Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 14

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vasellame d'oro e d'argento, e nascondere il danaro e le minutaglie più
preziose nella cattedrale, tra le tegole e il soffitto. Ma, occupata la
città, un Musulmano, bagnandosi in mare, inciampava in un piatto
d'argento; un altro, saettando una colomba che svolazzava nella chiesa,
colse un'asse del soffitto, onde caddero alquante monete d'oro: così, al
dir dei cronisti musulmani, si scopersero i tesori occultati. Stendonsi
poi nel narrare le magagne dei soldati che saccheggiando frodavano la
parte del califo, del capitano e dei compagni; onde, per timore d'esser
frugati nei panni, chi spezzò la lama della scimitarra per nasconder
l'oro nel fodero, rimettendo l'elsa al suo luogo; chi sparò la carogna
d'un gatto e ripiena di danaro la gittò dalle finestre d'un palagio, per
ripigliarla all'uscita. A tal corruzione generale mescolavansi i terrori
religiosi, e non la frenavano. Rimontati in mare i predoni, dice
Ibn-el-Athîr, udissi una spaventosa voce: “Sommergili, o Dio!” e
incontanente il mare tranghiottiva que' ribaldi; e, come ad accusarli,
rigettava su la spiaggia i cadaveri con le cinture zeppe di moneta.[250]
Per dieci anni l'ardente cupidigia dei soldati e dei capitani si sfogò
in Spagna; indi si volse di nuovo ai nostri paesi; poichè sappiamo che
Mohammed-ibn-Aus, oriundo di Medina,[251] avea fatto preda e prigioni in
Sicilia l'anno settecentoventi, quando, tornato in Affrica, fu preposto
al governo in luogo di Iezîd, ucciso dai Berberi, come sopra accennammo.
Il movimento poi di questi popoli ammorzò l'impeto degli Arabi contro la
Sicilia. L'isola fu assalita il settecentoventisette da
Biscir-ibn-Sefwân della tribù di Kelb, capitano d'Affrica, il quale
tornò con gran copia di prigioni;[252] ma par trattasse col governatore
bizantino un accordo che poi non si fermò, o non si osservò.[253] Venuto
a morte Biscir, e succedutogli 'Obeida-ibn-Abd-er-Rahmân della tribù di
Soleim, tentava la Sicilia con parecchie spedizioni. L'anno medesimo
ch'ei capitò in Affrica, che fu il centodieci dell'egira (15 aprile 728
a 3 aprile 729), mandò in corso con l'armata un Othman-ibn-abi-Obeida;
il quale sbarcato in Sicilia spiccava una schiera di settecento uomini,
condotta dal proprio fratello Habîb; e questi, scontratosi col patrizio
bizantino, lo ruppe e messe in fuga. Onde 'Obeida, con maggior disegno,
l'anno appresso (4 aprile 729 a 24 marzo 730), allestiva centottanta
barche, e inviavale a dirittura in Sicilia con Mostanîr-ibn-Habhâb; il
quale per incapacità o sventura frustrò le speranze del capitano
d'Affrica. Posto l'assedio ad alcuna città, tanto aspettò che
sopravvenne l'inverno; e allora, partitosi con prosperi venti, ma
assalito da una tempesta nel tragitto, perdè per naufragio tutta
l'armata, da diciassette barche all'infuori; in una delle quali egli
stesso approdava a Tripoli. Il che risapendo 'Obeida, volle dare, dice
il suo biografo, un gastigo a Mostanîr e uno esempio agli altri. Commise
a Iezîd-ibn-Moslim, governatore di Tripoli, di mandargli incatenato
sotto buona scorta il condottiero che avea fatto perire per oscitanza i
Musulmani; e avutolo in Kairewân, lo fece frustare sopra un'asina per la
città; poi per lungo tempo vergheggiarlo ogni settimana; e sì il tenne
in prigione finch'ei resse la provincia.[254] Thâbit-ibn-Hathîm di
Ordûnn in Siria nel centododici (25 marzo 730 a 13 marzo 731), e
Abd-el-Melik-ibn-Katan nel quattordici (2 marzo 732 a 19 febbraio 733),
vennero anco a far bottino e prigioni in Sicilia, e salvi se ne
