Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 15

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infiniti patrimonii di San Pietro, sempre trovava modo di mandare al
patrizio di Sicilia alcun suo fidato che spiasse gli umori del paese,
gli intendimenti del governo, le novelle della corte di Costantinopoli.
E com'avrebbe fatto un ministro di polizia, puntualmente e
sommessamente, il papa ne ragguagliava Carlomagno.
Gittano un baleno di luce su coteste pratiche le epistole di papa Leone
allo imperatore, date dell'ottocento tredici, quando si temeva in Italia
un assalto dei Musulmani. Ritraggiamo da quelle che Carlomagno avea
scritto al patrizio, e mandato la lettera per mani del nunzio papale;
che il patrizio, in luogo di rispondere allo imperator di Occidente,
s'era indirizzato al papa; e che questi, senza dissuggellare la risposta
che andava a suo nome, l'avea fatto capitare a Carlomagno; aggiugnendo
gli avvisi che ritraea, dal patrizio non già, ma dalla bocca del proprio
nunzio. Di più, questi era stato tenuto nel palagio del patrizio in
custodia d'un segretario; guardato a vista quasi parlamentario ch'entri
in una fortezza assediata. Tant'oltre andavano i sospetti o i disegni
del patrizio, ch'ei ragionando con l'uom del papa in ottobre, non
raccontava altrimenti i fatti di Costantinopoli del luglio, che con dire
chiuso in un monastero Michele Rangabe, senza far motto del
successore;[280] e che infino a mezzo novembre par che Gregorio si
sforzasse a dissimulare al papa il mutamento di signoria assodato già
nella capitale.[281] Da cotesti indizii non si può ritrarre se il
patrizio evitasse di rispondere a Carlomagno per osservare alcuna
formalità diplomatica del tempo, per eludere qualche domanda che gli
recava disagio, ovvero per differire a riconoscere la esaltazione di
Leone l'Armeno, sperando, sia che il Rangabe risalisse sul trono, sia
che ei medesimo favorito dall'esercito di Sicilia potesse tentar novità.
Ciò che di certo si vede è la importanza dell'uficio di stratego e
patrizio di Sicilia in questo tempo, e la scherma di astuzie con che
combatteva contro il pontefice di Roma: bizantino contro papalino,
proprio maestri di buona scuola!
Morto di lì a poco Carlomagno (gennaio 814), e dopo due anni anco papa
Leone Terzo, e raccesa da Leone Armeno la lite delle immagini (815),
avrebbe potuto per avventura la Sicilia fare scala al racquisto dei
territorii perduti dall'Impero di Costantinopoli nell'Italia
meridionale. Le relazioni dell'isola con quella regione di terraferma
avrebbero favorito il disegno; poichè par che fossero rese più frequenti
e amichevoli dall'interesse comune dei popoli. Così veggiamo i
Napoletani, sotto il regno di Leone l'Armeno, mandar a cercare in
Sicilia un Teoctisto per farlo capitano di loro repubblica.[282] Così
anco i Siciliani esercitare commerci sì frequenti in Calabria su i
confini dello Stato longobardo di Benevento, che le gabelle pagate da
loro montavano a grossa somma di danaro.[283] Pertanto un novello sforzo
dell'impero bizantino avrebbe trovato condizioni assai favorevoli. Ma i
due soldati che regnarono successivamente a Costantinopoli, furono
distolti da altre cure. Leone l'Armeno si travagliò aspramente in guerra
contro i Bulgari (813-815), poi contro i frati iconolatri dell'Impero.
Michele il Balbo, che l'uccise, e gli succedette (26 dicembre 820),
s'ebbe a difendere da un altro vecchio commilitone, Tommaso di
Cappadocia: fattosi gridare imperatore; venuto ad assediare
Costantinopoli; e spento a grandissima fatica, dopo tre anni di guerra
(823). Tennero dietro a cotesti travagli, lo sbarco dei Musulmani a
Creta; le sconfitte degli eserciti bizantini mandativi al racquisto
(823-825). Pertanto, non che pensare alla terraferma d'Italia, Michele
il Balbo, non valse a reprimere per parecchi anni i movimenti di
Sicilia, dei quali si dirà nel seguente libro.


CAPITOLO IX.

