Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 12

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perirono, al dir dei cronisti, centottantamila Berberi; al certo uno
spaventevole numero tra que' che caddero sul campo e gli uccisi di
sangue freddo, com'eretici e barbari che vincendo non soleano dar
quartiere (742).
Con tal supremo sforzo la schiatta arabica ripigliò il dominio della
provincia. Fu in punto di riperderlo in due altre vaste sollevazioni
(757-771), senza, contar le minori; e lo mantenne col pondo di due
novelli eserciti, l'un di quarantamila, l'altro di sessanta o secondo
alcuni scrittori di novantamila uomini, che era il settimo venuto in
Affrica nello spazio di novant'anni, contando per primo quello che perì
con O'kba.[203] Alfine la popolazione de' Musulmani orientali passata in
Affrica tra cotesti travagli, le forti colonie poste in luoghi
opportuni, e gli altri ordinamenti dei vincitori, prevennero i moti
generali de' Berberi infino ai principii del decimo secolo; se non che
alcune tribù berbere fondarono tre stati indipendenti, cioè: Fez
nell'estremo occidente; sotto la dinastia araba degli Edrisiti (788);
Segelmessa a mezzodì dell'Atlante, sotto i Midrariti, gente berbera
(783); e Taiort (che scrivon anco Tahert e Tuggurt e oggi va nel Sahra
dell'Algeria), sotto i Rostemidi, famiglia, come sembra, di origine
persiana[204] (754). Le altre tribù sfogarono parteggiando nelle guerre
civili degli Arabi; finchè, affievolita la costoro schiatta, gli
indigeni rialzaron la testa e mutaron di nuovo lo stato politico
dell'Affrica e del Maghreb, sì come ci occorrerà di dire nei libri
seguenti.


CAPITOLO VI.

Dalla lotta de' conquistatori contro gli indigeni volgendoci alle
condizioni in cui vivessero i primi mentre occupavano a mano a mano il
paese, ci si presenta una considerazione preliminare. I popoli che
s'impadroniscono di territorii stranieri tengono necessariamente uno di
questi tre modi: trasferimento popolare dei conquistatori, come quel de'
Franchi, dei Longobardi e altri barbari che non lasciavano patria dietro
le spalle; colonie, come quelle dei Greci nell'antichità e degli Inglesi
in America, intraprese private che suppongono un popolo incivilito e
avvezzo alla libertà; o finalmente occupazione militare a nome dello
Stato, ch'è propria dei governi forti in su le armi. Di cotesti modi i
due ultimi si veggono talvolta congiunti, ovvero adoperati
alternativamente, da alcune nazioni che hanno in sè istituzioni miste,
come i Romani che mandavano anche lor colonie in paesi occupati
militarmente, e gli Inglesi ai quali veggiam tenere l'Indie con la
violenza delle armi e altre provincie con le colonie.
Ma gli Arabi, vivendo in una società ove coesisteano la barbarie, la
libertà e l'autocrazia, stanziarono nei paesi vinti in un modo composto;
che cominciò con la occupazione militare a nome dello Stato; divenne
trasferimento di intere tribù; e portò a un largo governo coloniale e
indi alla emancipazione dalla madre patria. La emigrazione si fe' tanto
più agevolmente, quanto que' popoli non usi a soggiorno durevole nè
incatenati dalla proprietà territoriale, passavano da reame a reame con
la stessa nomade alacrità con che ne' lor deserti avean mutato le tende
da un pascolo all'altro. I loro accampamenti alla romana, dei quali
dicemmo nel capitolo precedente, si fecero grosse città entro pochi
anni; traendovi le famiglie dei guerrieri, famiglie naturali e fittizie
ancora: di schiavi, liberti, affidati; e oltre i guerrieri venivano a
fruir della vittoria officiali pubblici, giuristi, mercatanti,
artigiani: gente arabica o nativa di regioni occupate anteriormente ed
arabizzata per conversioni e clientele. Così con maravigliosa rapidità
si accrebbe la schiatta loro in Affrica dopo le ultime vittorie di
Hassân-ibn-No'mân e sotto il governo di Musa. Oltre le colonie di Barca,
Tripoli e altre sul golfo di Cabès, ed oltre Kairewân, che fu maggiore
di tutte, si vide sorger quella di Tunis ove si cominciò a scavare il
porto; poi la popolazione arabica si estese verso ponente a Tanger,
Telemsen e fors'anco Ceuta: e, domi tanto o quanto i Berberi, il
progredimento ricominciò; il centro principale della provincia, il quale
era l'odierno reame di Tunis, si circondò di piazze di frontiera a
Belezma, Tobna e altre, che guardavano i nodi più formidabili di
popolazione berbera; e la schiatta arabica saldamente si afforzò verso
la fine dell'ottavo secolo.
