Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 23

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evidentemente il nome etnico Harrani.[647]
La cospirazione si affrettò seconda il consiglio attribuito al Sultano.
Del mese di agosto ottocento settantuno, mentre i pochi baroni di
Lodovico erano sparsi qua e là per le castella dello Stato, e
l'imperatore a Benevento con un pugno di cortigiani, la gente di Adelchi
assalì il palagio: lo imperatore afforzatosi in una torre si difese
valorosamente per tre dì; alfine s'arrese prigione al proprio vassallo,
che sei mesi innanzi egli avea liberato dai Musulmani. Indi per tutta
Italia dimenticandosi, com'avviene, i torti di Lodovico, si risguardò ai
soli meriti; si lacerò la ingratitudine e perfidia del Beneventano,
anche in tristi versi latini di cui serbasi il testo.[648] E si
apparecchiava oltremonti la umana vendetta, quando la divina scoppiò,
dice Erchemperto, entro quaranta dì, per man dei Saraceni, che piombaron
di nuovo in Italia. Adelchi allora pensò sciorsi d'un grave impaccio
liberando lo imperatore; fattogli far sacramento di perdonare l'offesa.
Traditore quando il prese; sciocco quando il lasciò andare; e s'ei
n'uscì salvo, fu colpo di sorte.[649]
La colonia musulmana delle Calabrie, che mai non si spiccò dalla madre
patria, credendosi condotta agli estremi dopo la espugnazione di Bari,
par che abbia chiesto aiuti in Sicilia e in Affrica; dove, tra il
sentimento nazionale e religioso e la potenza delle famiglie
interessate, si apparecchiò la espedizione, della quale fu avvisato il
principe di Salerno. Lo scempio Signor delle Grù, come chiamavano il
principe aghlabita Mohammed-ibn-Ahmed, erudito, vivace ingegno, buon
poeta, cacciatore, beone, dissipatore, in mezzo a' suoi sollazzi assentì
un gran disegno, ordinato al certo dagli ottimati del Kairewân; per lo
quale si componeva un esercito d'Italia di venti o trentamila uomini, e
si preveniva la discordia tra quello e il siciliano, affidandoli a due
fratelli, Abd-Allah e Ribâh, figliuoli di Ia'kûb-ibn-Fezâra, congiunti
di quell'Abbâs-ibn-Fadhl di cui abbiamo ricordato le fiere gesta in
Sicilia. Però a un medesimo tempo Abd-Allah e Ribâh erano nominati wâli
l'uno della Gran Terra, l'altro dell'isola.[650] Abd-Allah sbarcava,
com'e' pare, a Taranto: di là con tutto lo esercito entrava nel
territorio salernitano, del mese di settembre ottocento settantuno.[651]
Diè il guasto; s'approcciò a Salerno: i principi di questa e di
Benevento, che aveano accozzato le genti loro, vedendo non bastare a
fronteggiarlo alla campagna, si chiusero nelle metropoli; e così il
nemico anch'ei si spartì. Abd-Allah, attendatosi sotto Salerno, diessi a
stringere la città: qualche gualdana corse infino a Napoli; più forti
schiere marciarono, l'una sopra Benevento, l'altra sopra Capua: delle
quali la prima fu rotta da Adelchi, e uccisile tremila uomini; la
seconda sbaragliata dai Capuani, ne perdè mille. E in Salerno Guaiferio
valorosamente si difendea; respingeva gli assalti; opponea macchine alle
macchine; facea sortite; e guerrieri si appresentavano dalle porte
sfidando i Musulmani a duello: gagliarde prove, vere al certo, ancorchè
l'Anonimo ce le mostri con troppi ornamenti d'epopea. Tra le altre, che
par l'episodio della _Gerusalemme Liberata_, ei ricorda un Landemaro
calatosi dal muro con un'azza, fattosi, tutto solo, a guastare un immane
mangano.[652] La città nondimeno cominciava a patir la fame, quando la
ristorò di vettovaglie, con bell'ardire, Marino duca d'Amalfi, spezzata
la lega ch'avea prima coi Musulmani. Nelle campagne orribil era il
macello dei contadini, lo sperpero delle sostanze, lo scempio delle
chiese. Abd-Allah, al dire dell'Anonimo, avea preso a soggiornare in
quella di San Fortunato, e profanavala di scandali e di brutture. Fe'
stendersi il letto su l'altare,[653] e sovente strascinovvi fanciulle
cristiane; finchè alcuna trave caduta dal tetto liberò una bella
vergine, uccidendo il tiranno senza lei toccare: che mostravasi ancora
ai tempi del cronista il luogo onde si spiccò la trave, e tutti si
capacitavano del miracolo. La leggenda qui, tra le fole che ognun vede,
porta un fatto vero; poichè secondo gli annali musulmani Abd-Allah,
capitano della Gran Terra, morì in questo tempo, e appunto del mese di
sefer dugento cinquantotto, tra dicembre cioè dell'ottocento settantuno
e gennaio del settantadue.[654] I Musulmani continuavano l'assedio di
Salerno, rifatto capitano un Abd-el-Melik:[655] e, stretta ormai da un
anno e affamata, la città stava per aprir le porte.