Ho differito fin qui a toccare le condizioni interne della Sicilia
bizantina, perchè procedettero in parte dalle raccontate vicende dei due
continenti tra i quali l'isola è posta. Cominciando la investigazione,
dirò, innanzi ogni altra cosa, della schiatta ch'è elemento sì potente
nei destini dei popoli. Fermata in Sicilia la dominazione romana, il
grosso della popolazione eran Sicoli e Greci; non rimanendo più degli
altri che la memoria, e forse un po' di gente punica nelle parti di
ponente; la quale par che non tardasse a dileguarsi. Il conquisto portò
novelli abitatori italiani, tra colonie e gente spicciolata che venía
per faccende e officii; ma poche e sottili le colonie; gli altri spesso
se ne tornavano; e parmi che il più potente effetto della signoria
romana su la popolazione dell'isola sia stato di ritirare ai costumi e
linguaggio dell'Italia i Sicoli, che, sforzati dall'incivilimento greco,
stavano perdendo financo l'uso del proprio dialetto, e diremmo anzi che
l'avessero abbandonato al tutto, se dovessimo stare alla lettera d'un
passo di Diodoro.[284] Le torme poi di schiavi, ragunate da tante
regioni e sparse nelle campagne della Sicilia, se non si consumavano
senza prole, al certo il sangue loro, sterile per miseria e diverso, non
creò schiatta nuova da poter contare. Gli Ebrei stanziati nelle città
principali, segnalavansi meno per lo numero loro, che per lo avere e per
l'odio reciproco con le altre schiatte.[285] I popoli settentrionali,
come dicemmo, furon turbine passaggiero. Da Giustiniano ai Musulmani il
decrepito Impero non potea mandar colonie; se non che ripararono in
Sicilia i rifuggiti d'Italia e d'Affrica dei quali abbiam detto nei
capitoli precedenti; e inoltre egli è probabile che a stilla a stilla
s'accogliesse nell'isola qualche rimasuglio degli ospiti che vi mandava
il governo bizantino: officiali pubblici, soldati delle provincie
d'Europa o dell'Asia Minore,[286] e relegati per cagion di Stato.[287]
Tra gli altri v'ebbe un corpo di mille uomini, avanzo delle soldatesche
armene sollevatesi a Costantinopoli il settecento novantadue, che furono
mandati nelle isole, sopratutto in Sicilia,[288] ove par che abbiano
fatto stanza, poichè troviamo nelle guerre de' Musulmani[289] la
espugnazione d'un castello degli Armeni (a. 861). Dal detto fin qui si
vede che per lo spazio di mille anni non capitarono in Sicilia tante
popolazioni avventizie, che potessero mutare le schiatte esistenti.
S'accorda in ciò con le tradizioni storiche il ragguaglio statistico di
Costantino Porfirogenito, il quale trattando dei proprii suoi tempi
(911-959) o piuttosto di quelli anteriori al conquisto musulmano, scrive
essere gli isolani parte Liguri d'Italia, chiamati altrimenti Sicoli, e
parte Greci, ossiano Sicelioti.[290] Con denominazione più esatta si
direbbero le due schiatte, italica ed ellenica, ciascuna delle quali
abbracciava le genti affini a lei, sopravvenute nei due periodi delle
dominazioni romana e bizantina.
