Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 01

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STORIA DEI MUSULMANI DI SICILIA.

Proprietà letteraria.


STORIA DEI
MUSULMANI DI SICILIA

SCRITTA
DA MICHELE AMARI.

VOLUME PRIMO.

FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1854.


INTRODUZIONE.

Non ostante la cultura delle colonie musulmane che tennero la Spagna e
la Sicilia e dettero tante parti di civiltà all'Europa, egli è avvenuto
che la storia loro rimanesse per molti secoli oscura e trasandata, quasi
di popoli barbari. E ciò per cagione che i cronisti latini e greci del
medio evo poco ne scrissero; che le opere arabiche andarono a male
quando i Musulmani sgombravan da quei paesi; e che quel tanto che ne fu
serbato in Affrica o in Oriente, non potea passare, senza difficoltà
grandissime, dalla società musulmana alla società europea. Quegli
ostacoli, superati un po' dal decimosesto al decimottavo secolo, or si
vincono felicemente. La tolleranza filosofica; il genio degli studii
storici; i viaggi; il commercio; le dominazioni europee in alcuni paesi
di Musulmani; la influenza esercitata sopra altri; le accademie
asiatiche istituite sotto varie denominazioni, in Inghilterra, Francia,
Alemagna, Stati Uniti d'America e stabilimenti inglesi in India; i
giornali periodici di esse; lo zelo di raccogliere manoscritti, monete
antiche e monumenti; l'agevolezza ad apparare le lingue orientali; le
frequenti pubblicazioni di libri arabici, han reso ormai praticabili
molte ricerche tentate invano dalle passate generazioni. Così qualche
opera pregevole rischiara già la storia dei Musulmani di Spagna, e
sappiam che altre se ne apparecchino di maggior polso. Così gli annali
delle Crociate si compiono col favor dei cronisti musulmani. Così escono
alla luce o s'intraprendono di continuo tanti altri lavori storici su
l'Affrica, su l'Egitto e su varii Stati dell'Asia anteriore.
La genuina tradizione dei tempi musulmani si dileguò di Sicilia al
conquisto normanno, insieme coi dotti ch'emigravano in Affrica, in
Spagna o in Egitto. Se ne andavano con essi i libri; o erano distrutti
tra le guerre del conquisto nell'undecimo secolo; tra le sedizioni dei
Cristiani nel duodecimo; tra le disperate ribellioni dei Musulmani nei
principii del decimoterzo: ancorchè la Sicilia non abbia dato, nè anco
in que' tempi, lo scandalo d'un _auto-da-fè_ di manoscritti arabici,
come quello del cardinal Ximenes che ne fece ardere ottantamila su la
piazza di Granata, mentre Colombo scopriva l'America. Il fatto è che
dalla metà del decimoterzo secolo alla metà del decimoquarto, rimanendo
tuttavia in Sicilia, come n'abbiam prove, qualche notaio che intendesse
gli atti distesi in arabico e qualche Giudeo che traducesse opere dei
medici arabi, tal cognizione di lingua non servì a tramandare memorie
storiche, ma soltanto a propalar qualche errore degli Arabi o dei
traduttori. Così io penso leggendo nelle croniche latine di Sicilia a
quel tempo, che dopo i casi del buon Menelao re d'Italia e di Sicilia, i
Greci, mandati da Eraclio imperatore di Costantinopoli, si fossero
impadroniti della Trinacria; le avessero posto nome di Sicilia, da due
voci greche l'una delle quali suona fico e l'altra olivo; e che poi,
ribellatosi Maniace luogotenente di Eraclio e spento a tradigione dalla
corte bizantina, il figliuol suo, per vendetta, avesse dato l'isola ai
Saraceni di Tunis, l'anno di Maometto centonovantotto, e ottocento
ventisette di Cristo.[1] Erano i fatti di venti secoli compendiati in
una vita d'uomo. Quella falsa etimologia dal fico e dall'ulivo, ignota
ai Greci e ai Latini, trovasi appunto negli scritti d'Ali-ibn-Katâ' e
d'Ibn-Rescîk, i quali vissero in Sicilia nell'undecimo secolo. Si
incontrano poi sovente negli autori musulmani somiglianti anacronismi
sugli imperatori romani, e si vede sempre citato a dritto o a torto il
nome d'Eraclio, che sedea sul trono vivendo Maometto. Indi mi è paruto
probabile che la tradizione detta di sopra, tutta quanta ella è, fosse
derivata da unica sorgente arabica. Se altre notizie vi erano su la
dominazione musulmana, i cronisti siciliani, secondo la ignoranza e
pregiudizii della età loro, le doveano trascurare, o volontariamente
sopprimere.