tornarono in Affrica; al par che Abd-Allah-ibn-Ziâd, che infestò il
quattordici stesso la Sardegna. Ma l'anno appresso (20 febbraio 733 a 8
febbraio 734), Abu-Bekr-ibn-Soweid, mandato da 'Obeida in Sicilia,
perdeva alquante navi, distrutte dal fuoco che lanciaronvi i
Bizantini.[255] Infelice al paro un'altra impresa, ordinata il cento
sedici (9 febbraio 734 a 29 gennaio 735) da 'Obeid-Allah-ibn-Habhâb, il
quale passò allora dal governo d'Egitto in Affrica, in luogo di 'Obeida
che gli avea sì crudelmente svergognato il fratello. Le genti di
'Obeid-Allah che venivano sopra la Sicilia, imbattutesi nell'armata
greca, ebbero dura battaglia e d'esito incerto; poichè i Greci sconfitti
recaron seco loro molti prigioni musulmani; e tra gli altri un
Abd-er-Rahmân-ibn-Ziâd, il quale non fu liberato innanzi il centoventuno
(739). Del centodiciassette (735), 'Obeid-Allah facea depredar di nuovo
la Sardegna da un nipote del famoso 'Okba-ibn-Nafi' per nome
Habîb-ibn-'Obeida, chiaro anch'egli per vittorie su le remote rive
dell'Atlantico e in cuor del continente affricano, nel Sudân.[256]
Intanto, ingrandito l'arsenale di Tunis e apparecchiate assai maggiori
forze che per l'addietro, e fattene venire anco di Spagna, 'Obeid-Allah
le affidava ad Habîb, e scagliavale un'altra fiata su la Sicilia, con
evidente disegno di conquisto. Sendo l'Affrica aspramente turbata a quel
tempo, pare che il governatore musulmano si fosse deliberato alla
impresa allettato da pratiche che avesse in Sicilia, ove Leone Isaurico
tormentava troppo le coscienze e le borse dei popoli.
Sbarcato Habîb del centoventidue (740), e afforzatosi com'ei pare in un
campo, come soleano fare i Musulmani quando prendeano ad occupare alcun
paese, mandava intorno i cavalli col proprio figliuolo Abd-er-Rahmân; il
quale ruppe quanti gli veniano allo scontro, e corse vittorioso in
Sicilia, dicono i cronisti musulmani, più largamente che niun altro
condottiero. Appresentatosi sotto le mura di Siracusa, Abd-er-Rahmân
sconfisse le genti uscite a combatterlo; strinse d'assedio la città, e
spirovvi tanto terrore, che un dì potè cavalcare egli stesso fino ad una
porta, e percossala con la spada in atto di minaccia, lasciovvi il
segno. Calaronsi infine i cittadini a pagar una taglia. Doma la
capitale, Habîb volgeasi a soggiogare il rimanente dell'isola; quando fu
premurosamente richiamato in Affrica, ove i Berberi s'erano sollevati di
nuovo, cogliendo appunto il destro di questa impresa di Sicilia.[257]
L'isola dunque fu salva mercè quella ribellione.
In mezzo alle fiere vicende che poscia intervennero in Affrica,
Abd-er-Rahmân, occupata questa provincia, come altrove s'è detto,
ripensò alla Sicilia. L'anno centotrentacinque (17 lug. 752 a 5 lug.
753), allestita un'armata e gastigati i Berberi di Telemsên, andò in
persona, o, com'altri vuole, mandò il proprio fratello Abd-Allah
all'impresa di Sicilia e poi di Sardegna; nelle quali fu fatto molto
guasto e stragi e preda e prigioni: durevoli acquisti no; non
concedendolo le deboli fondamenta della dominazione d'Abd-er-Rahmân in
Affrica. Il governo bizantino potè quindi, avvertito da tal nuova
minaccia, afforzare validamente le due isole, e massime la Sicilia che
più gli premea; rizzare un castello, così scrivono i Musulmani, sopra
ogni roccia atta a difesa; e ordinare un'armata che guardava que' mari,
e quando il potea, corseggiava sopra i mercatanti musulmani.[258] Tra
così fatti provvedimenti e le turbolenze che non cessavano in Affrica,
la Sicilia ebbe respitto dai Musulmani più di mezzo secolo.