Qual delle due genti prevalesse di numero non si ritrae; e forse erano e
si mantennero più uguali che non si è pensato. Aiutandoci con le
induzioni, poichè mancano le testimonianze dirette, troviamo, egli è
vero, dal principio dell'era volgare infino al sesto secolo, moltissime
iscrizioni latine pubbliche o private anco nelle principali città greche
dell'isola, e latini negli ultimi tempi i titoli dei magistrati
municipali; ma tra ricordi letterarii, epigrafia e nomi proprii si vede
la lingua greca non aver ceduto il campo in alcun luogo.[291] Un papiro
del quinto secolo che dà i nomi degli affittuali di certi poderi, ne
contiene più greci che latini:[292] e alla fine del sesto secolo, San
Gregorio ci parla degli abitatori greci e latini.[293] Gli annali
ecclesiastici poi dell'isola, dal sei all'ottocento, ci mostrano la
medesima promiscuità delle due genti: dove monasteri basiliani e dove di
regole latine; esaltati alcuni Siciliani alla sede pontificale di Roma,
altri a quella d'Antiochia;[294] un dei papi siciliani, Leone II
(682-683), lodato per lo eloquente parlare in greco e in latino;[295] e
alla fine del sesto secolo la opinione pubblica in Sicilia pendere
incerta tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli.[296] Finalmente,
sendo stata alla metà dell'ottavo secolo assoggettata l'isola al
patriarca costantinopolitano, scomparisce il latino, e torna su il greco
negli scritti dei frati siciliani e negli scarsi monumenti d'epigrafia
che ci avanzano di quel tempo. Così fatta vicenda non può condurre al
supposto che la schiatta e la lingua greca in Sicilia, dopo esser calate
durante la dominazione romana e le barbariche, d'un subito risalissero e
occupassero tutta l'isola per virtù della dominazione bizantina. È da
conchiudere più tosto che i due popoli si pareggiassero con poco divario
per tutto il corso degli otto primi secoli dell'era cristiana; che ambo
le lingue fossero state più o meno in uso, come ai tempi di
Diodoro,[297] se pur il popolo non cominciava a parlarne già una diversa
da entrambe e più vicina all'italiana; e che la influenza del governo e
della Chiesa facessero prevalere negli scritti il latino prima e il
greco dopo di Giustiniano.[298]
Nè tra le due schiatte si vide mai differenza di condizione legale: chè
nobili e plebei vi furono in entrambe, secondo l'antica riputazione
delle famiglie e le vicende della ricchezza e lo splendore delle
pubbliche dignità. Della condizione di nobili e plebei non dirò
altrimenti, perchè reggendosi l'isola ormai a legge romana si torna a
notissime generalità: nè occorre ripetere come da Costantino in poi
fosse sostituita all'aristocrazia di nascita la gerarchia dei servidori
di corte e officiali dello Stato, innalzati a piacimento del despota; e
come fossero al tutto ragguagliati i dritti delle persone, sì che tra
gli uomini liberi non rimase che una sola distinzione di poco momento.
Dico della curia, nella quale non godeasi altro privilegio che la
immunità da certe pene nei casi criminali; e il governo vi ascrivea
involontarii i figliuoli di militari quando non fossero validi a portare
ancor essi le armi, i proprietarii di venticinque iugeri o più di
terreno, e gli affittuali in grande dei poderi del patrimonio
imperiale.[299] Donde è manifesto che la curia non va chiamata
aristocrazia, ma veramente popolani grassi o borghesi.
Dalle città volgendoci alle campagne, veggiamo altresì oscillare le
classi della società antica, e posare alfine in una condizione di mezzo
tra la libertà e la schiavitù. A ben comprendere i ricordi che abbiamo
di tal mutamento, in Sicilia, è mestieri studiarlo prima per generalità.
Venne da due motivi d'indole diversa; la coscienza, cioè, e l'interesse:
i quali allor s'aiutarono scambievolmente, sì come par che avvenga ad
ogni novello passo della civiltà. I principii umanitarii di filosofia
pagana, attestati dalle opere di Seneca, Plinio e Plutarco, e messi in
pratica negli editti d'Adriano e degli Antonini, cominciavano a
temperare i mali della schiavitù, quando sottentrato il Cristianesimo,
che si allargava e metteva radici, incalzò la santa opera.[300] Intanto
la esperienza mostrava che la infeconda genía degli schiavi scemasse
sempre più; e, aggiunta a questo la inefficacia del lavoro comandato coi
supplizii, i campi con doppia celerità deterioravano. Ma se la pace
dell'Impero togliea di rifornire gli schiavi con altre torme di vinti,
la decadenza universale apparecchiava in luogo di quelli torme di
poveri, fossero i proprietarii minori spogliati dal fisco imperiale, o
le popolazioni industriali, libere e non libere, che fuggivano per
miseria dalle città. Cercando ricetto e pane nei poderi dei ricchi,
l'otteneano a prezzo di rimanervi da coloni; e par che i proprietarii
del suolo, vedendo la utilità che ne ritraeano, s'invogliassero ad
emancipare e porre nella medesima condizione gli antichi schiavi.[301]
Cotesto mutamento di sorti par che siasi accelerato dal secondo o terzo
secolo in poi; perocchè ai tempi di Costantino il Grande si parla dei
coloni come di notissima e frequente qualità d'uomini, e si provvede
tuttavia con crudeltà a tenere obbedienti gli schiavi, ma nelle leggi
dei tempi seguenti a mano a mano il nome degli schiavi divien più raro,
e spesseggia ai contrario quel dei coloni.[302] Io non dirò altrimenti
della condizione degli schiavi, ch'è notissima; e ognun sa come andasse
in meglio da Costantino a Giustiniano. Quella de' coloni era che
rimaneano attaccati al suolo essi e i loro figliuoli e i nepoti
perpetuamente, e pagavano un tributo annuale per la terra assegnata; che
poteano acquistare beni mobili e stabili con la propria industria, ma
non alienarli senza permesso del padrone; che, fuggendo dal podere, la
legge dava al padrone di ridurli in schiavitù, e concedea di ripigliarli
in termine di trent'anni per gli uomini, e di venti per le donne; e che
tal prescrizione, assai più lunga di quella fissata per gli schiavi, non
si interrompea nè anco per morte, poichè, mancato il colono, correva a
pregiudizio de' figliuoli.[303] Tal condizione dunque non differì dalla
servitù della gleba dei tempi feudali, se non che per la origine: la
romana sempre da contratto, se tal può chiamarsi un patto sì disuguale
ed empio; la feudale talvolta da contratto, e talvolta dalla supposta
ragion di guerra, che avea generato la schiavitù personale nel mondo
antico, e nel mondo moderno si adopera a giustificare la servitù delle
nazioni.