Dopo tre secoli in circa, ristorandosi gli studii storici in Italia e
non rimanendo la Sicilia addietro dalle altre province, Tommaso Fazzello
da Sciacca (nato il 1498, morto il 1570) rigettò le favole di Maniace;
ritrovò un filo della tradizione bizantina nel MS. di Scilitze allor
noto sotto il titolo di Curopalata; e, innestatovi quel po' di
tradizione musulmana che gli potea fornir Leone Affricano e qualche
altra notizia incerta, scrisse, nella sua nobilissima storia generale di
Sicilia, due capitoli così così su la dominazione musulmana.[2]
Lasciovvi una lacuna, a riempir la quale si affaticava Antonino d'Amico
da Messina (morto il 1641) riportando dall'Escuriale pochi squarci di
Abulfeda e di Sceaboddino (Scehâb-ed-dîn-'Omari) voltati in latino, alla
meglio o alla peggio, da Marco Dobelio Citeron, professore d'arabico in
Spagna: i quali rimasero inediti; ma Agostino Inveges da Sciacca
(1595-1677) tradusse in italiano la traduzione e infilzolla nei suoi
Annali di Palermo.[3] Giambattista Caruso da Polizzi, sopravvenuto
quando la critica e la diplomatica davan più salda base alle ricerche
storiche, pubblicò, nel 1720, primo tra i suoi importanti lavori, la
Raccolta degli scrittori dell'epoca Saracenica in Sicilia: dove, alle
memorie già citate e ad altre di minor nota, aggiunse il testo arabico
della cronica di Cambridge,[4] procacciatogli con la versione latina da
un dotto inglese: i fogli del qual testo si stamparono a Roma, mancando
in Sicilia i caratteri e chi li sapesse leggere.
Ove si consideri come gli eruditi siciliani del decimosettimo e
decimottavo secolo non fossero stati secondi a que' di alcun'altra
provincia italiana o straniera nello studio dei patrii annali, forte si
maraviglierà che niuno tra loro avesse pensato di apprendere l'arabico.
E pur in quella stagione a Roma, in Toscana, in Lombardia si facea quel
che oggidì ammiriamo in Alemagna, Francia e Inghilterra: si raccoglieano
con ardore i MSS. orientali riportati da viaggiatori italiani; i
missionarii della Propaganda di Roma studiavano le lingue orientali; si
pubblicavano appo noi libri in arabico e in siriaco; si formavano musei
asiatici; si compilavano opere di gran dottrina sul Corano, e
grammatiche e dizionarii arabici, per esempio quello del Giggei:
fiorivano, in somma, gli studii orientali al segno, che il Renaudot,
dando fuori nel 1713 la Storia dei Patriarchi d'Alessandria, la dedicò a
Cosimo III de' Medici; confessando nella prefazione che nel corso del
decimosettimo secolo gli orientalisti di tutta Europa non avessero avuto
altro capitale che le opere uscite dai tipi di Firenze. Ma queste
tornarono inutili alla Sicilia, perchè i progredimenti dell'intelletto
difficilmente si comunicavano dall'uno all'altro sminuzzolo d'Italia, e
più difficilmente valicavano il mare. Nè miglior frutto cavò la Sicilia
dagli ardimenti di Francesco Maria Maggio da Palermo de' Chierici
Regolari (1612-1686), missionario, il quale dopo otto anni di
peregrinazione in Siria, Persia, Mesopotamia, Armenia, Georgia, tornò a
Roma pratichissimo degli idiomi arabico, turco e georgiano; tanto che ne
scrisse le grammatiche parallele, dedicate a papa Urbano Ottavo.[5]
Francesco Tardia da Palermo (1732-1778) pervenuto, non so come, ad avere