Le ultime incursioni erano state aggravate da una crudele pestilenza.
Già fino dal settecentodiciotto avea menato strage nell'armata del
califo che assediava Costantinopoli.[259] Proruppe indi in Affrica dal
settecentoquarantaquattro al settecentocinquanta,[260] e verso il
medesimo tempo in Sicilia e Calabria, donde si credè che si appigliasse
alla Grecia; e del settecentoquarantotto spopolò Costantinopoli e il
Peloponneso,[261] mentre non men fiera ardea tra il Tigri e
l'Eufrate.[262] Nei paesi cristiani commossi allora dalla lite delle
immagini, non si potea far che cotesta calamità non le fosse apposta. E
perchè gli Iconoclasti, distruggendo ogni altro obietto di culto,
serbavan la sola croce, il volgo ortodosso la prese in uggia: vide
apparire, su le vestimenta, le case e i tempii, crocette negre a
migliaia, non più simbolo di riscatto, ma segno di pestilenza e marchio
dell'ira divina.[263]
Si rannoda infine alle scorrerie de' Musulmani nel bacino centrale del
Mediterraneo un episodio di storia letteraria, di assai momento nella
penuria di quella età. Narra una leggenda che tratta a Damasco una torma
di prigioni cristiani delle isole, mentre altri era venduto, altri, non
sappiamo perchè, serbato al patibolo, notavasi tra loro un bel giovane
italiano per nome Cosimo, al quale i miseri compagni si gettavano ai
piè, chiedendo li raccomandasse a Dio. I Barbari, che non comprendeano
perchè tanto si onorasse un uomo di sì poca età e povero aspetto,
maravigliati lo interrogavano dell'esser suo; ai quali rispondea, sè
esser frate e dotto in filosofia cristiana ed antica: e in ciò dire gli
si empiean gli occhi di lagrime. “E perchè piangi, tu, che hai ripudiato
ogni bene di quaggiù?” domandollo allora un cittadino fattosi innanzi. E
Cosimo a lui: “Altro non m'accora,” rispose, “che d'avere studiato
indarno. Ho speso la gioventù,” continuava, “ad apprendere rettorica,
dialettica, morale, fisica, aritmetica, geometria, musica, astronomia,
teologia greca e teologia nostrale: ma a che pro, se or debbo morire
oscuro, senza che abbia a chi lasciare tal retaggio?” — “Datti pace, o
fratello, che ti troverò io gli eredi” replicò il cittadino, ch'era
cristiano, facoltoso, grato al califo, e padre del giovanetto Mansur,
notissimo poi sotto il nome di San Giovanni Damasceno. E il buon uomo,
comperato immantinente il prigione, lo emancipò, e affidògli il
figliuolo e un altro fanciullo che avea adottato; i quali felicemente
apparavano le dottrine del maestro, e il primo ne salì a quella fama che
ognuno sa. Tanto leggiamo nella vita del Damasceno stesa due secoli
appresso, sopra certi ricordi arabici;[264] e, stralciando gli ornamenti
del compilatore, non v'ha ostacolo ad accettare il fatto. Secondo la
ragion dei tempi, torna ai primi anni dell'ottavo secolo; ond'ei pare
che il monaco Cosimo fosse caduto in man dei Musulmani in Sicilia, forse
nella spedizione degli illustri ricordata di sopra; dopo la quale ei
sarebbe stato condotto al califo, tra i sessantamila prigioni che gli
mandava Musa conquistatore dell'Occidente. Rinforzano tal supposto le
frequenti comunicazioni, e potremmo dire la promiscuità che correa tra i
monasteri di Sicilia e que' della terraferma independente dai
Longobardi, negli ultimi venticinque anni del settimo secolo.


