Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 08

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senza dispute: e affermava che dal cerebro del trapassato escisse un
gufo, il quale, sendo stata violenta la morte, non cessasse fino alla
vendetta di mostrarsi ai parenti gridando: “ho sete, ho sete.” In altre
pratiche superstiziose è agevole altresì di scoprire l'aspettativa della
risurrezione.
Molti erano gli obietti del culto: idoli di pietra o di legno in
sembianze umane, diversi nelle diverse genti; anco il sole, la luna, le
costellazioni, simboleggiate da idoli o no; credute angioli, o com'essi
diceano, le figliuole di Dio. Ma comechè amassero meglio praticare con
cotesti iddii minori, visibili e palpabili, più pronti ad entrar nei
particolari, ad ascoltare, a rispondere, ad aiutar l'uomo in ogni aspro
caso della vita, pure la unità del culto e del Dio era serbata nella
usanza antichissima che portava le tribù al pellegrinaggio della Caaba,
la quadrata, come suona tal voce; la casa di Dio, come diceano gli Arabi
anco avanti lo islamismo. Vaghe tradizioni ne riferivano la
riedificazione ad Abramo e ad Ismaele; la prima fondazione a niuna mano
mortale, poichè il rozzo tempio scese intero dal cielo. In prova se ne
mostrava, e mostrasi tuttavia, un frammento: la pietra negra incastrata
nell'angolo orientale del santuario; e nulla toglie che la tradizione
riferisca il vero, e che la sacra pietra sia un pezzo di areolite o
prodotto di eruzioni vulcaniche, sapendosi che ne siano avvenute in
varii tempi alla Mecca. I mercatanti che fabbricavano questa città
presso il tempio, coltivarono la proficua superstizione; istituirono
sacerdoti, sagrifizii d'animali e riti di girare attorno la Caaba; e
dettervi albergo a tutti gli idoli delle tribù, sì che divenne il
panteon della nazione. E invano i cristiani abissinii, conquistatori del
Iemen, faceano venire artefici di Costantinopoli, edificavano di marmi
la splendida chiesa di Sana', mandavano la grida per invitar le tribù a
quel nuovo pellegrinaggio; e fin moveano con un esercito per spiantare
il rivale santuario della Mecca. Un miracolo lo salvò: fu esterminato lo
esercito cristiano, forse dal vajolo e dalla rosolia che allor
comparirono per la prima volta in Arabia. Il culto della Caaba divenne
pertanto vero legame nazionale della schiatta arabica, e ne fe' come
capitale la Mecca; i cui sacerdoti ordinarono un calendario con le
stesse denominazioni di mesi che son rimaste in uso appo i Musulmani;
regolarono la tregua annuale, primo passo all'unione della schiatta. E
vicendevolmente si ripercossero in quel centro commerciale e religioso,
le opinioni che germogliavano per tutta la penisola, recate da culti
stranieri: il giudaismo, cioè, e il cristianesimo dei quali ho detto; e
due di assai minor momento, cioè il magismo professato da qualche tribù
del Golfo Persico, e il sabeismo, mistura d'una pretesa rivelazione e
del culto de' corpi celesti, credenza antichissima che dura fin oggi, ma
par non abbia giammai saputo accendere di zelo i settatori. Dond'egli
avvenne che mentre l'universale degli uomini aspirava al perfezionamento
morale e intellettuale appartenente ad età eroica, alcuni cittadini
della Mecca lo cercarono a dirittura nella religione. Verso la fine del
sesto secolo, un dì festivo in cui i Meccani tripudiavano intorno a loro
idoli, quattro spiriti eletti si trassero in disparte; compiansero gli
errori del volgo; diffidarono dei proprii ragionamenti, e si promessero
di andare per estranei paesi in traccia della vera fede d'Abramo. Le non
sospette tradizioni musulmane aggiungono che que' savii in lor viaggi
profondamente studiassero la Bibbia, il Vangelo, il Talmud;
conversassero coi dotti delle tradizioni giudaica e cristiana: e che al
fine tre di loro si facessero cristiani; l'altro tornato in patria,
perseguitato come novatore, spinto in esilio, perisse dopo parecchi
anni, mentre ansioso correa di nuovo alla Mecca ad ascoltar la parola di
Maometto.