una tintura di arabico, ne usò in opera di lieve momento, la edizione,
cioè, d'una versione italiana di Edrisi, fatta dal maltese Domenico
Macrì.[6] Le illustrazioni sue di alcuni diplomi arabici dell'epoca
normanna rimangono inedite; nè sembrano gran che. Morto immaturamente il
Tardia, senza far discepoli, si ricadde in tale ignoranza di arabiche
lettere, che una iscrizione cufica cubitale passò tuttavia in Palermo
per caldaica e scolpita poco appresso il diluvio. Gli eruditi del paese,
quando lor occorrea di interpretare qualche leggenda di lapidi o monete,
più corta via non trovavano che di rivolgersi ad Olao Gerardo Tychsen
professore di Rostock, il quale avea gran fama, meritata non credo, in
quei rami di filologia arabica.
Tra tanta penuria, piombò in Palermo il maltese Giuseppe Vella, frate
cappellano dell'Ordine Gerosolimitano, il quale con quel suo dialetto
mescolato d'arabico corrotto e di pessimo italiano, potea comprender
tanto dell'idioma degli Arabi, quanto un contadino di Roma intenderebbe
Cicerone o Tito Livio senza avere mai studiato il latino; e, per giunta,
il Vella ignorava i caratteri, nè li apprese che a capo di parecchi
anni, da uno schiavo musulmano che vivea in Palermo. Digiuno d'ogni
erudizione, ma furbo, baldanzoso, sfacciato, ciarlatano che testè facea
mestier di dare i numeri del lotto, il Vella aprì nuova bottega:
fabbricò due codici diplomatici in arabico, dicea, ma ne mostrava la
sola versione italiana; dei quali il primo intitolò Consiglio di
Sicilia, e vi finse il carteggio degli emiri dell'isola coi principi
aghlabiti e fatimiti d'Affrica; il secondo, Consiglio d'Egitto, e lo
disse raccolta delle lettere dei principi normanni di Sicilia, i quali,
per passatempo, raccontassero tutte le faccende di casa loro ai
moribondi califi fatimiti d'Egitto. Annali, geografia, statistica,
dritto pubblico di due epoche, fasti gentilizii, tutte le fole che gli
parean profittevoli, accozzò l'ignorante impostore ne' codici
diplomatici; oltre le false leggende che spacciò di monete e suggelli
genuini; le monete ch'ei falsò a dirittura, come si afferma; e i
diciassette libri perduti di Tito Livio, dei quali si vantò di tener
sotto chiave la versione arabica. Per quattordici anni (1783-1796) si
godè onorificenze, favor di governanti, pensioni, e in ultimo la grassa
abbadia di San Pancrazio. Condannato dai magistrati, quando si scoprì la
frode, alla reclusione in fortezza, il re gli fece espiar la pena in una
deliziosa villa ch'egli avea comperato di sue baratterie; e gli fu reso
il medagliere ch'egli avea raccolto, di 364 monete non false, tra le
quali 219 di oro. Ma è da sapersi che un segretario del governo era
stato complice, o forse promotore, della magagna del Consiglio d'Egitto,
intesa a fingere un nuovo dritto pubblico siciliano del duodecimo
secolo, ampliando l'autorità del principe e scorciando quella dei
baroni.[7] La opinione pubblica, che sapea coteste brutture, avea prima
dei magistrati condannato l'abate Vella e il governo con lui; il qual
giudizio ritrasse con grazia anacreontica il Meli, nelle quartine che
incominciano:
Azzardannu 'na jurnata
Visitari li murtali,
Virità fu sfazzunata;
Ristau nuda a lu spitali.
