Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 27

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civili che fossero rimase loro, son da distinguere le terre abitate da
soli cristiani e quelle ove stanziasse con loro qualche colonia
musulmana. Nelle prime è probabile che fosse lasciato un avanzo di
municipalità: magistrati eletti in qualunque modo dalla popolazione, col
tristo carico di riscuotere la gezîa; con le rade cure edilizie che
potessero occorrere tra tanta miseria; e di più vegliare su i mercati e
amministrare la giustizia civile e penale nelle cause che non toccassero
uomini musulmani. La giurisdizione di magistrati cristiani nelle terre
di cui ragioniamo non può essere dubbia, quando la si esercitava per
certo nelle terre che gli abitavano insieme coi Musulmani.
Queste erano le città o castella di maggiore importanza militare, ovvero
economica. In esse credo aboliti i municipii e commesse ad officiali
musulmani tutte le parti della polizia urbana. Ma i Cristiani ritennero
di certo le corporazioni di mestiere e di quartiere, che per lo più
coincideano l'una con l'altra nel medio evo. Così fatte associazioni,
che si trovano negli ultimi tempi del dominio romano,[857] non furono
distrutte al certo dagli Arabi, il cui reggimento n'avea d'uopo, e forse
le creò laddove mancassero; perocchè la esecuzione delle leggi penali
musulmane dipendea dalla responsabilità reciproca dei membri delle tribù
o consorterie. A togliere ogni dubbio, è detto espressamente negli
statuti penali che le ammende degli dsimmi debbano pagarsi dai loro
'akila ossiano ascritti alla medesima consorteria, e si vieta ai
Musulmani di ascriversi in quelle degli dsimmi.[858] La istituzione
delle consorterie necessariamente portava seco scelta di capi, vigilanza
di costoro a prevenire i delitti la cui pena sarebbe ricaduta su la
comunità; e infine, esercizio di giurisdizione civile affidata sia ai
capi stessi, sia ad altri magistrati cui designasse la corporazione. A
ciò conduceva il principio del compromesso, o vogliam dire giudizio per
arbitri scelti dalle parti: giurisdizione unica degli antichi Arabi,
come d'ogni popolo barbaro, accettata dai Musulmani, come da ogni popolo
più civile,[859] e necessaria agli dsimmi che non avean comuni coi
vincitori nè religione, nè costumi, nè ordini sociali, nè, per parecchi
secoli, il linguaggio. E che tale giurisdizione volontaria fosse stata
esercitata assai largamente, lo mostra un capitolo delle istituzioni
musulmane relativo ai giudizii delle liti tra gli dsimmi; nelle quali
era lasciato ad elezione delle parti di adire il giudice cristiano,
ovvero il magistrato musulmano, il quale poi decidea secondo le proprie
leggi.[860] Durano tuttavia così fatti ordini nelle popolazioni
cristiane d'Oriente, ove la giurisdizione conciliativa e correzionale è
attribuita per lo più alla gerarchia ecclesiastica, e la si estende
molto più che negli stati cristiani, per ripugnanza della gente a
richiedere il magistrato musulmano, e per timore delle molestie ed
estorsioni di quello.[861]
Venendo agli uomini di condizione servile, noi lasceremo indietro que'
che viveano nella società cristiana sotto l'antico giogo delle leggi
romane; se non che dovea mitigarsi lor sorte nelle città independenti e
tributarie, per paura che i servi e coloni non si emancipassero
rinnegando la fede, e nelle popolazioni vassalle, per lo esempio dei
signori musulmani. Appo costoro la schiavitù ebbe origine di tre maniere
diverse: uomini liberi presi in guerra; uomini venduti da altri
Musulmani o Cristiani che li avessero tolto d'altri paesi per violenza o
frode; e in ultimo, com'e' non parmi dubbio, servi della gleba passati
in proprietà dei Musulmani insieme coi poderi. L'origine non portava
divario nella condizione. I Musulmani chiamavanli indistintamente
_rekîk_, che vuoi dire “minuto o sottile” e _memlûk_, cioè
“posseduto:”[862] orribile parola; ma il fatto era più mite; nè la legge
tenea gli schiavi come cose più tosto che persone. Se Gregorio il grande
meritò bene della umanità pei liberali precetti, non accompagnati sempre
dallo esempio, a favor degli schiavi, Maometto va lodato sopra di lui
per avere, venti anni appresso la morte di San Gregorio, migliorato
assai più la condizione di coteste vittime della forza e dell'avarizia.
