_,...»
cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
«Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch'io faccia
del suo _latinorum_?»
«Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi
le sa.»
«Orsù!...»
«Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare....
tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi
voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi
mancava? V'è saltato il grillo di maritarvi....»
«Che discorsi son questi, signor mio?» proruppe Renzo, con un volto tra
l'attonito e l'adirato.
«Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi
contento.»
[Illustrazione: RENZO (pag. 22)]
«In somma....»
«In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l'ho fatta
io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati
a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano
impedimenti.»
«Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?»
«Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi.
Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi
le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: _antequam matrimonium
denunciet_....»
«Le ho detto che non voglio latino.»
«Ma bisogna pur che vi spieghi....»
«Ma non le ha già fatte queste ricerche?»
«Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.»
«Perchè non le ha fatte a tempo? perchè dirmi che tutto era finito?
perchè aspettare....»
«Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per
servirvi più presto: ma.... ma ora mi son venute.... basta, so io.»
«E che vorrebbe ch'io facessi?»
«Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno
non è poi l'eternità: abbiate pazienza.»
«Per quanto?»
--Siamo a buon porto,--pensò tra sè don Abbondio; e, con un fare più
manieroso che mai, «via,» disse: «in quindici giorni cercherò,...
procurerò....»
«Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! S'è fatto tutto ciò che
ha voluto lei; s'è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi
viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici....» riprese poi,
con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio e battendo il pugno
nell'aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se
don Abbondio non l'avesse interrotto, prendendogli l'altra mano, con
un'amorevolezza timida e premurosa: «via, via, non v'alterate, per amor
del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana....»
«E a Lucia che devo dire?»
«Ch'è stato un mio sbaglio.»
«E i discorsi del mondo?»
«Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo
buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio?
via, per una settimana.»
«E poi, non ci sarà più altri impedimenti?»
«Quando vi dico....»
«Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata
questa, non m'appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.» E
così detto, se n'andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo
del solito, e dandogli un'occhiata più espressiva che riverente.
Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la
casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su
quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda
e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e
impaziente, que' due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre
andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d'incontrarsi
con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del
matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell'accennar
sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste
circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un
mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere.
Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo
alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide
Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi
passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva
l'uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col
disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar
discorso con essa.
«Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri
insieme.»
«Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.»
«Fatemi un piacere: quel benedett'uomo del signor curato m'ha
impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi
voi meglio perchè non può o non vuole maritarci oggi.»
«Oh! vi par egli ch'io sappia i segreti del mio padrone?»
--L'ho detto io, che c'era mistero sotto,--pensò Renzo; e, per tirarlo
in luce, continuò: «via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete,
aiutate un povero figliuolo.»
«Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.»
«È vero,» riprese questo, sempre più confermandosi ne' suoi sospetti;
e, cercando d'accostarsi più alla questione, «è vero,» soggiunse, «ma
tocca ai preti a trattar male co' poveri?»
«Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perchè.... non so niente; ma
quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto,
nè a voi nè a nessuno; e lui non ci ha colpa.»
«Chi è dunque che ci ha colpa?» domandò Renzo, con un cert'atto
trascurato, ma col cuor sospeso, e con l'orecchio all'erta.
«Quando vi dico che non so niente.... In difesa del mio padrone, posso
parlare; perchè mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far
dispiacere a qualcheduno. Pover'uomo! se pecca, è per troppa bontà. C'è
bene a questo mondo de' birboni, de' prepotenti, degli uomini senza
timor di Dio....»
--Prepotenti! birboni!--pensò Renzo:--questi non sono i superiori.
«Via,» disse poi, nascondendo a stento l'agitazione crescente, «via,
ditemi chi è.»
«Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perchè.... non
so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere.
Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è
tempo perduto per tutt'e due.» Così dicendo, entrò in fretta nell'orto,
e chiuse l'uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian
piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu
fuor del tiro dell'orecchio della buona donna, allungò il passo; in un
momento fu all'uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto
dove l'aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare
ardito, e con gli occhi stralunati.
«Eh! eh! che novità è questa?» disse don Abbondio.
«Chi è quel prepotente,» disse Renzo, con la voce d'un uomo ch'è
risoluto d'ottenere una risposta precisa, «chi è quel prepotente che
non vuol ch'io sposi Lucia?»
«Che? che? che?» balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in
un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E,
pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi
all'uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava
all'erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca.
«Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di
me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?»
«Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima
vostra.»
«Penso che lo voglio saper subito, sul momento.» E, così dicendo, mise,
forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva
dal taschino.
«Misericordia!» esclamò con voce fioca don Abbondio.
«Lo voglio sapere.»
«Chi v'ha detto....»
«No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.»
«Mi volete morto?»
«Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.»
«Ma se parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita?»
«Dunque parli.»
Quel «dunque» fu proferito con una tale energia, l'aspetto di Renzo
divenne così minaccioso, che don Abbondio non potè più nemmen supporre
la possibilità di disubbidire.
«Mi promettete, mi giurate,» disse «di non parlarne con nessuno, di non
dir mai...?»
«Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il
nome di colui.»
A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di
chi ha in bocca le tenaglie del cavadenti, proferì: «don....»