Lo sviluppo di una nuova religione, apparecchiato da coteste condizioni
di cose, fu favorito dalla forma del reggimento politico della Mecca.
Questa città era stanza di parecchi rami della schiatta di Adnân; tra i
quali a poco a poco prevalse la tribù dei Koreisciti, mercatanti, come
si vuol che significhi il nome: e certo lo meritavano per essere, più
che niuna altra gente, solerti e intraprendenti nei traffichi. Un
Kossai, koreiscita, impadronitosi del sacerdozio della Caaba, chiamò
alla Mecca altri rami di sua tribù; cacciò o assoggettò le vecchie
genti, che di allora in poi veggiamo sempre confederate o clienti di
case koreiscite; e sì ridusse la potestà politica in un consiglio degli
anziani koreisciti detti _Sâdât_, ossiano i signori;[140] aristocrazia,
della quale ei si fe' capo, e come principe della città. Chiara mi
sembra la distinzione del potere esecutivo e del legislativo nella rozza
repubblica della Mecca; sottile forma di reggimento, che parrà
stranissima in uno Stato ove non era potere giudiziario, nè magistrati
civili o penali; ma le costumanze universali delle tribù spiegano
cotesta anomalia. Alla morte di Kossai i discendenti di lui si
contesero, e alfine si divisero l'autorità esecutiva; talchè rimaneano
ereditarii in poche famiglie gli uficii pubblici: adunare il consiglio;
dare i segni del comando ai capitani in caso di guerra; riscuotere una
contribuzione per sussidio ai pellegrini poveri; soprantendere alla
distribuzione delle acque; tener le chiavi del tempio; promulgare il
calendario, cosa di grave momento, per cagion della tregua. Ma il
reggimento non può dirsi oligarchia, poichè, se gli uficii eran pochi e
sovente cumulati, il potere supremo risedea non in quelli ma nel
consiglio. Durò tal ordine politico finchè l'islamismo non lo ridusse a
municipalità. Negli ultimi anni intanto del sesto secolo, privati
cittadini avean riparato al difetto delle leggi penali, nella stessa
guisa che avvenne molti secoli appresso in Europa. Avendo un Koreiscita
sfacciatamente preso la roba d'un mercatante straniero, parecchi
generosi, e tra quelli si notava Maometto giovane di venticinque anni,
s'adunarono a convito, si ingaggiarono a proteggere i deboli, cittadini
o stranieri, liberi o schiavi, che ricevessero alcun torto alla Mecca da
uomini di qual famiglia che si fosse. Chiamaronsi la lega dei Fodhûl,
dal nome di quella più antica che ricordai di sopra: e giurarono il
patto, invocando l'Iddio supremo, e libando in giro una coppa di acqua
del sacro pozzo Zemzem. Questa era l'Arabia innanzi la predicazione di
Maometto, ai tempi dell'ignoranza come opportunamente li nominarono i
Musulmani.
Nacque Maometto (a. 570) della tribù koreiscita, della nobile progenie
di Kossai per Hascem, soprannome che in lingua nostra suonerebbe
Frangi-pane, e fu ricompensa data dai poveri al bisavolo del Profeta.