Vi comparve fin dai primi principii la ovvia distinzione di militari e
cittadini. I primi chiamavansi collettivamente, come in ogni altra parte
dell'impero, il _giund_; e talvolta questo nome si dava a ciascuna
legione, divisione o brigata, come noi diremmo, talchè si trova
adoperato in plurale presso gli scrittori arabi.[205] Erano i guerrieri
scritti nei ruoli; i quali, oltre la parte che loro tornava dal bottino,
aveano uno stipendio che si togliea dai tributi posti su i popoli vinti
e sopra una classe di terre dei Musulmani, e che pagavasi per lo più
assegnando al tal giund le entrate di tal provincia o distretto; la qual
maniera di concessione gli Arabi chiamarono _Iktâ'_, ossia
scompartimento. Ordinati tuttavia secondo le proprie parentele, come già
dicemmo,[206] e capitanati da un condottiero con titolo di Kâid,[207]
eran mezzo soldati stanziali e mezzo milizie feudali: gente agguerrita
quanto i primi, e, come le seconde, devota al proprio capo più che al
principe; l'indole della quale avea bene spiegato un savio, quando disse
al califo Abd-el-Melik, parlando di alcun rinomato capo di tribù in
Oriente: “S'egli s'adira, centomila spade s'adiran seco, senza
domandargli il perchè.”[208] Nel _giund_ rimanea dunque l'aristocrazia
patriarcale dei tempi anteriori all'islam.
Nelle città appariva al contrario un avanzo della primitiva democrazia
musulmana; come sempre avvien che si sviluppi nelle colonie qualche
principio che sia stato soffocato nella madre patria. Senza istituzioni
scritte, senza magistrati riconosciuti dalla legge, surse a Kairewân, e
in altre città principali dell'Affrica, una vera possanza municipale
figlia di quel genio democratico e dell'industria. Non le mancò il primo
elemento di forza, che è il numero de' cittadini; perocchè, giugnea a
tale in Kairewân al tempo della seconda sollevazione dei Berberi, che
fornironsi in un estremo pericolo diecimila scelti combattenti, i quali
usciti insieme con le reliquie dello esercito riportarono (741) la
vittoria di Asnam.[209] Non le mancò l'uso alle armi, poichè la
popolazione delle città, obbligata a combattere da un precetto religioso
che andava in disuso nelle parti centrali e tranquille dell'impero, lo
osservava per necessità nelle provincie di frontiera, ove spesso s'avea
a respingere il nemico. V'erano inoltre in così fatte provincie i ribat,
di cui già parlammo; i quali mutarono natura quando la più parte della
popolazione fu musulmana, e divennero ritrovo di birboni e oziosi, che
viveano di pie oblazioni sotto specie di star pronti alla guerra contro
gli Infedeli, e prontissimi erano alle sollevazioni. Non mancò infine
l'ordinamento delle classi e la potenza di quelle superiori per le
facoltà e l'educazione, le quali classi dan sempre la pinta ai moti
delle città. Da una mano troviamo, in fatti, corporazioni d'arti;[210]
da un'altra cittadini proprietarii di terre, e veggiamo la efficace
influenza degli sceikhi, ossiano capi delle famiglie principali. Uscian
anco da queste gli uomini che professavan sapere e pietà, legittimi
successori dell'aristocrazia di Omar; i quali col Corano e la tradizione
del Profeta alle mani, sosteneano le larghe franchigie dei Musulmani,
poste in oblio dai moderni principi: e il popolo naturalmente li seguiva
e agitavasi alla lor voce.[211]
Tali essendo gli ordinamenti delle milizie e dei cittadini, fondati su i
costumi, non su le leggi, e di tanto più forti, il governo della
provincia poco teneva a quel dell'impero. In apparenza non differiva dal
reggimento d'un paese occupato militarmente; il califo di Damasco