Lodovico, in questo mentre, non era uscito d'Italia. Pregato
fervidamente da' nunzii di Guaiferio e dal vescovo di Capua, credendo il
Salernitano complice del misfatto d'Adelchi, ricusò; poi l'indole
generosa, o la speranza di recare a fine l'antico disegno, il mossero a
dare aiuto. Mandò le milizie condotte dal giovinetto Guntar suo
congiunto; il quale venuto a Capua, accozzatosi coi cittadini, chè anco
preti vi s'armarono per andare a combattere, trovò da diecimila
Musulmani non lungi dalla città, in un luogo che s'addimandava San
Martino. Guntar, non ostante una fitta nebbia, diè dentro; sbaragliò i
Musulmani, e restò morto gloriosamente sul campo. Quelli furono tutti
sterminati con la spada o annegarono nel Volturno. Un'altra schiera,
inseguita dall'esercito vincitore presso a Benevento, fu distrutta alsì;
campandone pochi i quali andarono a spargere lo spavento nell'oste
attendata sotto Salerno: e diceano venire a grandi giornate l'imperatore
in persona con tutto l'esercito cristiano. Indarno Abd-el-Melik comandò,
pregò, ricordava ai suoi che la città già trattasse d'arrendersi. Fu
preso dagli ammutinati, messo per forza in nave; e salparono; e venne la
solita meteora ignea a suscitare una tempesta che li inghiottì. Così i
Cristiani, esagerando e contraddicendosi; poichè alcuni aggiungono che
gli avanzi dell'esercito musulmano precipitosamente si ritraessero in
Calabria.[656] Gli annali musulmani accennano le vittorie di Abd-Allah
sopra i nemici, e poi silenzio.[657] La _Cronaca di Cambridge_ al
contrario, scritta in arabico da un cristiano di Sicilia, ricorda lo
sterminio dell'esercito musulmano a Salerno.[658] E però sono alquanto
dubbii i particolari, certissima la misera fine della impresa, verso il
mese d'agosto ottocento settantadue.