Non potendo, come già il notammo,[863] cassare d'un tratto la schiavitù,
fece opera ad alleggerirla ed abbreviarla. Ora in nome dell'Eterno
comandava di usare carità agli schiavi come ai figliuoli, congiunti,
orfanelli, mendici e viandanti,[864] e insinuava di dar loro abilità a
riscattarsi col frutto del proprio lavoro.[865] Or ponea l'emancipazione
d'uno schiavo ad ammenda di omicidio scusabile,[866] voto infranto, o
ritrattazione di divorzio precipitoso;[867] rendea libera di dritto la
schiava che avesse partorito un figliuolo al suo signore,[868] e
chiamava reo di morte il padrone omicida del proprio schiavo;[869]
comechè egli non abbia sempre fatto osservare questa legge e che la
logica dei giuristi l'abbia del tutto annullato.[870] Tanto pure avanzò
di quei caritatevoli insegnamenti, che lo schiavo, secondo legge
musulmana, non può andar messo in catene;[871] e che la emancipazione,
accordata volentieri dai generosi, carpita quasi dalla legge agli animi
duri e taccagni, si effettuava a capo di parecchi anni di servigio;
sopratutto venendo a morte il padrone, e fattosi musulmano lo
schiavo.[872] Superfluo parmi d'avvertire che la schiavitù sotto gli
Arabi inciviliti del nono secolo, non va punto rassomigliata a quella
appo i pirati barbareschi, vergogna dell'Europa infino ai principii del
secol nostro. Potrebbe per avventura farsi il ragguaglio con gli Stati
cattolici e feudali del medio evo e con le due nazioni più giovani del
mondo, cristiane entrambe e modello l'una di dispotismo, l'altra di
libertà: e la bilancia penderebbe sempre a favor degli Arabi.
La somma è che la schiatta vinta in Sicilia vivea meno aggravata sotto i
Musulmani, che le popolazioni italiche di terraferma sotto i Longobardi
e i Franchi. L'ostacolo della diversa religione dovea scemare ogni dì
per le apostasie dei vassalli, e assai più degli uomini di condizione
servile, i quali per conseguire libertà si rifuggissero appo i Musulmani
dalle città independenti o tributarie; ovvero, se schiavi di Musulmani,
abbandonassero la fede dei padri loro per le sollecitazioni dei nuovi
signori, la certezza di più umani trattamenti, la speranza
dell'emancipazione e la lontananza dai correligionarii. La distribuzione
geografica delle quattro classi della gente cristiana nel nono secolo,
non mi par difficile a ritrovare. Il Val di Mazara, sede delle colonie
musulmane, era pieno di schiavi e vassalli; e cotesti ultimi
soggiornavano in città e terre insieme coi Musulmani, più tosto che
soli.[873] Al contrario gli abitatori del Val di Noto, per un secolo in
circa dalla metà del nono alla metà del decimo, sembran tutti cristiani,
e le città loro più tostò vassalle che tributarie.[874] Tutte le città
independenti, come già il dicemmo, e alcuna tributaria, eran ristrette
in Val Demone.