. . . . . . . . . . . . .
Sta minsogna saracina
Cu sta giubba mala misa,
Trova a cui pri concubina
L'accarizza, adorna, e spisa. ec.
Pur la impostura del Vella diè occasione a buoni studii. Monsignor
Alfonso Airoldi, arcivescovo d'Eraclea, nobil uomo, erudito, magnifico,
potente, come Giudice ch'egli era della Monarchia di Sicilia, ossia
Legato del papa a dispetto del papa, accintosi ad aiutare il Vella pria
che questi si scoprisse con la frode politica del Consiglio d'Egitto,
fece venire a sue spese caratteri arabici dall'officina bodoniana di
Milano; comperò libri; porse danaro del suo; fece istituire in Palermo
la cattedra di arabico; fece decretare dal governo la provvisione di
mille once all'anno, o vogliam dire 12,500 lire italiane, per una
missione in Affrica in traccia di manoscritti, la quale poi non mandossi
ad effetto. Di più l'Airoldi scrisse una bella prefazione, ch'è stampata
nel primo volume del Consiglio di Sicilia, nella quale si additano tutte
le fonti della storia dei Musulmani Siciliani conosciute a quel
tempo.[8] Infine ei fece una buona collezione di monete, vetri e
corniole incise, d'oltre un centinaio, delle quali monete circa 70
arabiche e il resto greche, romane e dei bassi tempi; coordinate poscia
e interpretate in parte dal Morso, come ritraggo da una lettera di
costui del 1828. L'arcivescovo d'Eraclea legò questo medagliere e molti
libri al nipote Cesare Airoldi, già presidente della Camera dei Comuni
di Sicilia; il quale ha donato l'uno e gli altri alla Biblioteca
Comunale di Palermo.
Per zelo di smascherare il Vella, Rosario Di Gregorio da Palermo
(1753-1809), pubblicista di gran fama, si metteva a studiar l'arabico
dassè solo, con la grammatica d'Erpenio e il dizionario di Golio, e a
capo di tre anni dava fuori un ottimo saggio di Cronografia musulmana,
corredato di parecchi diplomi in arabico;[9] a capo d'altri quattro anni
(1790) la raccolta di croniche e ricordi arabici d'ogni maniera relativi
alla Sicilia, testi e versioni, la quale ha per titolo: _Rerum
Arabicarum, quæ ad historiam Siculam spectant, ampla Collectio_. Sia
notato ad onor della Sicilia, che quest'opera uscì contemporaneamente al
falso codice diplomatico. Oltre gli squarci ristampati, contiene
d'inedito: il Nowairi; una vasta raccolta di iscrizioni con bei rami; e
qualche brano di diploma. Secondo i tempi e le condizioni in cui fu
compilata, la dobbiam riconoscere maraviglioso sforzo d'ingegno e di
volontà: ma la confesseremo anco opera imperfetta; poichè il Di Gregorio
non arrivò mai, nè uomo il potea nelle sue condizioni, a legger
francamente due righi di manoscritto arabico, a penetrarsi delle forme
grammaticali, a rendersi familiari i modi di dire, com'oggi si fa nelle
scuole d'Alemagna e di Francia dopo un anno di studio. Salvatore Morso
da Palermo (1766-1828), successore del Vella nella cattedra d'arabico,
seppe quest'idioma un po' meglio che il Di Gregorio; lavorò su la
diplomatica, la epigrafia e la numismatica degli Arabi Siciliani; e
lasciò, oltre parecchi manoscritti, l'opera pubblicata (1824 e 1827) col
titolo di _Palermo antico_ (sic): ov'egli abbozzò una descrizione della
città nel XII secolo, e inserivvi curiosi documenti; ma parmi abbia
sbagliato la pianta topografica.