Tanto egli è vero che questa ultima guerra era stata combattuta da
milizie italiane, e la più parte meridionali, di Spoleto, Capua,
Salerno, Benevento, che Lodovico, dopo le fresche vittorie de' suoi, non
potè nè anco pigliar vendetta sopra Adelchi, come che ne avesse gran
voglia, e fosse ito ad assediare Benevento. Tornato addietro,
dondolatosi in opere di pietà, moriva presso Brescia, di agosto
ottocento settantacinque. Per lui non stette di cacciar d'Italia i
Musulmani, e unire sotto lo scettro imperiale la penisola dalle Alpi
allo Stretto; di che non si offerì occasione più destra ad altro
imperatore da Carlomagno a Federigo di Svevia. E veramente, al tempo di
Lodovico, deboli appariscono più che mai gli elementi politici
dell'Italia: repubbliche di qualche momento sol due, Venezia e Napoli; i
grandi feudatarii, in su dal Tevere, obbedienti; quei d'in giù, divisi;
il papato, come stanco dello sforzo che avea fatto per arrivare alla
dominazione temporale: e d'altronde il caso volle che nol reggesse in
quel tempo nè un Adriano primo, nè un Ildebrando; e Leone IV, uom forte
senza tracotanza, poco visse. Nè distoglieano Lodovico, come avvenne ad
altri, le cose d'oltremonti: ei fu prode e costante in guerra; giusto
anzi che no; uomo senza grandi vizii nè straordinarie virtù; capacità
mezzana in tutto. Perciò bastarono ad attraversargli quel disegno i
principi dell'Italia meridionale, con le mene che ho ricordato, e i
papi, ancorchè uomini mediocri anch'essi, con la forza dell'inerzia;
ritraendosi che tra tanto pericolo dell'Italia e di Roma non
profferissero mai sillaba per favorire la crociata di Lodovico.


CAPITOLO IX.

Nel detto cenno biografico sopra il principe aghlabita Mohammed-ibn-
Ahmed scrive Ibn-el-Athîr, alla sfuggita, che regnando costui
(dicembre 864 a febbraio 875) “i Greci occuparono parecchi luoghi
della Sicilia; e che Mohammed fe' costruire fortezze e corpi di guardia
su la costiera d'Affrica;” e passa oltre l'annalista ai casi de'
Musulmani a Bari.[659] L'autore del Baiân, come anche notammo, accenna
che i due fratelli, capitani l'un di Sicilia, l'altro della Gran Terra,
fiaccarono gli Infedeli in aspri scontri, l'anno dugento cinquantasette
(870-71), e altro non ne dice.[660] Intanto veggiamo i governatori di
Sicilia avvicendarsi in fretta. Mohammed-ibn-Hosein, scelto dalla
colonia alla morte di Mohammed-ibn-Khafâgia, avea tenuto l'oficio per
brevissimo tempo, come dicemmo. A Ribâh-ibn-Ia'kûb-ibn-Fezâra, nominato
dal principe d'Affrica e trapassato verso la fine dell'ottocento
settantuno, era sostituito, per elezione della colonia,
Abu-Abbâs-ibn-Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, che moriva a capo di un mese.[661] A
costui par tenesse dietro un Ahmed-ibn-Ia'kûb, fratel suo, o d'altra
famiglia: chè variano in ciò i cronisti.[662] Mancato di vita Ahmed nel
medesimo anno dugento cinquantotto dell'egira (17 nov. 871 a 5 nov.
872), era rifatto il figliuolo, per nome Hosein, ovvero, secondo il
Nowairi, un Hosein-ibn-Ribâh, cui il principe d'Affrica confermò,[663] e
tantosto il rimosse. Allora, che correva il mese di scewâl
dugento cinquantanove (agosto 873), venne a reggere la Sicilia
Abu-Abbâs-Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah, di casa aghlabita,
figliuolo del primo governatore ch'ebbe la colonia di Palermo, uom
litterato, tradizionista, poeta, poc'anzi prefetto di Tripoli, e
tornatovi non guari dopo, e poscia promosso a ragguardevole uficio in
Kairewân; donde par abbia lasciato la Sicilia, non per disgrazia a
corte, ma a chiesta sua; tardandogli forse di uscire di quel vespaio e
tornare in Affrica dond'era partito a malincuore.[664] Gli fu
sostituito, se è da credere al Nowairi, il medesimo anno
dugento cinquantanove, un altro congiunto della dinastia,
Abu-Malek-Ahmed-ibn-Ia'kûb-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahîm-ibn-Aghlab,