CAPITOLO VIII.

Mentre la potenza musulmana, sviluppandosi in Affrica, costringea gli
imperatori d'Oriente a pensare alla difesa della Sicilia, succedeano
nella penisola italiana non men gravi mutamenti di Stato. I Longobardi,
tra per que' loro sciolti ordini politici e per la pochezza del numero,
s'erano rimasi ai primi conquisti, e minacciavano le altre provincie,
senza poterle opprimere. Gli imperatori bizantini dal canto loro le
reggeano senza poterle difendere; non avendo esercito da mandare in
terraferma d'Italia, nè altro che rescritti, governatori, officiali,
qualche man di scherani, e ad ora ad ora un po' di forze navali.
Pertanto tollerarono, o promossero, l'ordinamento delle milizie
cittadine; lasciaron fare i municipii, che guadagnavan indi tutta
l'autorità perduta dal principato; e a poco a poco la schiatta italica
delle dette regioni ripigliò l'uso delle armi e della vita politica, e
aperse la prima era dei nostri comuni. Roma primeggiò tra quelli, perchè
era Roma; e perchè da San Gregorio in poi vi s'eran fatti come
presidenti del municipio i papi, la cui riputazione crescea sempre più
tra la rozza gente germanica, e toccavano quasi al primato su tutte le
chiese di Ponente.
Il novello elemento nazionale surto così in Italia, si provò contro il
governo bizantino, oppressore senz'armi, e, per giunta, molestissimo con
que' suoi ghiribizzi teologici che poco assai si confaceano alla natura
italiana. Attizzò il fuoco la Chiesa di Roma, rivale antica di quella di
Costantinopoli, e osante ormai disputare agli imperatori l'uficio di
pontefice massimo. Per tal modo lo antagonismo nazionale tra Italiani e
Greci, prese forza e sembianza d'antagonismo religioso, ch'è tra tutti
violentissimo. Ma al Sacerdozio solo profittò; nocque all'Italia, ch'era
scissa tuttavia tra due genti: latina e longobarda; e i Latini, per loro
malanno e nostro, non vedean altra stella polare che il papa.
La resistenza cominciò da Roma, ove il popolo non avea perduto nè la
vigoría nè l'orgoglio; ma scarso, ozioso e povero, appena gli parea vero
che un magistrato eletto da lui fosse riverito ancora in tanta parte del
mondo, e ne cavasse un tributo, il frutto cioè dei patrimonii, con che
il papa nutriva gli indigenti della città, manteneva una torma di
officiali sacri e profani, ed accrescea lo splendore dei tempii che
attiravano tanti stranieri. Per la gratitudine e interesse dei Romani,
Costante avea durato fatica a compiere l'attentato sopra papa Martino.
Parecchi anni appresso, il mero sospetto che un esarco venuto di Sicilia
a Roma volesse offendere il papa, bastò per far levare a romore le
milizie della città, e accorrere in arme quelle della Pentapoli e di
Ravenna, che ai conforti del papa poi si ritrassero (702). Ma, sguainate
le spade là dov'eran tante ire, non tardò a scorrere il sangue. Il
patrizio Teodoro, passato anche di Sicilia con l'armata a Ravenna, fece
a tradimento una efferata vendetta sopra que' cittadini; dond'essi
confederaronsi coi Romani e con le città dell'esarcato (711); e côlto il
destro che l'imperatore Filippico tentasse di ridestare la eresia
monotelita, il senato e popol romano, con sembianze dell'antica
magnanimità, decretavano disdirgli l'obbedienza, metter giù le effigie
dello imperatore, e ricusar la moneta battuta a suo nome (712).
Nondimeno, deposto Filippico, il movimento italiano sostò per la
prudenza o debolezza degli altri imperatori, e per la dubbiezza dei papi
che ripugnavano, come per istinto, a fondarsi in sul popolo.