Ripigliavano in questo tempo i Siciliani l'impresa di scrivere la
storia, della quale si credean ormai raccolti tutti i materiali. Saverio
Scrofani da Modica (morto il 1835) la trattò leggermente, nei _Discorsi
su la Dominazione degli Stranieri in Sicilia_ (Parigi 1824). Pietro
Lanza da Palermo principe di Scordia e in oggi di Butera, ne fece
argomento di una prolusione accademica recitata il 1832: lavoro
giovanile, breve per sua natura e pur più sodo assai che quello del
provetto Scrofani. Carmelo Martorana da Palermo diè fuori nel medesimo
tempo le _Notizie storiche dei Saraceni Siciliani_, che dovean far
quattro libri e altrettanti volumi, ma ne son usciti due soli (Palermo
1832-1833). Oltre il _Rerum Arabicarum_, egli adoprò i trattati di
storia ed erudizione orientale pubblicati in Italia e fuori infino al
1830: dettò una compilazione posata, fornita di nozioni su la società
musulmana, condotta per lo più con buona critica: ma non parmi che salga
alla dignità della storia; oltrechè vi mancano di quelle stesse notizie
che si poteano raccogliere in Sicilia, se all'autore non parea superfluo
d'apprender l'arabico.
Da quel tempo in poi, quel poco che si è fatto in Sicilia e altre
province italiane è stato nei rami sussidiarii alla storia; se non
voglia eccettuarsi il brevissimo compendio di Davidde Bertolotti,
intitolato _Gli Arabi in Italia_, Torino 1834. Il signor Mortillaro da
Palermo, discepolo del Morso, ha pubblicato un brano di diploma,[10]
parecchie iscrizioni di vasi e suggelli, una lista dei MSS. arabici che
sono in Sicilia, ed alcuni elementi di lingua arabica e di storia
musulmana ec.: un intero volume, nel quale trovo da lodar solo i rami
delle iscrizioni che sono ben fatti, e il saggio d'un catalogo delle
monete e vetri arabici fabbricati in Sicilia.[11] Mi occorrerà forse di
correggere qua e là qualche errore del signor Mortillaro, di quei soli
che recherebbero torto alla verità storica; non dovendosi appuntare
tutti gli altri nelle opere di chi non ha avuto comodo di bene studiar
quella lingua. E il farò a malincuore, perchè mi annoiano mortalmente i
pettegolezzi letterarii, e perchè temo che la critica non si apponga a
nimistà. Ma, qualunque sia l'animo mio verso l'autore, io tengo che la
condotta politica d'un uomo non abbia nulla di comune col merito dei
suoi studii; e sarei il primo ad applaudir come scrittore tale o tal
altro che punirei come cittadino con tutta la severità delle leggi, se
mai le vicende mi chiamassero nuovamente alla esecuzione delle leggi.
Così, scrivendo poc'anzi del Martorana, io rivoluzionario impenitente
del 1848, dimenticava ch'ei fu allora Prefetto di Polizia in Palermo e
che imprigionò gli amici miei. Tornando all'argomento, mi rimane a dir
di Giuseppe Caruso, attuale professore di arabico in Palermo, il quale
ha pubblicato non male tre diplomi arabici, studiati già da Tardia, Di
Gregorio e Morso, che ne sapeano poco più o poco men di lui.[12] Infine
dobbiamo a Domenico Spinelli da Napoli un'opera numismatica che
risguarda indirettamente le colonie musulmane di Sicilia.[13]
Gli ultimi saggi storici su quelle colonie, son opera di stranieri e li
ha promosso l'Istituto di Francia. A misura che si approfondivano le
vicende dell'incivilimento europeo, si vedea di quale momento vi fossero
stati i Musulmani di Sicilia. L'Accademia, dunque, delle Iscrizioni
proponea per l'anno 1833 un premio a chi presentasse il miglior saggio
storico su le incursioni e dominazioni dei Musulmani in Italia.[14] Il
premio, differito più volte, fu accordato, l'anno 1838, a M. Des Noyers,
bibliotecario al Museo di Storia Naturale di Parigi, in merito di un
prospetto, che si stampò a pochi esemplari, nel quale l'autore
tratteggiò quei conquisti con le cagioni e conseguenze loro, e diè il
disegno e fin la tavola dei capitoli di un'opera da dividersi in due
parti; cioè racconto storico e influenza della Sicilia musulmana nei
varii rami di civiltà. Ei non compilò l'opera, nè so se l'abbia or
fatto; ma di certo non l'ha pubblicato. Non conoscendo l'arabico, M. Des
Noyers dovette star contento ai materiali tradotti; ai quali s'aggiunse
in quel tempo il capitolo d'Ibn-Khaldûn su la Sicilia, dato in arabico e
in francese, con acconcia prefazione e note di molta dottrina, da M.