soprannominato l'Abbissinio,[665] il quale a capo di quattro anni si
vede anch'egli ito via.[666] De' quali sei o sette capitani ch'ebbe
l'isola dall'ottocento settantuno al settantatrè, si sa in particolare
una sola fazione, e mal direbbesi di guerra: che del dugento
cinquantanove (6 nov. 872 a 25 ott. 873) una gualdana, andata infino a
Siracusa, ridomandò trecento sessanta prigioni musulmani; avuti i quali,
fe' la tregua, e incontanente si tornò in Palermo.[667]
Questi prigioni, queste reticenze degli annalisti musulmani, questi
governatori sì spesso morti o scambiati, danno a vedere gravissime
calamità della colonia siciliana. Dissanguata anch'essa dalle battaglie
di Capua e di Benevento; lacera tuttavia dalla discordia civile, non
potea fronteggiare le armi vincitrici di Basilio, che par si volgessero
all'isola, mentre Lodovico e' Longobardi si travagliavano contro i
Musulmani di Terraferma. Indi, non che perdere varie città, forse interi
distretti in Sicilia, i Musulmani temeano anco per l'Affrica:
afforzavano le costiere, secondo la testimonianza già detta
d'Ibn-el-Athîr, con la quale s'accorda la _Continuazione di
Teofane_.[668] Morto, tra tanto scapito dell'onor musulmano,
Mohammed-ibn-Ahmed (febbraio 875), e lasciato un figliuolo di poca età,
i grandi del Kairewân innalzavano al trono il fratello,
Ibrahîm-ibn-Ahmed. Costui datosi ad apparecchiare in casa, come diremo
nel terzo libro, gli stromenti dell'atrocissima dominazione sua, volle
trasviare in Sicilia gli uomini che temea vicini; e ad un tempo far
sentire a Basilio che più non regnava in Affrica il Signor delle Grù.
Tentò dunque un'impresa, fallita già ai più illustri capitani della
colonia: lanciò l'esercito sopra Siracusa.[669] La state dell'ottocento
settantasette, i Musulmani, capitanati da Gia'far-ibn-Mohammed, novello
governatore dell'isola, dopo distrutte le mèssi di Rametta, Taormina,
Catania e altre città di cui non ricordansi i nomi, davano il guasto a
quel di Siracusa;[670] occupati i sobborghi, poneansi allo assedio della
città.[671]
Cinquant'anni addietro l'esercito di Ased-ibn-Forât s'era accampato alle
latomie, lontano circa un miglio dall'istmo d'Ortigia.[672] Adesso il
capitano degli assedianti facea stanza nell'edifizio della cattedrale
vecchia fuor la città, scrive il monaco e grammatico Teodosio, che
stettevi incarcerato trenta dì. Sappiamo anco da lui come una torre,
abbattuta da' sassi che scagliavano i nemici dalla parte di terra, fosse
posta in riva al mare, sul porto grande “nel luogo ove si stende il
corno destro della città,” dice qui il narratore,[673] e poi che da quel
luogo fosse presa Siracusa.
Or guardando una pianta topografica ognuno intenderà tal punta estrema
essere l'istmo che separa i due porti; e però la città, al tempo
dell'assedio, essere stata limitata, com'oggi, alla penisola d'Ortigia.
Fuor da quella rimaneano i sobborghi, o piuttosto l'antico quartier
principale della città, abbandonato da poco; quartier principale, perchè
vi era stata la chiesa metropolitana; e abbandonato da poco, perchè
quella, non diroccata per anco, offriva comodo alloggio al condottiero
musulmano. Dal che parmi assai probabile che dopo l'assedio di
Ased-ibn-Forât, comprendendo potersi meglio difendere un istmo largo
poche centinaia di passi,[674] che il vasto cerchio di fortificazioni
del quartiere esteriore, i capitani bizantini facessero sgombrare il
quartiere o ponessero gli ordini opportuni a poterlo sgombrare d'un
subito; e tra gli altri ordini quello di tramutare la chiesa
metropolitana in Ortigia. D'altronde, in mezzo secolo, la popolazione di
Siracusa dovea essere crudelmente menomata per guerre, pestilenze,
emigrazione, povertà; talmentechè le abitazioni tra l'istmo e le
latomie, com'esposte a maggiori pericoli, dovean anco, senza disegni
strategici, rimaner vote d'abitatori.