Or la popolazione rurale della Sicilia durò a un di presso le medesime
vicende che abbiamo notato nel rimanente dell'Impero. Tolta una picciola
mano di affittuali, chiamati conduttori,[304] i quali nè anco è da
supporre liberi in tutti i casi, coltivavano le campagne i coloni[305] e
gli schiavi,[306] che sembrano talvolta confusi nell'uso volgare del
linguaggio, come di fatto lo erano nella abiezione e nella miseria. Il
Cristianesimo, o almeno i Cristiani di quel tempo e di molti secoli
appresso, non abborrirono la servitù men cruenta della gleba; il clero
la mantenne più tenacemente che i laici stessi nelle sue proprietà; e un
pontefice santo e grande, Gregorio I, lodato tanto per la carità verso
gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia, ribadì le catene dei
coloni dei poderi papali in Sicilia. Smesse, egli è vero, le taglie su i
loro matrimonii; smesse i furti che l'azienda pontificia solea fare,
frodando que' miseri nel prezzo e nella misura dei grani, obbligandoli a
supplire le derrate, che, mandate a Roma, si perdessero per fortuna di
mare, e richiedendo il censo pria che si vendessero le raccolte.[307] A
tuttociò rimediava San Gregorio: ed era insieme giustizia e prudenza di
buon massaio. Ma quando la coscienza gli richiedeva un atto magnanimo,
entrò di mezzo la cupidigia che già sedea presso al trono pontificale, e
con lei l'altra tentatrice a profanazione, che fu l'ambizione politica.
Il sommo vescovo si ricordò soltanto ch'era proprietario; pensò
falsamente che la libertà dei coloni di Sicilia potesse scemare le
entrate e indi attraversare i disegni suoi a Roma: e vinta dal comodo
presente la logica morale, San Gregorio, non solo non disdisse la
servitù della gleba, ma vietò ai suoi coloni di maritare i figliuoli con
gente d'altri poderi.[308] Non debbo tacere infine che San Gregorio
discordò talvolta da' nobilissimi suoi principii in fatto della
schiavitù propriamente detta. Nell'atto di emancipazione dei due schiavi
romani Montano e Tommaso, dato del cinquecento novantasei, seppe ei ben
dire: “Che se il Redentore s'incarnò per spezzare i ceppi dell'umanità,
ottima cosa era di manomettere e rendere all'antica franchigia gli
uomini, creati liberi dalla natura e sottomessi dal dritto delle genti
al giogo della servitù.”[309] Seppe egli ancora, con nobile dispregio
della ragion fattizia delle leggi, comandar che si manomettessero gli
schiavi de' Giudei.[310] Ma non emancipò nè punto nè poco gli schiavi
del patrimonio in Sicilia; e, quel ch'è peggio, talvolta ne donò
altrui;[311] fece perseguitare e minacciare di gastighi severissimi que'
che fuggivano o si nascondeano in altri poderi;[312] ed è manifesto
ch'ei lasciasse non uno nè pochi schiavi, ma torme intere, e che
diciannove successori suoi nel pontificato li mantenessero sotto
l'abominevole giogo, poichè ottanta e più anni dopo la morte di San
Gregorio gli schiavi erano gran parte della ricchezza della Santa Sede.