Ma salito all'impero Leone Isaurico, mosso non da persuasione teologica,
nè dai consigli degli Ebrei e de' Musulmani come scioccamente si è
ripetuto, ma da saviezza d'uomo di Stato, ei si provò a una grande
riforma. Vedendo consumare l'attività dei popoli tra le ubbie religiose,
dentro i chiostri e fuori, e abbandonare l'industria e la milizia, Leone
pensò di stornarne gli animi, togliendo dinanzi agli occhi del volgo le
immagini di Santi, le quali lo stimolavano a quelle fissazioni, e
aumentavano la riputazione, i guadagni, e però anco il numero dei frati.
Così diè principio alla eresia degli Iconoclasti; la quale meglio si
direbbe guerra del principato contro la superstizione; raro esempio nel
mondo. E il principato questa volta restò di sotto. Perchè nelle
provincie orientali, ove il clero più gli obbediva, durò la riforma un
secolo e un poco più, finchè la opinione dell'universale non strascinò
teologi e principi al suo cammino. Ma in Italia gli umori religiosi
trionfarono immediatamente, perchè li rincalzavano le condizioni
politiche; e perchè la quistione delle immagini era tale che il volgo
benissimo la comprendea, vedendo e toccando con mano i numi tutelari che
gli volea rapire un despota greco. Pertanto, promulgato il primo editto
di Leone (726), Gregorio Secondo, uomo di alti spiriti quanto lo
imperatore, destò un incendio: e i successori di Gregorio non lo
lasciarono spegnere. Diersi i papi a sollevare i popoli; a promuovere la
lega delle città italiane independenti dai Longobardi; a chiamare in
aiuto i re di questa nazione, che volentieri colsero il destro
d'ingrandirsi. La guerra si ruppe sotto specie di difendere la
religione; e i papi fecer le viste di volersi rimanere a questo, e
serbare l'obbedienza agli imperatori.
Ma tal finzione legale svanì dopo le prime vittorie della confederazione
italiana. Perchè, assicurati da quelle, i papi presto dimenticarono e lo
scopo della guerra, e che il Vangelo non concedesse ai sacerdoti
altr'arme che il pastorale, nè altra dote che le limosine dei fedeli.
Vollero le spoglie opime dei vinti; vollero, non che rendite e tesori,
anco il principato: e il partaggio della preda si onestò col nome di
donazione di molte città tolte ai Bizantini, che re Luitprando offerisse
ai Santi Pietro e Paolo. Poi, pentitisi i principi longobardi di sì
larghe concessioni, i successori degli Apostoli per mantenerle,
lanciarono l'Italia in uno abbisso: impotenti con le armi, dettero
principio a quella torta politica che da indi in poi non hanno mai più
smesso. Chiamarono i Franchi ortodossi contro gli ortodossi Longobardi;
li aizzarono tuttavia a spogliare i Bizantini che desisteano
dall'eresia; sciorinarono tra le tenebre dell'ottavo secolo la falsa
donazione di Costantino, per ottener più liberali le donazioni di Pipino
e di Carlomagno; confusero ad arte con la signoria politica il dritto di
proprietà di qualche podere; e tristo quel paese ove si contasse San
Pietro tra i benestanti; che il papa stendeavi la mano a nome del
principe degli apostoli. Così San Pietro divenne re di belle e buone
provincie d'Italia; le quali, scorciate di qua, estese di là,
disputategli dalle tre possanze che si sono avvicendate poscia in
Europa, dai baroni, dai monarchi e dal popolo, lacere, frementi,
insanguinate, ei tiene ancora. Nè andò guari che compissi anco a nome di
San Pietro il terzo fatto, fatale all'Italia quanto il conquisto dei
Franchi e quanto la dominazione temporale del papa; dico la creazione
dell'imperatore d'occidente: il qual titolo per tanti secoli bastò a
tenerci divisi, attirar di qua dalle Alpi le armi straniere, e dar forza
al papato e quando gli imperatori patteggiavano per esso, e quando lo
combatteano.