Diersi dunque i Musulmani a battere le fortificazioni dell'istmo con
ogni maniera di stromenti da guerra; gareggiando tra loro, così scrive
Teodosio, a chi sapesse trovarne dei nuovi; e raddoppiando con quegli
insoliti ingegni il terrore degli assediati. Tutto il di s'avea a
ributtare assalti, aggiugne il narratore; tutta notte a guardarsi da
frodi e colpi di mano. Percoteano le mura con le elepoli;[675]
s'approcciavano all'aperto con le testuggini,[676] e sotterra con mine:
da lor mangani lanciavano immani massi o fitta gragnuola di pietre.[677]
In ultimo adoprarono macchine di tal possanza, che i sassi, in luogo di
far la parabola in alto, ammazzare ricadendo qualche uomo, sfondar
qualche tetto, e portare più spavento che danno, folgoravan diritto ad
aprire la breccia, come le nostre artiglierie grosse. A che
richiedendosi assai maggior momento di proiezione che nelle baliste
ordinarie, fu giocoforza d'accrescere a dismisura la lunghezza delle
vette, e con essa il volume delle macchine. Indi quei mangani di
mostruosa grandezza che pochi anni innanzi avean fatto stupire i
Longobardi di Salerno, e che, nel duodecimo secolo, portati dagli
eserciti siciliani, battean le mura di Ravello presso Amalfi, metteano
spavento ai Greci in Tessalonica, e i soldati di Saladino li guardavano
con maraviglia all'assedio di Alessandria; e alfine nel decimoterzo
secolo Carlo d'Angiò li mandava contro la Sicilia, maneggiati da
Musulmani di Lucera. Cotesto parmi dei trovati a che allude il monaco
Teodosio: nuovo, poichè, secondo gli eruditi, i tiri delle baliste
adoprati a batter mura, occorrono per la prima volta nell'assedio di
Siracusa, o meglio in quel di Salerno dell'ottocento settantuno, in cui
si sa che una petriera, come la chiamarono gli Italiani, d'insolita
grandezza, squassasse la torre Solarata. E finchè non se ne trovino
altri esempii nelle guerre dei Musulmani innanzi il nono secolo, l'onore
di tal trovato darassi a quei d'Affrica e di Sicilia.[678]
Sopravvenute forze navali di Costantinopoli, furono oppresse a un tratto
dall'armata musulmana;[679] il vincitore restò padrone del mare;
distrusse le fortificazioni dette allora i braccialetti[680] che
difendeano i due porti, senza dubbio quelle dei lati opposti ad Ortigia,
la punta settentrionale cioè del porto picciolo e la meridionale del
grande. Così fu tolto ai cittadini ogni aiuto di fuori. I Musulmani
provaronsi anco a dare assalti con lor grosse navi. Ma la città sempre
valorosamente si difendea.
Maggior prova fu a durare la fame, la quale si fe' sentire, incrudì,
arrivò allo strazio che riferisce il Frate Siracusano, con parole da
farci prima sorridere e poi abbrividire, “L'uccellame domestico, dice in
tanta tragedia Teodosio, era consumato; conveniva mangiar come si potea
di grasso o di magro; finiti i ceci, gli ortaggi, l'olio; la pescagione
cessata dal dì che il nemico insignorissi dei porti. Ormai un moggio di
grano, se avvenia di trovarlo, si comperava cencinquanta bizantini
d'oro;[681] uno di farina, dugento; due once di pane, un bizantino;[682]
una testa di cavallo o d'asino, da quindici a venti; un intero giumento,
trecento. I poveri, poichè mancarono loro i salumi e le erbe solite a
mangiarsi, andavano scerpando le amare e triste su per le muraglie;
masticavano le pelli fresche; raccoglieano le ossa spolpate, e pestate e
stemprate con un po' d'acqua le trangugiavano; rosicavano il cuoio: poi,
soverchiato dalla rabbiosa fame ogni ribrezzo, ogni sentimento di
religione e di natura, dettero di piglio ai bambini; piangevano i
cadaveri dei morti in battaglia: sol nutrimento di cui non fosse
penuria. Ingeneravasi da ciò una epidemia crudelmente diversa; della
quale chi subitamente moriva in orribili convulsioni;[683] chi enfiò
com'otre;[684] chi mostrava tutto il corpo foracchiato di piaghe;[685]
altri restava paralitico.[686]” Così per tutto l'inverno e parte della
primavera la misera cittade si travagliò; sperando che venisse l'armata
di Costantinopoli a liberarla.