Dall'ordine politico e sociale or ci volgeremo alle vicende
intellettuali e morali. Avremo a scorta le memorie ecclesiastiche: unici
annali dell'uman pensiero, nei tempi che il pensiero, incatenato dalla
religione, in ciò solamente si esercitò che piacesse alla Chiesa; e i
pochi frutti che produsse andaron a beneficio e nome di quella,
com'avvien che il servo si affatichi sempre a comodo del padrone. La
unità di cotesta forza motrice della società bizantina di Sicilia ci
porta a seguire l'ordine cronologico, più tosto che la distinzione per
materie, come sarebbero opinioni religiose, passioni pubbliche, lettere,
costumi. E piacerà fors'anco al lettore a guardare, in vece di circoli
ideologici, i ritratti degli uomini notabili del tempo, bene o mal
dipinti che fossero.
Della storia ecclesiastica propriamente detta, ci basterà ricordare le
due vicende principali; cioè la restaurazione delle Immagini e lo scisma
di Fozio. L'una accrebbe potenza al clero non meno che agli imperatori,
sendo stato il popol di Sicilia tenacissimo in quel culto. Lo scisma di
Fozio, lite nazionale più tosto che religiosa, tra Roma e
Costantinopoli, non portò scosse nell'isola, ove il papa era già caduto
in obblio. Perocchè nell'ottavo secolo, senza contrasto nè
rincrescimento dei popoli, s'era consumata la scissione della Chiesa
Siciliana dalla sede di Roma.[875] Ubbidì la Sicilia allora al Patriarca
di Costantinopoli. I vescovi di Siracusa e Catania ottennero grado di
metropolitani; il secondo senza suffraganei; il primo preposto a tutte
le sedi da Catania in fuori: cioè Taormina, Messina, Cefalù, Termini,
Palermo, Trapani, Lilibeo, Triocala, Girgenti, Tindaro, Lentini, Alesa,
Malta e Lipari.[876] Dopo il conquisto musulmano distrutta alcuna città,
altra fatta stanza dei Musulmani, parecchi vescovadi caddero, o ne
rimase il nome solo, non sappiam quali, nè in quali anni; perocchè in
vano si cercherebbero le vestigia di cotesti mutamenti nelle copie
diverse del catalogo attribuito a Leone il Sapiente. Pure il fatto è
certo, perchè necessario, e perchè le soscrizioni dei vescovi siciliani
scompariscono a poco a poco dagli atti dei concilii; non si parla più di
loro nelle croniche; e il solo di cui si abbia memoria, verso la fine
dell'undecimo secolo, è quel di Palermo, chiamato arcivescovo; del qual
cenno noi tratteremo a suo luogo.
Aprendo i volumi delle agiografie siciliane reca maraviglia lo
scarsissimo numero dei martiri dell'epoca musulmana. A spiegar ciò non
basta la dimenticanza che necessariamente seguì nel decimo e undecimo
secolo, quando la più parte della popolazione confessava un Dio solo e
Maometto apostol di lui. Sendo rimasi tuttavia molti Cristiani in
Sicilia, e surti in Calabria novelli monasteri ove riparavano frati
siciliani, è manifesto che la tradizione non potea perire. Martiri da
un'altra mano non ne mancavano. Migliaia di combattenti, fatti prigioni
e proposta loro talvolta, a rigor del dritto di guerra, l'alternativa
tra l'apostasia e la morte, eleggeano francamente la morte; come fecero
sempre e in ogni luogo i soldati dell'impero bizantino. Ma il clero non
volea santi laici, molto meno soldati; e di certo mandava all'inferno
quei martiri che innanzi non fossero stati bacchettoni. De' suoi, il
clero non ne forniva; perdonandosi per legge musulmana la vita ai preti
e ai frati fuorchè se avessero combattuto: il che non avveniva giammai
nella Chiesa Greca. Perciò sì poche le vittime cui il martirio desse
titolo di santità. Si noverano tra quelle, nel primo impeto del
conquisto, San Filareto e altri frati di che facemmo ricordo
nell'assedio di Palermo (831): e furon presi fuggendo.