L'Italia uscì da questa rivoluzione dell'ottavo secolo divisa nel
seguente modo. Tennero il settentrione i Franchi col nome di Regno
d'Italia; il papa lo Stato odierno della Chiesa, aggiugnendovi parte
della Toscana e altre città, e togliendone Roma con un po' di territorio
infino al mare; la quale serbò forme di repubblica, e fu dominata di
fatto dai papi e dagli imperatori d'Occidente.[265] Rimasero agli
imperatori bizantini la Sicilia, la Calabria, Terra d'Otranto e una
signoria nominale su le repubbliche sorte nel movimento nazionale di
quel secolo, ma non gittatesi nella ribellione papale; come Venezia coi
contorni, Napoli e poche altre città della costiera.[266] Sopravvisse
alla dominazione longobarda lo Stato di Benevento che prendea il resto
dell'odierno reame di Napoli; e riconobbesi vassallo di Carlomagno, ma
poi si sciolse dall'obbedienza. La Sardegna e la Corsica abbandonate dai
Bizantini, infestate dai Musulmani, sperando uscire di briga, si
assoggettarono ai novelli re d'Italia; i quali dettero qualche aiuto,
poi, non potendo, le lasciarono a lor sorte: e gli abitatori di quelle
isole, poveri e valorosi, per due secoli si salvarono dal giogo degli
Arabi, non dalle infestagioni, e rimasero privi dell'incivilimento
musulmano non men che di quello che si sviluppò in Italia.[267]
Nel quadro che qui mi son provato ad abbozzare, v'ha una parte che
vuolsi descrivere più particolarmente; ed è l'ambizione dei papi
dell'ottavo secolo sopra le parti meridionali d'Italia, e sopra le
isole. Cotesto disegno fu iniziato da Adriano Primo; continuato più
occultamente da Leone Terzo; lasciato dopo la morte di Carlomagno;
ripigliato nello undecimo secolo, è pressochè mandato ad effetto nel
decimo terzo: di che resta, ultimo avanzo, ai dì nostri, la dominazione
pontificia a Benevento. Il governo bizantino di Sicilia, s'oppose com'e'
poteva a quelle usurpazioni. Io lascerò indietro le brighe dei patrizii
coi papi, che seguirono nei principii dell'eresia iconoclastica, quando
i legati di Roma agli imperatori eran sovente ritenuti in Sicilia (a.
731-732): tiri di polizia, non di politica. Ma venuti in Italia i
Franchi, e voltisi però gli imperatori bizantini alla lega coi principi
longobardi, antichi nemici loro, il primo partito che si presentò fu di
accozzare le forze contro il novello nemico comune. Indi l'accordo
trattato (758) per lo assedio d'Otranto, al quale doveano trovarsi le
genti di re Desiderio e i dromoni di Sicilia.[268] Indi la passata d'un
potente navilio di Costantinopoli, che insieme con l'armata di Sicilia
(764) si mostrò su le costiere di terraferma,[269] a fin di cooperare
coi Longobardi; il che poi non si mandò ad effetto. E dopo la prima
impresa di Carlomagno e la caduta del reame longobardo (774), fuggitosi
Adelchi a Costantinopoli, il patrizio di Sicilia ebbe in mano le fila di
quante pratiche ordivansi in terraferma contro la novella dominazione.
Perchè Adelchi, con lo irrequieto suo valore e ardenti speranze, dava
opera a muovere i feudatarii longobardi soggiogati; ricordava l'onore e
gli interessi del comun sangue ad Arigiso duca di Benevento, rimaso
indipendente fin allora; e stigava alla guerra la pigra corte bizantina,
mostrandosele tutto devoto e pronto a grecizzare egli e tutti i
Longobardi, tanto che per arra ei prese il greco nome di Teodoto. Donde
gli imperatori, tra la voglia e il sospetto, necessariamente provvidero
che il ministro loro in Sicilia aiutasse e vegliasse que' principi
cospiratori. Le pratiche si riscaldarono quando Arigiso fu sforzato a
dirsi vassallo di Carlomagno, e papa Adriano, gustate le dolcezze dei
dominio temporale, pensò ad allargar i confini meridionali del nuovo
Stato.