E veramente sappiamo che Giustiniano Secondo, per far cosa grata a papa
Conone, gli rimetteva (686) “la famiglia” del patrimonio di Sicilia e di
Calabria, ch'era tenuta in pegno per debiti verso il fisco;[313] la qual
famiglia non può significare altro che schiavi, poichè si staggiva come
gli armenti, e poichè la legge fiscale permettea di prendere gli
schiavi[314] ai debitori, e non pretendea nulla da' lor coloni.[315]
Il tardo rivolgimento sociale che in dieci secoli avea fatto men
disuguali le condizioni delle persone, mutò anche un poco la proporzione
delle possessioni territoriali. Due movimenti contrarii operavano in
ciò. Tendea l'uno ad agglomerare: e nascea dal decadimento generale;
dalla menomata popolazione; dalla rovina dei proprietarii minori, che
non potean durare le gravezze e molestie del fisco; dalla iniqua
industria dei ricchi che si pigliavano i rottami di cotesti naufragi,
dopo averli affrettato con le usure; dai lasciti alle chiese, che si
moltiplicarono in Sicilia ai tempi di San Gregorio; e infine dall'avaro
dispotismo, il quale aumentava a dismisura il patrimonio imperiale con
le confiscazioni. All'incontro portavano a spicciolare le proprietà, la
legge romana su le successioni, e l'utile pratica di dare in proprietà
ai coloni le terre che coltivassero, e mutare il tributo personale in
canone su la proprietà.[316] L'azienda imperiale avea tentato lo stesso
espediente con circostanze alquanto diverse infin dal quarto secolo,
quando una parte del patrimonio di Sicilia e di Sardegna fu conceduta in
enfiteusi a picciole porzioni insieme con gli schiavi,[317] e poco
appresso si accordò ai domini utili di quei poderi la franchigia dalle
tasse straordinarie, come la godeano i beni tutti del patrimonio.[318]
Qual dei due movimenti prevalesse, sarebbe difficile a provare.
Nondimeno nei soli ricordi che abbiamo, che sono dei tempi di San
Gregorio, veggiam lasciati a chiese o monasteri di Sicilia i beni di
piccioli proprietarii; e par assurdo a supporre che non ve ne fossero
molti altri nell'isola.[319]
Più oscure e scarse notizie possiamo spigolare intorno l'industria del
paese. Il sol fatto che mi sembri certo è che i latifondi non addetti a
pascolo si coltivassero a picciole porzioni, e che perciò la cultura in
grande fosse finita con la dominazione romana che l'avea recato
nell'isola.[320] Principal prodotto del suolo fu sempre il grano.[321]
In secondo par che venisse la cultura della vite.[322] Quella
dell'ulivo, che ai tempi greci avea arricchito gli Agrigentini, sembra
abbandonata, e tornato di fatto agli abitatori dell'Affrica propria il
privilegio di fornir l'olio d'ulivo all'Italia e ad altre nazioni
occidentali. Perocchè si ritrae che, quando gli Affricani pagaron le
prime taglie ai vincitori musulmani, il capitano Abd-Allah-ibn-Sa'd,
vedendosi recare un mucchio di monete d'oro, domandava a un cittadino
come le guadagnassero, e quegli, postosi a cercare intorno, e trovata
un'uliva: “Ecco donde le caviamo,” disse ad Abd-Allah; “i Romani non
hanno ulivi, e comperano l'olio nostro con quest'oro.”[323] La
denominazione di Romani, che qui significa abitatori d'Italia, è da
estendersi nel presente caso anco alla Sicilia; sapendosi che vi si
importava olio d'Affrica nel nono secolo, nell'undecimo, e fino al
duodecimo.[324] Certo egli è poi che la Sicilia nei principii del nono
secolo avea frequenti commerci con lo stato degli Aghlabiti, e che
parecchi mercatanti musulmani stanziavano nell'isola.[325]
Se questi particolari provano che non fosse spenta al tutto la industria
in Sicilia, non mancò al certo per lo governo bizantino.