Contemporaneo di San Filareto un grande oratore sacro, Teofane Cerameo
arcivescovo di Taormina: che sembra onoranza personale, se pure negli
sconvolgimenti ecclesiastici e politici di quel tempo la dignità
metropolitana non fu accordata e tosto ritolta alla detta sede. Di
Teofane Cerameo si ha notizia per un'ampia raccolta di omelie greche,
delle quali ci avanzano da quaranta esemplari,[877] la più parte col
nome di lui, altri di Gregorio Cerameo, Giovanni Cerameo, Cerameo
soltanto, e infine Filippo, chiamato poi, com'aggiugnesi ne'
manoscritti, Filagato, monaco e filosofo.[878] Ostinandosi a riferire
tutte le omelie a un medesimo autore, gli eruditi che le studiavano,
disputarono vanamente su l'età in cui fosse vivuto. Lo Scorso, gesuita
siciliano il quale pubblicò per lo primo a Parigi (1644) il testo e la
versione latina di sessantadue omelie, le volle tirar su tutte al nono
secolo; e infelicemente cavillò per adattare a quei tempi le vestigia
del duodecimo secolo che si toccan con mano in alcune di coteste
omelie.[879] Il dotto Guglielmo Cave, al contrario, opinò che la
raccolta appartenesse al secolo undecimo, e dovea dire duodecimo.[880]
Ha sostenuto questa medesima sentenza il sacerdote Niccolò Buscemi da
Palermo (1832) illustrando la materia con le notizie di altri
manoscritti, tra i quali uno di Madrid, che contiene altre ventinove
omelie inedite, e che fu rubato probabilmente alla Sicilia.[881] Ma per
vero si debbono riconoscere, come il pensò quel savio monsignor Di
Giovanni,[882] almen due autori; l'uno dei quali visse di certo nel nono
secolo, l'altro di certo nel duodecimo. La prova del primo assunto si
vedrà or ora. Quella del secondo è che cinque orazioni,[883] come
leggesi in alcuni codici, furono recitate “nel palagio di Palermo, in
Palermo dinanzi il re, nel monastero del Salvatore di Messina[884] nella
chiesa di Santo Stefano in Palermo e sul pulpito della chiesa
metropolitana della stessa città.” A togliere il dubbio che il
predicatore moderno le avesse rubato tutte all'antico, una di coteste
orazioni contiene lo elogio funebre del primo cantore del detto
monastero del Salvatore;[885] e un'altra la più precisa descrizione che
far si possa della cappella palatina di Palermo, coi mosaici e i marmi
di che la arricchirono i principi normanni.[886] Par che cotesto oratore
sia appunto Filagato del quale dicemmo: e può supporsi ch'egli abbia
aggiunto del suo qua e là; composto qualche omelia; tolto di peso le
altre da antichi codici; e spacciato tutto per roba propria. Altri
probabilmente replicò il plagio, e così andrebbe spiegata la diversità
dei nomi d'autori, che s'incontrano nei varii manoscritti.[887] Quanto
alle omelie che non portan sì chiara la divisa della età, molte sembrano
da attribuirsi all'autore del nono secolo.[888]
Senza avvilupparci in oziose questioni, chiameremo costui Teofane,
soprannominato Cerameo dalla patria o dal casato. Ei passò, come pare,
da un monastero al seggio vescovile di Taormina; ed affrontando l'ira
del governo iconoclasta, fu bandito dalla diocesi; come lo mostra il
caldo esordio d'una omelia recitata dal pulpito di Taormina.[889] “Avea
durato, ei dicea, lungi dai suoi figliuoli in Cristo, la tirannide d'un
amor violento; avea bramato di rivederli come il terreno arso e
screpolato brama la pioggia: e dileguinsi, ei continuava, le rughe delle
nostre fronti, poichè ci è dato di tornar tutti insieme a venerare
questa effigie di Maria non dipinta da man d'uomo.”[890] Non guari dopo,
quel dì stesso che si festeggiò per tutto lo impero la restaurazione
delle Immagini (842), Teofane esponea con dire vibrato e conciso la
storia degli Iconoclasti. Certi maghi ebrei vaticinarono la futura
grandezza a Leone Isaurico; e lo spinsero a dar principio all'eresia.