Noël Des Vergers. M. César Famin si affrettò a stampare nel 1843 il
primo volume d'una _Histoire des Invasions des Sarrazins en Italie_, il
quale arriva all'878; lavoro di picciol conto, di cui l'autore non so se
pria di morire abbia lasciato manoscritta la continuazione.
Il premio proposto dall'Istituto avea allettato altresì Giovanni Giorgio
Wenrich, professore di Letteratura biblica a Vienna, e noto per eruditi
lavori su le versioni orientali degli autori greci e su la origine della
poesia ebraica ed arabica. Ritoccata, dopo l'esito del concorso, cotesta
novella opera, ei diella a stampa in Lipsia il 1845, sotto il titolo di:
_Rerum ab Arabibus in Italia insulisque adjacentibus... gestarum,
Commentarii_. È dettata in elegante latino, con dignità, concisione e
diligenza. L'autore molto si aiutò dei lavori del Martorana; accoppiò il
metodo seguíto da costui con quello di M. Des Noyers; aggiunse i fatti
che risultavano da' testi arabici pubblicati dopo il Di Gregorio; ma non
fe' novelle ricerche nei MSS.; talchè non accrebbe di molto il
patrimonio del Martorana.
I materiali su i quali si è lavorato fin qui, mettendo da canto i greci
e i latini, sono stati: la Cronica di Cambridge, parte del Nowairi,
parte di Scehâb-ed-dîn-'Omari, parte d'Ibn-Khaldûn, poche biografie
d'Ibn-Khallikân, pochi ragguagli biografici e bibliografici del Casiri,
e qualche squarcio d'Ibn-el-Athîr messo da M. Des Vergers in nota a
Ibn-Khaldûn detto. Il Martorana e il Wenrich si sono avvalsi, inoltre,
d'una compilazione italiana della quale è mestieri ch'io faccia parola:
cioè gli _Annali Musulmani_ del Rampoldi. Quest'erudito italiano, morto
a Milano in età avanzata il 1836, avea fatto in gioventù lunghi viaggi
in Oriente; dei quali, nè delle altre vicende di sua vita non ho potuto
avere ragguagli; ancorchè vi si fossero adoperati alcuni amici in
Milano. Nelle opere sue ritrovo, ch'ei soggiornò in Siria e al Cairo nel
1784, al Cairo stesso nel 1785; e non so quando a Smirne:[15] pertanto è
molto probabile ch'egli intendeva l'arabico volgare. Che abbia
conosciuto profondamente la lingua, nol credo; mostrandosi ignaro
talvolta delle più ovvie forme grammaticali, delle più trite etimologie;
per esempio la voce _sceikh_ ch'ei fa derivare dal persiano _sciah_
(re). Di più si ritrae ch'egli attinse spesso alle versioni europee,
anzichè agli originali; poichè trascrive i vocaboli arabici con
ortografia or francese ora inglese e non mai italiana: come _djeami_
(moschea cattedrale) in luogo di _giami; Jannabi, Jaafar_, nomi proprii,
per _Giannabi, Giafar_, ec. Nè va preso sul serio l'infinito numero di
citazioni ch'egli infilza, di nomi d'autori arabi e persiani, quand'ei
non distingue quelli veduti da lui stesso dagli altri allegati su le
citazioni altrui. Pei fatti di Sicilia sparsi negli Annali, il Rampoldi
non sempre cita; talvolta nomina il Nowairi, dicendo tutto il contrario
di lui; o segue la Cronica di Cambridge senza punto farne menzione; e in
un sol caso, certe avvisaglie cioè tra Cristiani e Musulmani nell'887,
si riferisce al _Nighiaristan_, o meglio avrebbe scritto _Nigâristân_.