nominava il governatore dell'esercito e del popolo musulmano; i quali
riconosceano un solo re e pontefice e una sola legge a Kairewân come a
Damasco o a Medina. Ma in sostanza la colonia era libera. Stava la forza
in mano di corpi independenti; il califo, non che trar danaro dalla
provincia, ve ne rimettea, e se voleva almeno farsi ubbidire dovea
affidare il governo a potenti capi di tribù, dovea piegarsi alle
passioni di quelli e agli umori del popolo. Dal che nasceva un bene e un
male: il bene, la forza di vita ch'è propria delle colonie libere e che
non si infonde mai negli automi costruiti dai governi matematici; il
male era la rabbia delle fazioni, che gli Arabi aveano nel sangue, e che
l'islamismo accrescea con la frettolosa assimilazione d'ogni gente
straniera. Il male si sviluppava a misura che gli Arabi metteano radice
nei paesi di ponente; e mostravasi nel giund più che nelle popolazioni
cittadine. Trovandosi nel medesimo esercito le schiatte rivali di Kahtân
e di Adnân, appena si prendeano a scompartire i premii della vittoria,
cominciavano i torti, scoppiavano le ire; il governatore favoreggiava la
sua tribù e le affini a scapito delle altre; e queste, se le mene di
corte o il caso faceano succedere nel governo della provincia un di lor
gente, rendeano la pariglia; e, se no, prendeano a farsi giustizia
dassè.
Arrivò a tale l'antagonismo, che nol potè curare nè anco la spada dei
Berberi. Dopo la infelice battaglia dei Nobili (740) il califo Hesciâm,
come abbiam detto, mostrò forse minore rabbia contro i nemici Berberi
che contro la schiatta himiarita la quale prevaleva in Affrica a quel
tempo.[212] Gli Himiariti risposero per le rime. Come il califo prepose
al nuovo esercito un Kolthûm, modharita o vogliam dire della schiatta di
Adnân, e com'ei, tra gli altri rinforzi, mandò un corpo di diecimila
uomini della propria casa omeiade, ottomille cioè Arabi e duemille
liberti, stanziati in Siria, così ambo gli elementi sociali della
colonia si volser contro il novello esercito. La cittadinanza di
Kairewân, vergognando o temendo di sì fatti ausiliari, chiuse loro le
porte in faccia. Il rimanente delle milizie patteggiò anche contro di
essi, tanto quelle antiche d'Africa, quanto ventimila uomini delle
nuove, ch'erano stati presi qua e là, come scrive Ibn-Kutîa, da varie
nobili schiatte arabiche. Perlochè movendo tutte le genti ad incontrare
i Berberi, i condottieri non fecero che altercare con Kolthûm; i soldati
erano per venire alle mani coi diecimila Omeîadi; e finì che costoro sul
campo di battaglia voltaron le spalle, e gli altri furono orribilmente
mietuti dal nemico. I pretoriani disertori poi, non potendo rimanere tra
l'abborrimento universale, passarono in Spagna ove accesero aspre guerre
civili: e l'Affrica si perdea, se Hesciâm, rimettendo del regio
orgoglio, non ne affidava il comando ad Hanzala-ibn-Sefwân di
chiarissimo sangue himiarita; il quale senza nuove soldatesche d'Oriente
valse a debellare i Berberi (742), come sopra dicemmo.[213]
Ma passeggiera era la concordia; le divisioni durevoli, diverse,
intralciate in confusione inestricabile: e un altro subito mutamento
che seguì si dee riferire agli umori avversi al governo in
tutta la provincia, e, più che altrove, nella capitale. Perchè
Abd-er-Rahman-ibn-Habîb di tribù koreiscita, uomo illustre per la gloria
del bisavolo O'kba-ibn-Nafi' e per una strepitosa fazione che avea
combattuto pochi anni innanzi sopra la Sicilia, andato poi in Spagna ad
accattar brighe e stato, e vedendosene tronca la via dalla prudenza di
un luogotenente di Hanzala, gittatosi a un partito disperato, ripassava