Serpente nato di un dragone, succedeva all'Isaurico, nell'impero e nella
empietà, Costantino Copronimo: e rincalzava la persecuzione un altro
Leone (l'Armeno) indegno della porpora; stigandolo alla mal opra quel
falso abbate, che solea rintanarsi in un casolare, e uscir come
pipistrello su l'imbrunire del dì.[891] Narra poi il noto fatto di
Teodora e del giullare che la scoprì; scansa prudentemente il nome del
crudele Teofilo; e ne viene al concilio di Costantinopoli; alle lodi
della imperatrice che rendeva alla Chiesa le immagini, quasi tolti
ornamenti e segni di gloria; e sì esorta i fedeli a celebrare il fausto
evento, abbominando i capi e fautori dell'empietà, venerando e baciando
le immagini, non per idolatria, ma per onorare i prototipi di quelle: e
conchiude, contro le premesse, con raccomandare a tutti carità,
misericordia, penitenza.[892] La data dell'anno, mese e giorno è scritta
quivi a caratteri indelebili. Quella del secolo si trova in due altre
omelie, dove l'oratore volgeasi al cielo, pregando aiuto agli ortodossi
imperatori contro gli empii figli di Agar, insultatori del culto
cristiano;[893] e in un'altra ove discorre le voluttà dei Gentili, e dei
nostri vicini Ismaeliti, ei dice, che si scambian le mogli.[894]
I dubbii cronologici che abbiam toccato, e la tendenza degli oratori
sacri, come dei poeti satirici, ad abbozzare piuttosto caricature che
ritratti, ci consigliano a molta circospezione nel dedurre dalle dette
omelie i costumi della Sicilia cristiana nel nono secolo. Esagerate
sembrano invero le invettive che il nostro oratore lanciava da petto a
petto al popolo di Taormina, il dì festivo di San Pancrazio, primo
vescovo, che si supponea, della città. Tornato in fretta di Palermo,
Teofane, ancorchè spossato, com'ei dicea, dal viaggio, montava sul
pulpito a sfogar sua collera. Ponea per testo le parole del Vangelo:
“Son io la porta” (Giovanni, X, 9); e, spiegatele, veniane alla
conchiusione, che il clero farebbe opera a non imitare i pastori
mercenarii e ladri, ma i fedeli dovessero alsì fuggire l'esempio de'
capretti che corrono a precipitar nei dirupi. E passando alle gesta del
santo che si festeggiava: “In questa nostra isola, ei dicea, venne
Pancrazio, e in questa città di Taormina; sì, città del toro e delle
Menadi,[895] del furore e della mania, in questa terra ove siam dannati
a soggiornare.” Poi facendo parola degli idoli Falcone, Lissa e
Scamandro abbattuti da San Pancrazio, esortava i cittadini “a metter giù
anch'essi i loro idoli, cioè le fiere passioni dell'animo; ad
esercitarsi in buone opere; massime quei che il poteano, gli ottimati
dell'empia città, ottimati, ei ripigliò, cioè più cospicui nei
vizii.”[896] Il viaggio di Palermo, la perturbazione politica che si può
argomentare da quella puntata contro i grandi, accennerebbero ai tempi
della rivoluzione d'Eufemio, nei quali regnava Michele il Balbo, nè
correan troppo pericolo gli adoratori delle immagini. Si potrebbe
riferire per avventura ai principii del regno di Teofilo un'altra omelia
recitata il dì di San Pantaleone, quando il sacro oratore rampognò gli
uditori che venissero alla festa per vendere le merci più che a sentir
la parola del Signore; e provocò al certo la potestà temporale,
ricordando che Cristo avesse mandato suoi discepoli come pecore tra i
lupi, e preveduto che monarchi, caporioni e tiranni sorgerebbero contro
la predicazione del vangelo.[897] Un altro grave sermone tocca
particolarmente i costumi privati. Spaventevole siccità travagliava il
paese; il suolo non poteva intaccarsi ormai con aratro nè zappa.[898]
L'oratore, costernato, parlando a gente costernata, descrive