Da Basilio Macedone dovea in vero sperarsi aiuto. Ma la superstizione,
le vergogne domestiche par che avessero stemprato quell'animo di
valoroso malfattore. Tenne i soldati d'armata a edificare una chiesa di
Costantinopoli,[687] mentre i mangani musulmani demolivano Siracusa. Poi
mandò lo ammiraglio Adriano, uomo neghittoso o vigliacco; il quale ad
agio suo salpava di Costantinopoli; andava a riposarsi nel porto di
Monembasia in Peloponneso: e tanto aspettovvi un vento fresco col quale
far vela per Siracusa, che certi demonii che bazzicavano nella selva
d'Elos, dice gravemente la Cronica del Porfirogenito, e poi certi
soldati scampati da Siracusa sur una barca, gli dettero avviso che già
vi sventolassero le insegne musulmane. Allora corse a Costantinopoli a
serrarsi in una chiesa e domandare pietà a Basilio; il quale gli perdonò
la vita.[688]
Par che bloccata Siracusa per mare e per terra, il capitan musulmano,
certo ormai di sua preda, si tornasse in Palermo; e che in primavera
andasse a incalzar con nuovo furore l'assedio,[689] un Abu-I'sa,
figliuolo di Mohammed-ibn-Kohreb, gran ciambellano d'Ibrahim.[690]
Allora fu battuta in breccia la torre del porto grande di che si è detto
di sopra. Verso la fin d'aprile un lato di quella sconquassato crollò; a
capo di cinque dì, cadde anco un pezzo della cortina attigua: i
Musulmani montavano agli assalti, ancorchè offesi di fianco dalla torre
mezzo diroccata, alla quale gli assediati aveano ristorato il passaggio
con una scala di legno; e impediti alsì dall'adito malagevole e più dal
disperato valore del presidio cristiano. Battaglia da giganti, sclama
Teodosio, non pensando che quivi avessero combattuto in altri tempi i
giganti della storia antica: i repubblicani di Atene, di Cartagine e di
Roma, contro quei di Siracusa; Marcello contro Archimede! Rattratta era
la città, nel nono secolo, dal tempio di Giove Olimpico e dalle Epipoli
alla penisola; rattratto l'umano ingegno da Gelone al monaco Teodosio;
gli animi rimpiccioliti nell'obbedienza ai despoti bizantini,
nell'egoismo della bacchettoneria; la religione lor insegnava meglio a
morire che a vincere. Pur se quell'enfatico detto possa appropriarsi al
sol coraggio personale, bene sta; e Teodosio ben chiama santo il
patrizio che governò Siracusa in questo assedio, sapendo la fine che lo
aspettava; e pur durando inesorabile a proposte del nemico o timidi
consigli de' suoi; vigilante, infaticabile, esperto nelle cose di
guerra, mantenitore della disciplina, tra quindici o venti migliaia di
umane creature affamate.[691] Il presidio, sì come avveniva negli
eserciti bizantini, componeasi di varie genti: v'erano Mardaiti, Greci
del Peloponneso,[692] uomini di Tarso;[693] i Siracusani non mancarono a
sè stessi; le donne aiutarono a combattere; i preti confortavano e
pregavano. Per venti dì e venti notti fu difesa la breccia dai Cristiani
esausti già in nove mesi di assedio e di fame. Quel fatale baluardo,
detto del Malo Augurio, si coperse di cadaveri, le cui ferite descritte
ad una ad una da Teodosio, mostrano che si combattesse pur con le spade,
da corpo a corpo; un Cristiano contro cento Musulmani, dice egli, con
iperbole che dipinge il vero. Stanchi, dispettosi d'essere trattenuti da
una legione di spettri, da un mucchio di rovine, gli assalitori
allenavano un istante.