il mare; sbarcava a Tunis; trovava partigiani e osava assalire in
Kairewân stessa il capitano liberatore dell'Affrica. Il quale
accorgendosi delle disposizioni dei cittadini, gli rifuggì il generoso
animo dalla guerra civile: chiamò il cadì e i notabili della capitale;
lor consegnò il tesoro pubblico, presone le sole spese del viaggio per
tornarsene in Oriente; e quetamente partissi dalla colonia (744-5).
Tutta l'Affrica allor si diè all'usurpatore, quantunque ei fosse della
schiatta di Adnân; ma lo perdonavano forse al sangue koreiscita, al
casato di O'kba, fondatore della colonia, all'audacia del misfatto,
sempre ammirata dal volgo, e al merito di aver offeso la corte di
Damasco. Abd-er-Rahman usò sagacemente il comodo che gli davano in
questo tempo le rivoluzioni d'Oriente: stracciò in pubblica adunanza il
mantello d'investitura mandatogli dal califo; scosse lungi da sè le
pianelle che avea ai piedi, con dir che così anco rigettava l'autorità
del califo; e governò con animo e fortuna da principe indipendente. Dopo
dieci anni, il proprio fratel suo, abbracciandolo, gli passò un pugnale
dalle spalle al petto; godè per poco il premio del fratricidio; e la
nascente dinastia presto fu spenta (757). La colonia, straziata dalle
proprie fazioni e dai Berberi, riconobbe di nuovo il potere del
califato, che era passato in questo mezzo dalla casa d'Omeia a quella di
Abbâs.[214]
Tal mutamento di dinastia mostrò come la schiatta arabica troppo presto
cominciasse a cedere il luogo ai vinti, coi quali stringeasi nella
fratellanza dell'islamismo. L'assimilazione, turbata in Affrica dalla
impazienza dei Berberi, ritardata in Egitto e in Siria dalla desidia de'
popoli, dal Cristianesimo e dalla tolleranza de' Musulmani inverso di
quello, s'era compiuta largamente nelle regioni soggette una volta
all'impero persiano. Lasciando quelle poste tra l'Eufrate e il Tigri,
nelle quali predominava il sangue arabico, troviamo di là dal Tigri i
figliuoli dei Persiani propriamente detti e dei Parti: valorose
schiatte, fattesi tanto innanzi nella civiltà ch'eran sorti tra loro i
due riformatori religiosi insieme e politici, Mani e Mazdak. Coteste
schiatte volentieri abbracciarono l'islamismo che loro offriva una
credenza meno assurda, e una forma sociale meno ingiusta. Mentre gli
emiri arabi perseguitavano agevolmente, o tolleravan senza pericolo gli
uomini più tenaci nella credenza di Zoroastro, la parte maggiore della
popolazione alacremente si accomunò coi conquistatori. I liberi
acquistavano issofatto la cittadinanza musulmana con profferire: “Non
v'ha Dio, che il Dio e Maometto il suo profeta;” gli schiavi professando
l'islamismo agevolmente conseguivano la emancipazione, e diveniano
cittadini come ogni altro: e ciò che tuttavia mancava dopo la
cittadinanza legale, cioè il patrocinio d'una famiglia potente, i liberi
l'otteneano per clientela volontaria, i liberti per clientela
necessaria. Cotesti uomini nuovi fecero aprir gli occhi ai governanti
con la pratica ch'essi aveano in azienda pubblica; aiutarono con la loro
dottrina alla compilazione della giurisprudenza musulmana; accesero nei
popoli arabici a poco a poco il sacro fuoco delle scienze; e prima
quello della libertà civile e religiosa, al modo che poteasi comprendere
in quelle parti. I popoli dell'impero sassanida furono invero i maestri
degli Arabi, come i Greci erano stati dei Romani; se non che il diverso
genio dei popoli, e soprattutto delle istituzioni religiose e civili,
portò che i maestri persiani predominassero nello Stato, al che i
maestri greci mai non giunsero.