diffusamente, e pur con vivezza e forza d'immagini, la pubblica
calamità. Commossi gli animi, risalisce, secondo suo mestiere, alla
causa di tutti i mali, il peccato. “E questo flagello ne percuote, ei
sclamava, perchè ci rodiamo d'invidia; perchè vogliamo superbire contro
gl'infimi; godiamo nel mal del prossimo; ne laceriamo l'un l'altro a
calunnie; ci abbandoniamo a stolte cupidigie; siam rotti a
lussuria;[899] lupi affamati nell'avere altrui; stizzosi peggio che
cameli; senza carità pei poverelli; senza rispetto verso la Chiesa. E i
ministri della Chiesa (ei continua nell'impeto dell'orazione) non son
essi i primi agli scandali; non si ingiuriano tra loro; non si odiano;
non cercan vendetta; non si tendono insidie reciprocamente; e, vedendo
il peccato in trionfo, non stan essi mutoli? I laici poi perchè guardan
la gobba dei sacerdoti, e non la propria loro? E che! la città è piena
di vizii; odo far giuramenti ogni dì, non ostante ch'io v'abbia ammonito
a scansarli,[900] e vi abbia presagito la collera del cielo: qual
maraviglia dunque che vi si apparecchi tal mèsse e tal vendemmia, e che
Iddio gastighi tutti per le peccata dei pochi, e fin gli animali e il
terreno per le peccata degli uomini?”[901] In tutta questa diceria non
si trova sillaba che indichi appunto i tempi. Nondimeno quello scrupolo
a far giuramenti, quella turbolenza del clero, mi fan pensare al nono
secolo più tosto che alla prima metà del duodecimo.
Dello stile di Teofane ho dato esempio negli squarci che precedono. Non
parmi carico di ornamenti quanto portava il gusto grosso di quei tempi.
Anzi, in generale, la narrazione dei fatti semplice, tersa, impaziente,
mi torna a mente il Maurolico, vivuto otto secoli appresso, nato com'e'
pare della stessa buona schiatta greca del Valdemone; ma l'oratore sacro
di Taormina non potea sempre mantener la sobrietà del geometra e
storiografo messinese. Suole intessere le prediche con bel metodo. Dopo
breve e leggiadro esordio pone il testo del vangelo; lo spiega
nitidamente, e con saviezza rara a quei tempi sviluppa i principii
morali più volentieri che sprofondarsi in astrazioni teologiche.
Guardinsi dunque le opere di Teofane da qualunque lato si voglia, si
dovran tenere come uno dei migliori esempii della eloquenza sacra appo i
Greci dei bassi tempi.[902] Lascio ad altri a indagare se appartenga a
Teofane un trattato didattico che si trova manoscritto a Torino; e chi
sia l'autore delle altre omelie diverse che possiede, anco manoscritte,
la Biblioteca di Vienna col nome di Giovanni Cerameo.[903]
Nel medesimo tempo altri Siciliani coglieano palme a lor modo,
gittandosi, a Costantinopoli, nel centro della mischia contro
gl'Iconoclasti. Primeggiò tra loro San Metodio, nato a Siracusa di
cospicua famiglia; avviato agli studii di grammatica, storia e
rettorica; mandato giovane a corte: ma l'ebbe a noia; e, persuaso da un
frate, vestì la cocolla, dato prima ogni suo avere per amor di Dio ai
poverelli. Così il puzzo del basso impero facea rifuggire nel chiostro
gli animi generosi, che non vi fossero stati spinti già prima da
preoccupazioni ascetiche; e la società civile perdea vigore; la
religiosa ne prendea troppo, e sfogavalo in vane contese. Metodio
pertanto si ricacciò suo malgrado tra i tumulti del mondo. Parlando
speditamente, come nato in Sicilia, il greco e il latino, fu mandato una
volta a Roma; tornò più caldo di zelo ortodosso e ardire contro la
potestà civile; parteggiò sì fieramente per Niceforo patriarca di
Costantinopoli, che, cacciato costui (814), egli fu costretto a
ripararsi a Roma; e dimorovvi fino alla morte di Leone l'Armeno (820).