La mattina del ventuno maggio ottocento settantotto[694] parea cheta
ogni cosa: il patrizio e il grosso delle genti s'erano ritirati a
prendere un po' di cibo e di riposo: rimaneva a guardare la breccia,
d'in su la torre, Giovanni Patriano con pochi soldati. Quando, alle sei,
tutte le macchine dei nemici giocano a un tratto; scoppiane come una
procella; la scala di legno, onde dalla città si comunicava alla torre,
imberciata dai massi che piombavano, si sfasciò con gran fracasso. Il
patrizio balza da mensa, corre alla breccia; seguonlo animosi guerrieri.
Ma il nemico, apponendosi al colpo fatto, s'era avventato incontanente
alla torre; avea trucidato i difenditori; e già irrompeva in città. Una
frotta di soldati che volle far testa dinanzi la chiesa del Salvatore,
pria che potesse mettersi in schiera, fu soverchiata e tagliata a pezzi.
Dan d'urto i vincitori alla porta della chiesa; abbattonla; trovano una
gran calca di cittadini, fanciulli, vecchi, infermi, chierici, frati,
schiavi: e ne fanno carnificina. Poi si spandono per le contrade,
uccidendo, predando. Il patrizio con settanta nobili siracusani si
chiude in una torre; ed è preso la dimane. Uno stuolo corre alla
cattedrale, ove l'arcivescovo Sofronio[695] e tre preti, Teodosio era
tra questi, si strappano d'indosso gli abiti sacerdotali, sperando non
essere conosciuti; in farsetto di cuoio, si acquattano tra l'altar
maggiore e il seggio vescovile; Sofronio tuttavia promette un miracolo;
gli altri si domandano perdono scambievolmente delle offese, come in
punto di morte: e Teodosio afferma che ringraziavano Iddio di tale
tribolazione. Ecco i Musulmani nel tempio: uno brandendo la spada che
stillava sangue va dietro all'altare, trae fuori i nascosi; ma senza
maltratti, nè minaccioso piglio; e contemplato il venerabile aspetto
dell'arcivescovo, gli domandava in greco: “Chi sei tu?” Saputolo,
richiese dei vasi sacri; si fe' menare al luogo ove serbavansi, che
erano cinquemila libbre di metalli preziosi di finissimo lavoro; fe'
entrare nella stanza l'arcivescovo coi tre compagni, e ve li chiuse. Poi
chiama gli anziani di sua nazione, scrive Teodosio, al certo i capi di
famiglia ch'erano in quella schiera; li commuove a pietà; e salva la
vita ai prigioni. Uomo di nobil sangue, dice il narratore, e lo chiama
Semnoen forse Sema'ûn ch'è nome arabico. Niun soldato di nazione
incivilita usò mai più umanamente in città presa d'assalto, nel primo
impeto, verso ministri di religione avversa: nè gli eserciti dei nostri
dì possono vantare molti Sema'ûn. Questo esempio di gentil animo del
condottiero e disciplina dei soldati, accanto agli atti d'esecranda
intolleranza che dovremo narrare, prova che miscuglio di schiatte, di
costumi, di barbarie e civiltà, di cavalieri e ladroni, fosse
nell'esercito musulmano ch'espugnò Siracusa. I men tristi sembrano i
coloni di Sicilia; tra i quali va noverato Sema'ûn, poichè parlava il
greco.