Un secolo bastò a produrre i primi effetti, che apparvero nel Khorassân,
estrema provincia orientale, nella quale stanziava, come per ogni altra
parte dell'impero, un pugno d'ottimati arabi. Quivi la lontananza di
Damasco rendea il governo provinciale più insolente a un tempo e più
debole; e spingea a desiderio di novità i Musulmani della provincia, la
più parte indigeni. Vedean essi la casa d'Omeia aggravare sempre più i
torti della usurpazione con un reggimento contrario ai principii
repubblicani dell'islamismo; con una istancabile crudeltà contro i
discendenti di Alî; con la rapacità, insolenza e discordie delle sue
centinaia di principi reali, degna progenie, potean dire i Musulmani, di
quegli ostinati idolatri che aveano combattuto il Profeta finchè il
poterono, e adesso molestavano e scannavano la sua parentela. Perchè
oltre la prole d'Alî v'era quella di Abbâs zio paterno di Maometto, capo
della casa dopo la morte di lui, e primo tra gli ottimati d'Omar, come
s'è detto. I figli di Abbâs avean séguito nella nazione, e
particolarmente, com'ei sembra, tra le case nobili stanziate nel
Khorassân; ed erano stati rispettati dagli Omeiadi; ma alfine la gelosia
della casa regnante e l'orgoglio degli Abbassidi proruppero in
scambievoli offese. Narrasi ancora, nè è inverosimile, che sia avvenuto
tra i partigiani degli Alidi e degli Abbassidi un di quegli accordi
effimeri e bugiardi, che due ambiziosi stipulano a danno d'un terzo;
salvo ad accoltellarsi tra loro dopo la vittoria. L'associazione di
famiglia, che rimaneva in piè secondo l'uso antichissimo degli Arabi, fu
ottimo espediente a promuovere e nascondere la cospirazione degli
Abbassidi; molti destri missionarii (_dâi'_ li dicon gli Arabi e appo
noi suonerebbe chiamatori), ordinati con gerarchia e artifizio di setta,
si misero a far parte nel Khorassân, a raccorre contribuzioni dai
partigiani: e reggea con man maestra tutta la macchina Abu-Moslim che un
buon uomo di casa abbassida avea preso ad allevare per carità, trovatolo
in fasce esposto su la via pubblica. Quando la congiura, allargandosi,
fu scoperta, piombò la prima ira del califo sopra Ibrahim capo della
casa di Abbâs, che morì in prigione ad Harran: ma tantosto Abu-Moslim si
levò in arme nel Khorassân; ruppe gli eserciti omeiadi; mosse verso la
Mesopotamia; e il popol di Cufa, senz'aspettarlo, gridò califo Abd-Allah
fratello del morto Ibrahim, e noto nella storia con l'atroce soprannome
di El-Saffâh o diremmo noi Il Sanguinario. E in vero si versò il sangue
a fiumi tra per comando suo e di Abu-Moslim, che il pose in trono, e che
fu immolato dal successore di Abd-Allah per saldare i conti della
dinastia. Campato sol dalla proscrizione un rampollo degli Omeiadi,
rifuggivasi in Spagna; trovava partigiani; faceasi un reame di quella
provincia, e lasciavalo ai suoi discendenti che presero il nome di
califi.