Compilazione questa è di aneddoti, scritta in persiano nel decimosesto
secolo, della quale v'ha a Parigi parecchi MSS., e una edizione di
Calcutta in litografia: ma nulla vi si trova intorno la Sicilia; come mi
afferma il dotto orientalista M. De Frémery, ch'io pregai di
percorrerla, poichè ignoro il persiano. Gli avvenimenti delle altre
province musulmane, per quanto io ne abbia potuto vedere, non son
trattati con maggiore diligenza. Pertanto questo gran lavoro in dodici
volumi, che offre del resto giudiziose osservazioni locali, molta
erudizione, idee vaste e filosofiche e fors'anco fatti genuini che
invano si cercherebbero altrove, questo lavoro, io dico, rimarrà come
inutile; non sapendosi il più delle volte se i racconti sian tolti da
buone sorgenti, se l'autore citi con esattezza, o se aggiunga del suo
altre circostanze ch'ei confusamente si ricordava o che gli pareano
necessarie a compiere il cenno dei cronisti. Si potrà cavar partito
dagli Annali del Rampoldi, se mai cadranno in man di qualche valoroso
orientalista i MSS. arabi o persiani ch'ei lasciò, i quali non ho potuto
sapere nè quanti, nè quali, nè dove fossero. Allora si potrà veder
chiaro in tal miscuglio di elementi. In questo mezzo ho dovuto rigettare
assolutamente l'autorità del Rampoldi.

Or ne vengo ai miei proprii lavori. Quand'io giunsi a Parigi,
perseguitato per avere scritto il Vespro Siciliano, che già corre il
duodecim'anno, mi parve come un obbligo di tentar la Storia dei
Musulmani di Sicilia; pensando che tra tanti uomini più capaci di me,
italiani e stranieri, niuno potea avere insieme lo zelo e le cognizioni
locali d'un siciliano e i comodi grandissimi che a me dava il soggiorno
di Parigi. Come il solo modo di riuscir nell'intento era la ricerca di
novelli materiali, così io non esitai a giocar dieci anni di fatica in
questa maniera di scavi d'antichità. Appresi l'arabico a Parigi;
confrontai i testi del Di Gregorio coi MSS. originali; mi diedi a
raccogliere frammenti storici, descrizioni geografiche, biografie, e le
prose e poesie degli Arabi Siciliani, e i titoli di lor opere perdute, e
quanto fosse stato scritto in arabico da Siciliani o da Arabi qualunque
su la Sicilia e i suoi abitatori. Molti materiali ho trovato da me
stesso nei MSS. arabici di Parigi, Oxford, Londra, Leyde: altri ne ho
avuto per favor di amici da Leyde, Cambridge, Heidelberg, Madrid,
Pietroburgo, Tunis, Costantina; altri son usciti alla luce dal 1842 a
questa parte: e, se non ho potuto frugar tutte le biblioteche di
Alemagna, Italia e Spagna, i cataloghi stampati mi assicurano che poco o
nulla era da sperarne. Cotesti materiali, escluse le poesie che non
abbiano importanza storica, faranno una _Biblioteca Arabo-Sicula_; nella
quale mi è parso di dar luogo ad alcuni squarci di autori arabi relativi
alla storia di Sicilia del XIII e XIV secolo, ancorchè non trattino dei
Musulmani dell'isola. Alla stampa dei testi, che non era impresa da
autore povero, nè da libraio d'Italia o fosse pur di Francia e
Inghilterra, ha provveduto, per sommo zelo delle lettere, la Società
Orientale di Alemagna, alla quale io ne feci domanda; e fu benignamente
accolta, per la premura che s'era data il dottissimo professore
Fleischer di Lipsia, pubblicando un prospetto di quella mia raccolta. A
spese dunque di quella dotta Società si stamperanno i testi a Gottinga,