Il papa allora l'inviava a nunzio appo Michele il Balbo; e questi,
tenendo ribelle il papa e più ribelle Metodio, ch'era nato suddito suo e
cadutogli tra le mani, lo fe' vergheggiare crudelmente; poi trasportare
in un isolotto detto di Sant'Andrea, o secondo altri Antigono, nel mar
di Marmara; chiuderlo in carcere sotterraneo con due condannati per
misfatti; un de' quali venne a morte, e il cadavere fu lasciato coi
compagni vivi. Dopo sette anni, Teofilo aguzzando il pazzo cervello a
comprender non so che scritto, a persuasione di un cortigiano, lo mandò
a Metodio; si compiacque della interpretazione; volle appo di sè il
sapiente; gli diè pensione e stanza in corte; e poco appresso gli fe'
sentir di nuovo il bastone e la muda, poichè l'ostinato Siciliano
ripigliava sotto mano sue argomentazioni a pro del culto delle immagini.
Ma liberato per novello ghiribizzo dello imperatore, Metodio, da savio,
si messe a disputare con lui in persona; lo scosse; e certo lo stuzzicò
in guisa, che Teofilo non sapendo star senza di lui, o temendo che
facesse brogli a Costantinopoli,[904] sel tirava dietro quando egli
andava a scapricciarsi alla guerra. È noto come, alla morte di Teofilo,
l'imperatrice Teodora, volendo por fine alla eresia, la prima cosa
cacciava per violenza il patriarca Giovanni Lecanomante. A lui fu
surrogato Metodio, ch'era tenuto capo di parte ortodossa, per la
dottrina, la pietà, la fortezza dell'animo, e di certo ancora per quelle
pratiche già si sospette a Teofilo. Degnamente esercitò l'autorità
patriarcale. Con agevolezza confuse i nemici che l'accusavano di
violenza fatta a una donna; alla età sua, macerato e consunto come egli
era dal carcere duro degli Iconoclasti,[905] ove avea perduto i denti e
i capelli. Rese poscia gli estremi ufficii ai compagni di persecuzione,
facendo opera a tramutare in Costantinopoli i cadaveri di que' ch'eran
morti in esilio. E mancò l'anno appresso (847); lasciando fama di
santità, e parecchi panegirici, e scritti disciplinari.[906]
Succedette a Metodio un figliuolo dello imperatore Michele Rangabe, per
nome Niceta, detto Ignazio dopo la esaltazione al patriarcato: eunuco
molto pio; divenuto inaspettatamente illustre e santo, perchè fu nemico
di Fozio. Lo scisma di Fozio il quale covava da secoli, per la rivalità
delle Chiese di Roma e di Costantinopoli, divampò per gelosia politica
contro i papi, per mene di corte a Costantinopoli: pur egli è vero che
la prima scintilla fosse stata gittata da Gregorio Asbesta, vescovo di
Siracusa.[907] Ignazio, contro il consiglio dei suoi più fidati, avea
vietato a costui di assistere alla sua consacrazione, come incolpato di
non so che trasgressione disciplinare; lievissima al certo, poichè non
fu mai specificata.[908] “Ma chi può spiegar con parole, sclama il
biografo di Santo Ignazio, quanti scandali seguitassero da ciò; quanta
rabbia di vendetta s'accendesse in petto a quel fier Siciliano,[909] che
trovato Fozio lo mise su e il consagrò?”[910] Alla dura tempra
dell'animo, audace, intollerante, superbo, Gregorio Asbesta congiungea
chiaro ingegno, parlare insinuante, gran dottrina, pietà, costumi
irreprensibili, e per colmo de' mali, ripiglia il biografo, fu anco buon
dipintore:[911] ed abusonne in certo libello d'accusa, nel quale andò
istoriando con sette miniature quel che bramava: il suo nemico, cioè,