Il rimanente dello impero ubbidì senza contrasto alla casa di Abbâs; la
quale mutò ogni cosa, fuorchè il sistema del dispotismo. Le bandiere e
vestimenta degli uficiali pubblici si tinsero in negro, colore
prediletto dalla dinastia; i pretoriani furono, non più una fazione
della aristocrazia arabica, ma i partigiani della casa in Khorassân, e
poi i mercenarii turchi che consumarono la vergogna e rovina del
califato; la sede del governo passò da Damasco a Bagdad, edificata a
posta con imperiale splendore; i costumi della corte da arabica
semplicità si volsero a lusso persiano; e l'amministrazione pubblica,
tolta agli Arabi, data ai Korassaniti divenne più inquisitiva e molesta;
il che fa dire a un autore arabo[215] che la casa d'Abbâs indurò il
principato a modo dei re sassanidi. In somma la schiatta persiana si
impadroniva del dominio non saputo tenere dagli Arabi.[216] Da ciò
nacque la gloria letteraria che ha reso sì chiari gli Abbassidi.
Perocchè i Persiani, venendo in servigio loro a corte e per tutte le
provincia dell'impero, vi recarono le scienze; coltivaronle essi
esclusivamente; messerle in voga appo i califi; trassero con lo esempio
i Musulmani delle alte schiatte, pochissimi per altro dell'arabica. Ma
scrivendo tutti nella lingua del Corano, tornò agli Arabi la fama di
sovrastare all'umano incivilimento nei secoli più tenebrosi del medio
evo.[217]
Non tardarono i guerrieri del Khorassân a passare fino all'altro capo
dell'impero, per fidanza o sospetto di casa abbassida; la quale non
potendo spegner tutti come Abu-Moslim, par che si provasse a farne
stromento di dominazione in Affrica. Pertanto l'esercito mosso d'Oriente
(761) per combattere i Berberi, undici anni appresso la esaltazione
della dinastia, fu composto di trentamila uomini del Khorassân e dieci
mila Arabi di Siria, che sembrano rei della medesima colpa; e, a capo
d'altri dieci anni, un novello sforzo di sessanta mila soldati si
accozzò di gente del Khorassân, di Siria, e dell'Irak. Cotesti eserciti,
che divenian colonie, come dicemmo, più largamente e fortemente
occuparono il paese: donde le città ingrossarono; crebbene anco il
numero; s'ebbero nuove terre da dividere e più larghi tributi dai popoli
che s'assuefaceano al giogo. Al tempo stesso la schiatta persiana fu
nuovo elemento di discordia in Affrica; divenutavi dapprima tracotante
per numero e favor della corte, poi disubbidiente come le altre. Nel
primo periodo furono scelti in quella i governatori della provincia, e
fin v'ebbe una famiglia nella quale l'officio s'avvicendò per ventitrè
anni: officio usato dai Persiani non altrimenti che dai predecessori: al
segno che certe milizie di Siria, dopo trent'anni di soggiorno, furono
cassate dai ruoli del giund e ridotte alla condizione di ra'ia, ossia
popolaccio, per mettersi in luogo loro la gente del Khorassân. Quando le
altre schiatte si risentirono e il califo volle riparare, i capi
persiani si divisero tra loro; i più malcontenti si rivoltarono: seguì
uno scompiglio universale di Khorassaniti, Arabi Modhariti, Arabi del