Perchè veggiamo che mentr'ei piativa con Carlomagno per questa e
quell'altra città dell'Italia di mezzo, noverata nella donazione e
ritenuta pure in man dei Franchi; mentre allegava qua una ragione e là
un'altra, e fin le testimonianze di vecchi centenarii, per provare agli
oficiali del re che San Pietro avesse tenuto ab antico tale e tal
possessione,[270] Adriano ebbe ricorso ad argomenti più persuasivi. Con
la riputazione di San Pietro, coi titoli di proprietà del principe degli
apostoli, e le armi materiali levate nel santo suo nome, aggiuntovi solo
la riputazione e un po' di rinforzi di re Carlo, Adriano si promettea di
spogliare i nefandissimi Napoletani, i nefandissimi Beneventani e i
Greci odiati da Dio, e sgarare il nefandissimo Adalgiso e il
nefandissimo patrizio di Sicilia: chè con questi predicati, nè
caritatevoli nè decenti, li vien chiamando il vicario di Cristo,
scrivendo di loro a Carlomagno.[271] In una lettera a chiare note gli
dicea voler soggiogare quei paesi “al servigio del Beato Pietro principe
degli apostoli, di re Carlo e suo proprio.”[272] Indi è manifesto il
baratto, forse una novella partizione d'Italia, che venía proponendo
quel grande intelletto di Adriano, al grande intelletto di Carlomagno.
Adriano volea dal re le altre città pretese nell'Italia di mezzo, e gli
aiuti di gente; offriagli in contraccambio l'alta signoria delle
provincie meridionali, da occuparsi a nome e per dominio utile della
sede di Roma.
E perchè Carlo, involto in tante altre guerre, non potè o non volle,
Adriano cominciò a far da sè solo, adoperando quelle armi che seppe
accozzare, e le lingue e gli orecchi dei vescovi di Napoli e di Gaeta.
Sotto pretesto di ricuperare certi poderi di San Pietro nel territorio
di Napoli, confiscati tanti anni addietro dagli imperatori, occupò nel
settecento ottantasette Terracina: sì invogliato d'andar oltre, che non
volle ascoltare proposizioni di tregua; ch'ei ritenesse cioè Terracina e
accettasse quindici statichi napoletani, finchè non si richiedessero i
comandi del patrizio di Sicilia su lo affare dei patrimonii. Alla ricusa
del papa, i Napoletani erano costretti a respingere la forza con la
forza. Sopraccorso a Gaeta il patrizio di Sicilia, le genti di lui,
accozzate coi Napoletani, ripigliavano Terracina. E perchè la spada
sacerdotale, sguainata così per la prima volta in Cristianità,
minacciava da presso il Ducato di Benevento e i dominii bizantini in
Italia, i minacciati s'intesero più volentieri fra loro. Adelchi
odorando la guerra saltava pronto in que' luoghi. Messaggi andavano e
venivano ogni dì tra Arigiso duca di Benevento, il patrizio di Sicilia e
i Napoletani; e il papa seppe, o disse di sapere, che armavano a furia
per mare e per terra per andarlo a pigliare entro Roma. Spaventato,
scrisse dunque a Carlomagno chiedendogli soccorso e forze da continuare
il conquisto; lo scongiurò di mandargli immantinenti le milizie di
Toscana, di Spoleto e gli stessi nefandissimi Beneventani[273] ancorchè
tentennassero. Così Adriano fallì il colpo; e pure, stuzzicando i
nemici, sforzò Carlomagno alla guerra ch'ei voleva accendere.