catturato, deposto, incatenato, messo in gogna, condannato e condotto al
supplizio.[912] Prima che l'arcivescovo siracusano arrivasse a tanta
rabbia, il patriarca l'avea fatto deporre in un sinodo (854). Adescato a
portare la causa al papa, Gregorio sdegnò assoggettar di nuovo la sede
siracusana alla romana onde s'era sciolta;[913] ovvero non gli bastò di
uscir di briga, senza vendicarsi d'Ignazio. Non placato perchè questi or
lo venisse piaggiando,[914] Asbesta diessi a lacerare il suo nome per
tutta la città; a far brogli con vescovi e preti malcontenti; e s'aprì
la via appo Fozio, primo scudiero dello imperatore, chiarissimo per
sangue, ingegno e immensa dottrina, bel parlatore, uom di Stato e
gradito al dotto Cesare Barda che reggea l'imperatore e l'impero. Il
santo eunuco a questo, per ragguagliar le forze, gittatosi in braccio a
papa Benedetto III, fece approvare da Roma la condannagione del vescovo
di Siracusa;[915] il che Fozio e Barda tennero come caso di maestà. La
lite s'innasprì per offese private: alfine Ignazio era cacciato dalla
sede; rifatto patriarca Fozio; consagrato dal vescovo di Siracusa (858),
il quale si avvilì incalzando la persecuzione contro il nemico caduto.
Non occorre aggiugnere che il papa e il nuovo patriarca vennero alle
prese; che, per trovar pretesto a tanto furore di rivalità mondana, si
disputò sulla processione dello Spirito Santo; che Fozio osò deporre il
papa (867); che si discese anco ai pettegolezzi: lagnandosi Michele III
che papa Niccolò I gli scrivesse in idioma barbarico e scitico, e volea
dire il latino; e rimbeccandogli Niccolò ch'era da stolto a rinvilir sì
quella lingua, e volersi chiamar tuttavia imperator dei Romani.[916]
La fortuna subitamente voltò quando Basilio Macedone, per togliersi
d'inutile briga (867), redintegrò Ignazio nella sede:[917] e non
mancarono allora cento vescovi, che, adunati in Concilio, condannavano i
lor due fratelli, rei di perduta grazia del principe. Quivi Fozio e
Gregorio apparvero più grandi che prima, gettando parole di disprezzo in
faccia ai vili giudici (29 ottobre 869).[918] Dieci anni appresso,
mancato Ignazio, esaltato di nuovo Fozio, diè meritamente a Gregorio la
sede metropolitana di Nicea; ove tosto morì (878), e la sua memoria fu
onorata da un elogio del patriarca di Costantinopoli, che per dottrina
superava ogni altr'uomo di quei tempi.[919] Di sì gran momento furono
due Siciliani nelle principali contese ecclesiastiche che si agitarono
nel nono secolo tra l'Oriente e l'Occidente: l'una terminata per man di
Metodio; l'altra accesa da Gregorio Asbesta.
In entrambe comparve, ma non tra i primi, San Giuseppe, detto
l'Innografo, siciliano anch'egli. Nato, non sappiamo in quale città, da
un Plotino e un'Agata, riparava coi genitori nel Peloponneso per fuggire
la crudeltà dei Musulmani, dice il monaco biografo e forse discepolo di
lui; aggiugnendo vaghe frasi di stragi, rapine, cattività, con che i
Barbari affliggessero la Sicilia, isola nobilissima per la fama di
Dionisio e di San Giuseppe Innografo. Entrò questi in un monastero di
Tessalonica a quindici anni: studioso, solitario, taciturno; si
straziava d'astinenza; percoteasi il petto con pietre; a usanza dei
monachi greci si confessava gran peccatore indegno del sacerdozio, al
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