Iemen, Arabi venuti di Siria sotto gli Omeîadi e venuti sotto gli
Abbassidi, Berberi ortodossi e Berberi eretici, che si contendevano con
le armi alla mano il governo e i suoi frutti. Il potere dei califi su la
provincia, di debole ch'era stato sempre, divenne precario; si sostenne
a forza di espedienti; di qualche capitano fidato; del direttor di posta
e spionaggio; e soprattutto dei centomila dinar sprecati ogni anno tra
quelle riottose milizie e tolti dalle entrate d'Egitto. Fu in queste
condizioni di cose che il magnanimo Harûn-Rascîd piegossi a dar
l'Affrica, come in appalto, a Ibrahim figliuolo di Aghlab.[218]
Aghlab, nato dalla tribù modharita di Temîm, avea dato mano ad
Abu-Moslim e a casa abbassida nella rivolta contro gli Omeîadi; poi a
casa abbassida nell'uccisione d'Abu-Moslim;[219] ed era indi venuto
(761) con alto grado nell'esercito d'Affrica; segnalatosi nella guerra;
eletto a tener la frontiera dello Zâb contro i Berberi; fatto in ultimo
governatore di tutta la provincia; e mortovi combattendo contro un capo
iemenita ribelle (767). Però il figliuolo, gradito a corte e
sottentrato, com'ei pare, nella condotta delle genti che soleano
ubbidire alla sua famiglia, rimase di presidio nello Zâb, lontano dalle
discordie che ferveano a Kairewân, poco invidiato dagli ambiziosi, e
amato da' suoi marchigiani per liberalità, valore e saldo proponimento.
Occorse poi che le altre milizie si trovassero avvolte in una generale
sollevazione, nata a Tunis, compiuta a Kairewân per assentimento della
cittadinanza, e provocata dal governatore Mohammed-ibn-Mokâtil, fratel
di latte del califo; favorito prosuntuoso e dappoco, il quale avea
scemato gli stipendii, maltrattato al paro militari e popolani e
bacchettoni. Ma come costui fu preso, perdonatagli la vita e cacciato
ignominiosamente dalla provincia, Ibrahim piombò sopra Kairewân coi suoi
fidati marchigiani; richiamò Ibn-Mokâtil; combattè il capo della
rivoluzione, congiunto suo, per nome Temmâm; col quale scambiò rimbrotti
in prosa e in versi pria di venire alle armi. Tanto duravano i costumi
cavallereschi de' Beduini nella numerosa nobiltà venuta a stanziare in
Affrica![220] Ibrahim con fortuna e arte s'innalzò tra i turbolenti
compagni. Rotti i sollevati (799), mandava alcuni lor capi incatenati a
Bagdad; e, accontatosi in questo mezzo con gli altri, scrivea a corte
contro il governatore ch'egli stesso avea ristorato. Rappresentò esser
costui troppo odiato; la provincia troppo insubordinata; richiedersi
quivi altr'uomo e più pratico del paese: e propose a dirittura sè
medesimo, promettendo al califo che non solamente non gli farebbe
spender più nulla in Affrica, ma gliene darebbe quarantamila dinar
all'anno. Harûn accettò; non per avarizia, ma perchè altro modo non
v'era; perch'ei dovea piuttosto pensare all'Oriente, base dello Impero;
perchè ogni novello esercito che avesse mandato in Affrica vi sarebbe
divenuto novella colonia di ribelli. Consigliollo anche a questo un suo
fidato, che conoscea l'Affrica, non meno che la lealtà, il seguito e il
valore d'Ibrahim-ibn-Aghlab.