in un volume. La versione italiana in due volumi con note nella parte
geografica, cavate dai diplomi dell'undecimo secolo in giù, si
pubblicherà, com'io spero, in Italia, nel sesto medesimo del volume
arabico, in guisa da potersi vendere con quello o senza. Il duca di
Luynes, benemerito dell'Italia per le edizioni di Matteo da Giovenazzo,
dei Monumenti Normanni e Svevi del regno di Napoli, e dello splendido
Codice diplomatico di Federigo Secondo imperatore, e per un gran lavoro,
al quale attende, su le monete puniche di Sicilia, ha cortesemente
assentito a fare una carta comparata della Sicilia, ordinata in questo
modo: che si corregga a cura sua la carta in quattro fogli dell'ufficio
topografico di Sicilia; ed egli indi vi noti i nomi antichi; io vi
trasporti gli arabici ricavati da Edrisi e altre fonti; e la carta si
stampi a due colori, in guisa da mostrare a colpo d'occhio il riscontro
dei luoghi attuali, del XII secolo e dell'antichità. Con la solita
munificenza, l'egregio archeologo francese ha profferto di far incidere
questa carta a proprie spese.
Nella _Biblioteca Arabo-Sicula_ mancheranno, come accennai, le poesie
non relative a fatti storici e inoltre le notizie dei manoscritti arabi
di Sicilia, i diplomi, le iscrizioni e le monete. Quanto alle prime, che
prenderebbero uno o due volumi di testo, io le ho copiato; ma non sarà
facile trovare i mezzi di stamparle, nè preme. Il resto son lavori male
abbozzati fin qui, e da rifarsi tutti in Sicilia. Tale il catalogo dei
MSS. della Lucchesiana di Girgenti, Biblioteca de' Gesuiti in Palermo,
Monastero di San Martino presso Palermo, e Biblioteca Vientimilliana di
Catania, i quali sommano ad una cinquantina, secondo la lista che ne
mandò il signor Mortillaro al Cardinal Mai.[16] Va fatta di pianta la
collezione dei diplomi arabici dei tempi normanni, la più parte inediti,
pochi pubblicati, così così, da Di Gregorio, Morso, Giuseppe Caruso,
Mortillaro; e un solo correttamente, il quale dobbiamo a M. Des
Vergers.[17] I diplomi si dovrebbero ricercare nel Monastero di
Morreale; Cattedrale, Cappella Palatina e Commenda della Magione in
Palermo; vescovati di Catania, Girgenti, Patti, Cefalù, e in tutti altri
archivii ecclesiastici e pubblici; e sarebbero da vedersi le copie che
per avventura se ne trovassero nelle biblioteche: il quale lavoro
richiederebbe e tempo e spesa e pazienza contro gli ostacoli e pratica a
leggere i MSS. arabici e libertà di viaggiare in Sicilia. Similmente le
iscrizioni lapidarie, o di vasi, gemme e drappi, date da Di Gregorio.
Morso, Lanci e Mortillaro, e una anco da me e le molte altre inedite,
voglionsi quasi tutte verificar sopra luogo da occhi esercitati, e
rintracciarne delle altre sugli edifizii e nei musei e per le case. Per
la numismatica, infine, è da eseguire in grande il lavoro principiato
dal Mortillaro e da me sopra commendato. Cioè si debbono esaminare in
Palermo le collezioni di monete e vetri dei Gesuiti, o della Università
degli Studii, alla quale ne furono legate circa 300 dal Cavalier Poli;
quella di Monsignor Airoldi, testè donata alla Biblioteca Comunale, e le
altre di privati: si debbono estendere le ricerche a tutta l'isola;
scevrare le monete false dalle vere; confrontarle coi cataloghi stampati
dal Castiglioni a Milano, dallo Spinelli a Napoli; ed oltremonti, da
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