Quell'ingordigia fiscale che spogliò l'Impero prima che il facessero i
Barbari, non risparmiò le tre isole italiane poste sotto un solo
amministratore, che si chiamò il razionale delle Tre Provincie. Noi le
veggiamo sottomesse al sistema generale d'azienda: il tributo diretto su
le proprietà e su le persone; le gabelle su le merci e su le industrie;
le aggiunte straordinarie alla prima gravezza, o, come chiamavanle, le
superindizioni; le leve di soldati che si compensavano in danaro; le
leve de' marinaj; infine le estorsioni degli officiali onde si
raddoppiava il peso: delle quali maladizioni tutte abbiamo più o meno
qualche vestigio nelle memorie della Sicilia.[326] I Goti nel breve
dominio loro fecero un novello censimento delle proprietà; rimessero
debiti e tasse straordinarie.[327] Tornaron tutti i mali con la signoria
bizantina; sì che alla fine del sesto secolo il fisco in Corsica
obbligava i debitori a vendere i proprii figliuoli; in Sardegna il
giudice avea posto una taglia sul battesimo; e in Sicilia un officiale
subalterno staggiva ad arbitrio le possessioni: e ci vorrebbe un volume,
scrivea San Gregorio, a divisar tutte le iniquità che ho risaputo di
costui.[328] Non pochi imperatori a volta a volta esacerbaron cotesti
mali, come abbiam detto di Costanzo e di Leone Isaurico, che aumentò
d'un terzo la tassa diretta in Sicilia e in Calabria (a. 733) per punire
que' popoli della propensione al culto delle imagini, e della gioia che
provavano a veder fallire gli sforzi suoi contro l'Italia di mezzo.[329]
Risalendo dal popolo al governo, e lasciati da canto gli altri ordini
subalterni, che poco montano[330] e non differivano da quei delle altre
provincie, dirò solo dei corpi municipali, elemento di governo proprio
del paese, conservato come inoffensivo e comodo strumento
d'amministrazione, e sopravvissuto alla dominazione che sì lo spregiava.
Le municipalità della Sicilia, avanzo delle repubbliche greche, nei
primi tempi che seguirono il conquisto romano, ebbero condizioni
disuguali secondo la importanza delle città e i rapporti che avean
tenuto con Roma nelle precedenti guerre. Indi ne veggiamo tre maniere:
confederate, immuni e vettigali; alle quali poi se ne aggiunse una
quarta, che eran le colonie romane: e la differenza principale stava
nella gravezza e nome dei tributi che fornivano a Roma. Viveano del
resto un po' più o un po' meno largamente, secondo le proprie leggi, e
sotto i proprii magistrati, che ritennero le antiche appellazioni, dove
greche, di Proagori, Gerapoli, Anfipoli; dove latine, di Quinqueprimi,
Decemprimi, e anche di Senati per antica o novella influenza di quel
linguaggio. E dissi proprii magistrati, perchè li eleggeano i cittadini,
que', s'intenda, delle famiglie privilegiate per ricchezza e antico
soggiorno; il qual dritto di suffragio spesso diè luogo a contese e indi
a provvedimenti del governo romano che modificava a poco a poco gli
antichi statuti e li tirava a uniformità.[331] La decadenza poi delle
cittadi e l'accentramento della potestà politica, par che
ragguagliassero al tutto la condizione dei municipii siciliani, e
certamente mutilarono l'autorità loro. Dopo Costantino, questa era già
ristretta a una giurisdizione civile, forse non dissimile da quella de'
conciliatori o giudici di pace dei tempi nostri,[332] alle cure
edilizie, e all'ingrato officio di scompartire tra i cittadini il peso
delle tasse dirette, delle quali l'erario richiedeva, o per servirci
della voce tecnica d'allora, _indicea_ la somma ai municipii, e questi
la suddivideano in quote personali secondo i catasti e con l'arbitrio
che necessariamente v'entrò, sendo la contribuzione diretta non solo
fondiaria ma anco testatica. La gravità del quale officio portò ad
affidarlo non ai magistrati municipali propriamente detti, ma alla
curia, come chiamossi, ch'era senza dubbio il corpo degli elettori alle
cariche municipali:[333] infelici privilegiati, disposti forse ad
abusare il dritto loro a danno delle classi povere, ma condannati a
pagar caro l'abuso. Perocchè, dovendo sopperire del proprio le quote che
non si potessero riscuotere, furono oppressi da così fatto peso, tra la
insaziabile avarizia del governo e la universale decadenza che facea
abbandonare le terre. Indi, come ognun sa, i decurioni fuggivano il
tristo onore; si facean soldati, preti, romiti; e il governo, mettendo
tra parentesi quell'ardente e intollerante suo zelo religioso, li facea
strappare dall'altare e dal chiostro, e ricondurre per forza a lor sedie
curuli.[334] Così la necessità del fisco portò a mantenere l'ordine
fondamentale delle municipalità. Rinforzolle un altro provvedimento,
nato sotto l'infausto regno di Valentino dai soprusi della burocrazia.