Il quale, avuto il diploma del califo (800), diè opera a crear nuova
forza su cui potesse fare assegnamento. Comperato un terreno a tre
miglia da Kairewân per fabbricare una villa di diletto, v'innalza in
vece un castello; circondalo di fossati; vi fa trasportar sottomano le
armi e attrezzi che si teneano nel palagio degli emiri a Kairewân. Al
tempo stesso blandisce il giund, ne prende cura particolare, ne sopporta
anche la insolenza, trasceglie da quello un nodo di intimi partigiani; e
da un'altra mano compera schiavi negri, dando voce di volerli adoperare
ai servigii più grossolani, e sgravarne la nobil gente della milizia: e
sì li avvezza alle armi; li instruisce in compagnie. Quando ogni cosa fu
in punto, lasciato nottetempo il palagio di Kairewân (801), se n'andò
coi famigliari, coi fidati del giund, è gli schiavi armati nella
cittadella, cui pose il nome d'Abbâsia a onore della dinastia; ma poi la
dissero El-Kasr-el-Kadim ossia il Castel-vecchio. E rinacquero le
sedizioni; la prima delle quali mossa a Tunis da un dei notabili di
schiatta arabica, per nome Hamdîs, che par sia stato progenitore del
gran poeta siciliano del medesimo casato: ma Ibrahim ne venne sempre a
capo, chiudendosi in cittadella quando soverchiavan le forze dei
sollevati; e poi fidandosi nelle loro divisioni; fomentandole con
danaro, e adoperando talvolta anco i Berberi. Consolidò il potere;
rintuzzò a forza di danaro e tradimenti la dinastia edrisita di Fez;
ebbe riputazione anco presso i Cristiani, coi quali si mantenne in pace:
accordatosi col prefetto di Sicilia; e dimostrata molta osservanza a
Carlomagno ch'era collegato con Harûn-Rascîd, per interesse politico e
simpatia scambievole di due grandi ingegni, Carlo, promosso all'imperio
lo stesso anno che Ibrahim al governo d'Affrica, gli mandava
ambasciatori ad Abbâsia, la fortezza del fossato, come è chiamata negli
annali di Einhardo, per chiedere il corpo d'un Santo sepolto a
Cartagine: tesoro inutile ad Ibrahim e tanto più volentieri
accordato.[221]
Venuto a morte l'Aghlabita, dopo dodici anni di governo, nel
cinquantesimo sesto dell'età sua, lasciò ai figliuoli un regno sotto
nome di provincia: equivoco che dura tuttavia in parecchi Stati
musulmani, come per esempio in Egitto. Ritennero gli Aghlabiti, come i
precedenti governatori, il titolo militare di _emir_ e quello più
generale di _wâli_, che appo noi suonerebbe _preposto_, e si dava anche
ad officii minori. Il califo mandava a ogni novello principe di quella
casa un diploma che conferivagli il governo, e con quello la bandiera,
simbolo del comando, le vestimenta e collane, segni di famigliare
liberalità: ai quali atti di regia e pontificia autorità sol mancava di
potersi esercitare in favor di un altro. Il tributo dei quarantamila
dinar presto mutossi in futili doni, e svanì. I principi d'Affrica
fecero guerre e paci, aggravarono e abolirono le tasse, nominarono
magistrati e capitani a loro arbitrio, o come portavano le necessità in
casa, non come piaceva al califo; e scrissero i loro nomi su le monete
insieme con le formole religiose della dinastia abbassida; in guisa che
di tutte le regalíe, come le intendono i pubblicisti musulmani, rimase
al califo il solo steril vanto che i popoli d'Affrica invocassero il
Cielo in favor di lui nella preghiera del venerdì. Ma gli Aghlabiti, se
usurpavano all'insù i dritti convenzionali del principato, non poteano
soffocare all'ingiù le ragioni naturali degli uomini, sostenute dalle
armi dei cittadini e del giund,[222] e più o meno dagli statuti
primitivi dell'islamismo. Quantunque mal potremmo delineare tutti i
limiti che la consuetudine poneva agli emiri aghlabiti, ne veggiam uno
di gran rilievo, cioè il dritto di pace e di guerra esercitato dal
principe insieme con la _gemâ'_, o diremmo noi parlamento municipale,
del Kairewân. N'è fatta menzione la prima volta a proposito d'un accordo
col patrizio di Sicilia nell'ottocento tredici; e sappiam dalle proprie
parole di un che sedea nella gemâ', come adunati dal principe gli
_sceikh_ e i _wagîh_, o, come suonano in lingua nostra, gli anziani e
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