«Don?» ripetè Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il
resto; e stava curvo, con l'orecchio chino sulla bocca di lui, con le
braccia tese, e i pugni stretti all'indietro.
«Don Rodrigo!» pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle
poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento,
parte perchè, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva
libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse
sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch'era costretto
a metterla fuori.
«Ah cane!» urlò Renzo. «E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?»
«Come eh? come?» rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il
quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto
creditore. «Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata
a me, che non c'entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti
tanti grilli in capo.» E qui si fece a dipinger con colori terribili
il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d'una
gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta
e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra
la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò
allegramente: «avete fatta una bella azione! M'avete reso un bel
servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in
casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi
di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch'io vi nascondevo per
prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi
faceste...! Per amor del ciclo! Non si scherza. Non si tratta di torto
o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un
buon parere.... eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per
voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.»
«Posso aver fallato,» rispose Renzo, con voce raddolcita verso don
Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico
scoperto: «posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se
nel mio caso....»
Così dicendo, s'era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire.
Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella
toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti
agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui
dal canto suo, «giurate almeno....» gli disse.
«Posso aver fallato; e mi scusi,» rispose Renzo, aprendo, e
disponendosi ad uscire.
«Giurate....» replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la
mano tremante.
«Posso aver fallato,» ripetè Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in
furia, troncando così la questione, che, al pari d'una questione di
letteratura o di filosofia o d'altro, avrebbe potuto durar dei secoli,
giacchè ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio
argomento.
«Perpetua! Perpetua!» gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato
il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che
mondo si fosse.
È accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto affare che don
Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza
di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la
febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perchè
gli si offerse da sè. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa
della notte, la paura avuta in quel momento, l'ansietà dell'avvenire,
fecero l'effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone,
cominciò a sentirsi qualche brivido nell'ossa, si guardava le unghie
sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e
stizzosa: «Perpetua!» La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il
braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al
lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i «voi sola
potete aver parlato,» e i «non ho parlato,» tutti i pasticci insomma di
quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter
la stanga all'uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun
bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con
la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini,
«son servito;» e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.
Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver
determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far
qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori,
tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei,
non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui
portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno
dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni insidia; ma, in que'
momenti, il suo cuore non batteva che per l'omicidio, la sua mente non
era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre
alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e.... ma gli veniva
in mente ch'era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro,
e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti
v'entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che
un artigianello sconosciuto non vi potrebb'entrare senza un esame,
e ch'egli sopra tutto.... egli vi sarebbe forse troppo conosciuto.
Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d'appiattarsi dietro
una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e,
internandosi, con feroce compiacenza, in quell'immaginazione, si
figurava di sentire una pedata, quella pedata, d'alzar chetamente
la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva
la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava
una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in
salvo.--E Lucia?--Appena questa parola si fu gettata a traverso di
quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente
di Renzo, v'entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de'
suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de' santi, pensò alla
consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti,
all'orrore che aveva tante volte provato al racconto d'un omicidio; e
si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e
insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare.
Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze,
tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro,
e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una
tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto
della forza di quell'iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un
sospetto formato, ma un'ombra tormentosa gli passava per la mente.
Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una
brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più
piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che
potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n'era informata?
Poteva colui aver concepita quell'infame passione, senza che lei se
n'avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d'averla tentata
in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al
suo promesso!
Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch'era nel mezzo
del villaggio, e, attraversatolo, s'avviò a quella di Lucia, ch'era
in fondo, anzi un po' fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile
dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino.
Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzío che veniva
da una stanza di sopra. S'immaginò che sarebbero amiche e comari,
venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato,
con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava
nel cortile, gli corse incontro gridando: «lo sposo! lo sposo!»
«Zitta, Bettina, zitta!» disse Renzo. «Vien qua; va su da Lucia, tirala
in disparte, e dille all'orecchio.... ma che nessun senta, nè sospetti
di nulla, ve'.... dille che ho da parlarle, che l'aspetto nella stanza
terrena, e che venga subito.» La fanciulletta salì in fretta le scale,
lieta e superba d'avere una commission segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre.
Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perchè si lasciasse
vedere; e lei s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera
delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola
sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la
bocca s'apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra
la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro
il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli
d'argento, che si dividevano all'intorno, quasi a guisa de' raggi
d'un'aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno
al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d'oro a
filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche
separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio
di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle,
di seta anch'esse, a ricami. Oltre a questo, ch'era l'ornamento
particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano
d'una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie
affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un
turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand'in
quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un
carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio,
s'accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da
comunicarle, e le disse la sua parolina all'orecchio.
«Vo un momento, e torno,» disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al
veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, «cosa c'è?»
disse, non senza un presentimento di terrore.
«Lucia!» rispose Renzo, «per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando
potremo esser marito e moglie.»
«Che?» disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la
storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì
il nome di don Rodrigo, «ah!» esclamò, arrossendo e tremando, «fino a
questo segno!»
[Illustrazione: LUCIA (pag. 32)]
«Dunque voi sapevate...?» disse Renzo.
«Pur troppo!» rispose Lucia; «ma a questo segno!»
«Che cosa sapevate?»
«Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia
madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli.»
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