Teodosio e i compagni di prigionia furono recati allo alloggiamento del
generale in capo, al vescovado vecchio, serrati in una stanza; la cui
schifa descrizione legga, chi il voglia, nella epistola di Teodosio. Ma
non può tacere la storia su le abbominevoli crudeltà. Cessata la strage
indistinta, continuarono a scannare gli uomini d'arme, e serbare gli
altri alla schiavitù.[696] E perchè mal si poteano distinguere, o
intervenne qualche pia frode dei condottieri più inciviliti, fu preso
tempo a scevrare le vittime: e a capo di una settimana, di sangue
freddo, le immolarono fuor la città. Primo l'eroe dello assedio, quel
patrizio di cui Teodosio tace il nome, per esser noto, dice egli, a
chiunque: e andò alla morte a testa alta, impavido, sereno, che il
capitano che il condannò lo guardava preso di stupore. Indi, i settanta
presi nella torre col patrizio e gli altri prigionieri furono legati;
fattane una massa, contro la quale come can villerecci, continua
Teodosio, i Musulmani avventavansi: e fino all'ultimo li ammazzarono con
sassi, bastoni, lance e checchè lor veniva alle mani; e arsero i
cadaveri. Niceta da Tarso, notissimo ai nemici pei fieri colpi che solea
menare ogni dì, svillaneggiando lor nazione e imprecando al Profeta, fu
tratto in disparte; steso a terra supino; scorticato dal petto in giù;
squarciategli con cento lance le viscere palpitanti; strappatogli il
cuore: e gli empii lo dilaniarono coi denti; lo ammaccarono a colpi di
pietra.[697] Il numero dei morti in tutte queste carnificine passò i
quattromila, dice il _Baiân_; sommò a parecchie migliaia, dice
Ibn-el-Athîr, aggiugnendo che “pochi, pochissimi camparono,” tra i quali
son da noverare que' che gittatisi in una barca arrivarono in Grecia.
Montò il valsente del bottino, secondo Teodosio, a un milione di
bizantini[698] che ne darebbe tredici delle nostre lire; nè par troppo
per tanta città; nè arriva a quello che crederebbesi, leggendo negli
annali musulmani non essersi fatta mai sì ricca preda in altra metropoli
di Cristianità. Comparve, dopo la espugnazione, un'armatetta greca,
contro la quale usciti i Musulmani la messero in fuga, le presero
quattro navi, e passarono gli uomini per le armi. Per due mesi circa
abbatterono fortificazioni, spogliarono tempii e case: alfine vi messer
fuoco, e andaron via, allo scorcio del mese di dsulka'd, cioè
all'entrare d'agosto.[699] Questo fu il fine di Siracusa antica: rimase
un laberinto di rovine, senz'anima vivente.[700] Nè un Teocrito v'era,
nè un Ibn-Hamdîs che piangessero l'eccidio della patria; ma vi si provò
un poeta bizantino, erede presuntivo della corona, Leone poi imperatore,
detto il Sapiente, e autore d'un trattato d'arte militare; il quale, in
vece di venire a far la vendetta, strimpellò sul doloroso argomento due
anacreontiche, così chiamolle, che si sono perdute, nè parmi gran
danno.[701] Il monaco e grammatico Teodosio dettò poi la epistola da noi
sovente citata, che ben risponde ai due titoli dello autore: piena di
unzione, come si dice; diffusa, studiata, pur non disadorna di stile;
pregevole pei fatti che ricorda; e può passare tra i buoni scritti greci
del nono secolo.
Prima di sgombrar la città, i Musulmani avviavano a Palermo il bottino e
i prigioni:[702] gittati su le medesime bestie da soma; scortati da
brutali negri, ch'erano addetti ai servigii più bassi nello esercito;
viaggiando sei dì e sei notti, al caldo e al freddo, senza riposo.
All'alba del settimo dì, i prigioni siracusani gustavano amarezza
novella a vedere la fiorente città, di cui la fama tanto parlava, uscita
dall'antico giro delle sue mura, coronata di sobborghi, o meglio, sclama
Teodosio, forti e superbe città, “l'iniqua Palermo, che tenendo a vile
d'essere governata da un contarco, si impadronisce già d'ogni cosa, ha
messo noi sotto il giogo, e minaccia d'assoggettare le genti più
lontane, fin gli abitatori della imperiale Costantinopoli.” Così il
prigione, struggendosi d'invidia municipale, inveiva contro un nome;
confondea Palermo capoluogo di provincia sotto i Bizantini, con Palermo
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