Le pratiche mosse di Sicilia intanto incalzavano. Un prete di Capua
svelò al papa che Arigiso fosse stato per giurare fedeltà allo
imperatore di Costantinopoli, e fin vestirsi e tosarsi alla greca, a
condizione che gli si desse il titolo di patrizio e la investitura del
Ducato di Napoli. La cosa andò tant'oltre che due spatarii dello
imperatore veniano di Sicilia a ricevere il giuramento di Arigiso,
quand'egli inaspettatamente si morì.[274] Al quale succeduto il
figliuolo Grimoaldo che avea appreso a corte di Carlomagno a simulare e
aspettar tempo, si guastò la parte principale del disegno, la quale era
fondata in su le forze dello Stato di Benevento. Grimoaldo, circondato
di capitani e genti di Carlo e di spie del papa, fu necessitato a
volgere le armi beneventane contro il proprio congiunto che veniva a
liberarlo.
Perchè la fortuna tanto avea ancora arriso alla virtù di Adelchi, che
spezzatasi la pratica di matrimonio tra lo imperatore Costantino e una
figliuola di Carlomagno, e coincidendo il fatto di Terracina, la corte
di Costantinopoli si lasciò trasportare da insolita collera. Spacciato
in Ponente con soldati un Giovanni sacellario e logoteta, ch'erano
ragguardevoli uficii d'azienda, e aggiuntevi le milizie di Sicilia
capitanate dall'eunuco Teodoro, patrizio e stratego dell'isola, l'oste
sbarcò in terraferma. Adelchi vi si trovò; e mossero sopra lo Stato di
Benevento. Scontraronsi con le genti longobarde di Benevento e di
Spoleto, capitanate dai due duchi, Grimoaldo e Ildebrando; e i Greci
furono rotti con molta strage, e tra gli altri il sacellario fatto
prigione e poi ucciso.[275] Adelchi ebbe peggior sorte che di restar
morto in campo, com'altri ha detto.[276] Sopravvivuto alla sconfitta,
vide dileguare le ultime speranze di sua schiatta che sventuratamente si
fondavano sugli stranieri. Pure quella battaglia, se non ristorò il
reame longobardo, mantenne i Ducati a dispetto di papa Adriano, per la
gratitudine e fidanza di Carlo verso Grimoaldo e Ildebrando. A capo di
pochi anni venne fatto al papa di lanciar di nuovo i Franchi verso il
mezzogiorno; ma la fortuna non li aiutò: Adriano morì indi a poco, e
Carlomagno si trovò men disposto che mai a continuare lo aggrandimento
del dominio papale.
I patrizii di Sicilia in questo mezzo si esercitarono nei maneggi
diplomatici a corte di Carlomagno, con migliore fortuna che non avessero
testè fatto nella guerra. Andava a Carlo in Aquisgrana un Teoctisto,
legato di Niceta, patrizio di Sicilia (797); e, non guari dopo (799), un
Daniele mandato a lui da Michele successore di Niceta:[277] la causa
delle quali missioni si ignora; ma ci apporremmo al vero supponendo che
s'intendesse a distogliere il re da alcuno assalto sopra i dominii greci
in Italia, suggerito per avventura da Leone Terzo. Certo egli è che,
dell'ottocento, ito Carlomagno a Roma per cingersi la corona imperiale,
si parlò di una impresa, non che sull'Italia meridionale, ma sopra la
stessa Sicilia, sede delle forze che manteneano ancora quelle provincie
nella devozione dei Bizantini. Questo disegno fu abbandonato al pari,
perchè Carlomagno non andava di buone gambe alle guerre meridionali, e
avea troppe brighe nel mondo e niuna forza navale, e volle
rappacificarsi con Irene; donde nacque la falsa voce del matrimonio che
si trattasse tra loro.[278] Forse Carlomagno avrebbe tentato in migliore
occasione la Sicilia, perchè lo veggiamo accogliere in Roma (801) un
fuggitivo siciliano, uom di assai nota, Leone Spatario, ch'ei rimandava
dieci anni appresso a Niceforo imperatore.[279] Ma erano pensieri vaghi
e dimenticati tra cose di gravissimo momento. Quegli che non obbliava la
Sicilia era il papa. Or col pretesto di farsi mediatore di pace tra i
due imperatori d'Oriente e d'Occidente, or di ricomporre le liti
religiose che ripullulavano dopo la morte di Irene, o di rivendicare gli
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