Dico della istituzione dei difensori eletti dalla plebe: ombra di
tribunato, o a dire propriamente, avvocati del popolo, che avean dritto
a essere intesi dai giudici, dai governatori e dal principe; il quale
officio poi si accordò anche all'ordine ecclesiastico; e, occupato
infine dai vescovi, accrebbe non poco la loro potenza civile in
Occidente. Molti documenti provano che così fatto sistema municipale
fosse pienamente osservato in Sicilia, e ci mostrano in varie città i
titoli di possessori e curiali, di padri e primi e decemprimi, e di
difensori; cioè gli elettori, gli antichi magistrati municipali e il
nuovo officio: ai quali collettivamente son indirizzati rescritti dei
principi per negozii di giurisdizione municipale. Inoltre un rescritto
imperiale, dato alla fine del quarto secolo, attesta che le città di
Sicilia, siccome quelle d'altre provincie, ritenessero i beni lor
proprii. E come in appresso non v'ha legge che abbia innovato quegli
ordini, e li veggiamo andare innanzi bene o male per ogni luogo, non è
dubbio che le instituzioni municipali durassero nell'isola fino al
conquisto dei Musulmani.[335]
Dai corpi intermedii rivolgendoci al principato, non possiam fare che un
cenno del sistema generale dell'Impero. Questo, come ognun sa, riteneva
i vizii non la forza dell'antico reggimento dei Cesari, spogliato d'ogni
avanzo di libertà e contigiato all'asiatica; assicurato dalla compiuta
separazione dell'ordine militare dal civile; dalla vastità di
quest'ultimo; e infine dall'accordo che Costantino iniziò, e compierono
i successori, accordo col clero cristiano che prestò all'Impero il
pastorale, e n'ebbe in cambio l'aiuto della borsa e della spada. Il qual
congegno di corruzioni, ch'è servito poi di modello a tutti i despoti
dell'Europa da Teodorico infino ai giorni nostri, non bastando a
resistere all'impeto dei liberi popoli settentrionali, nè poi degli
Arabi, e sendo ormai l'Impero scorciato e aperto d'ogni dove agli
assalti, convenne riformare alla meglio le divisioni territoriali, e
rinforzare l'autorità dei governatori. Smesse perciò le suddivisioni
amministrative in prefetture, diocesi e provincie, che furon già
convenienti al mondo romano, il principato bizantino, verso l'ottavo
secolo, modestamente si scompartì in ventinove _temi_, come li dissero
con voce nuova: divisione militare che si confuse con la civile,
affidandosi entrambi i poteri a unica mano. La Sicilia, la quale ai
tempi di Costantino si noverava tra le diciassette provincie d'una delle
tre diocesi soggette al Prefetto del Pretorio, diè nome adesso a un
tema, in cui andaron comprese anco la Calabria, la città di Napoli e
costiera.[336] Il governatore dell'isola, che dopo Costantino avea avuto
titolo di Correttore e talvolta di Consolare, poi sotto i Goti di Conte
di Siracusa, ripigliò ai tempi di Giustiniano l'antica denominazione di
Pretore, e infine fu detto Stratego, novello nome militare, e chiamossi
patrizio, quando ei d'altronde avea tal dignità.[337]
Il fatto statistico che sovrasta a ogni altro, e che spiega dassè solo
tutta la povera storia della Sicilia bizantina, è la qualità delle forze
militari raccolte nell'isola. Nella decadenza di quel tempo gli eserciti
ogni dì più che l'altro diveniano bande di mercenarii. L'Impero, come
aggregato fattizio di varie genti tenute insieme dall'abitudine, dalla
religione e dalla forza, non potea spirare ormai ai soldati l'amore
d'una patria, sepolta tanti secoli innanzi. A ciò s'aggiunga che la
popolazione della Grecia, cuor dell'Impero, la progenie di que' forti
che avean vinto il mondo sotto Alessandro, ora, infeminita nelle
industrie e nella superstizione, rifuggiva dalle armi; lasciavale
prendere ai Barbari o agli abitatori delle frontiere, ed ella si
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