Unico figliuolo di giovane coppia, Maometto venne al mondo dopo la morte
del padre; perdè la madre a sei anni; poco appresso, l'avol paterno:
rimase orfanello e povero in tutela dello zio Abu-Taleb, uomo di alto
affare nella città. Secondo il costume, era stato allevato in una tribù
beduina, ove si avvezzò alla dura vita del deserto; ma lo rimandarono a
casa, credendolo indemoniato, per insulti di epilessia. Fe' parecchi
viaggi in Siria e altrove con le carovane: e una ne condusse per conto
di Khadigia, donna vedova e giovane. Avvenente e ben complesso della
persona; piacevole al tratto; amato da tutti per probità, gravi costumi,
saviezza e bel parlare, gli altri diergli il nome di Amîn, che noi
diremmo il fidato; Khadigia invaghissene e lo sposò. Così nella
tranquillità d'una mediocre fortuna e nella pace domestica, ch'ei non
prese altre mogli mentr'ebbe Khadigia, visse infino ai quarant'anni,
praticando le virtù che appartengono ad uom privato, amando il
raccoglimento e la solitudine, senza far parlare altrimenti di sè. Non
si rese chiaro nelle armi fino alla guerra civile ch'egli accese, nella
quale poi non mostrossi gran capitano, e moltissimi l'avanzarono di
fierezza e valor nella mischia. Da meno di tutti gli altri Koreisciti,
ch'eran pure i più tristi poeti dell'Arabia, ei non fe' mai versi, non
potea ripeterne senza guastarli. Vantossi di non saper leggere nè
scrivere; il che non tolse ch'apprendesse le tradizioni nazionali e
straniere, i principii filosofici e i libri sacri d'altri popoli, che,
tra quel fermento di intelletti, gli tornavano da cento bocche diverse;
tra gli altri da un parente della moglie, ch'era de' quattro ricercatori
della vera religione d'Abramo.
Di quegli elementi disparati Maometto prese ciò che seppe e potè
adattare ai bisogni degli Arabi. Ne compose un sistema religioso e
politico, semplice, vasto, ottimo alla prova; poichè e rigenerò una
nazione più prontamente che non l'abbia mai fatto altra legge, e
contribuì non poco all'incivilimento d'una gran parte del genere umano,
e si regge tuttavia, nè par disposto a morire. Il disegno di tal
religione potrebbe adombrarsi in questo modo. Tolti da' Giudei e dai
Cristiani e racconci un po' all'arabica i dommi cardinali: Dio uno,
senza compagni, senza nè genitori nè figliuoli, vivente, eterno,
immateriale, onnipossente; creazione; gradazione di esseri ragionevoli,
angioli, demonii, genii, uomini; vita futura; giudizio universale;
premio ai credenti e virtuosi di soggiornare in eterno in giardini lieti
d'acque e di frutta, con modeste donzelle dagli occhi negri; supplizio
agli empii il fuoco sempiterno; predestinata da Dio ogni cosa, fin chi
crederebbe e chi no; ciò non ostante, come per divin trastullo, messi
gli uomini tra la tentazione perpetua di Satan, e la voce dei profeti;
profeti o apostoli tutti que' dell'antico testamento e Gesù Cristo;
rivelati il Pentateuco e il Vangelo; ultimo e massimo apostolo Maometto;
l'ultima edizione de' comandi del Creatore scritta ab eterno; recitata a
brani dall'angiolo Gabriele all'apostolo illitterato, il quale venia
ripetendo la rivelazione, e sì chiamolla _Korân_, ossia lettura.
Primissimo dovere degli uomini verso Dio, la fede, anzi l'assoluto
abbandono in lui; che ciò significa _islâm_, e indi son detti
_musulmani_ i credenti, ossia abbandonati in Dio: idea cristiana sotto
nuovo nome. Il culto tra giudeo ed arabo: frequenti preghiere,
pellegrinaggio alla Mecca, digiuni, con una lunga appendice di
purificazioni da osservarsi e impurità da scansarsi; raccomandandosi
alla coscienza di ciascuno le pratiche private, le pubbliche alla
scambievole vigilanza de' cittadini. Perchè non si istituì alcun ordine
sacerdotale; le preghiere in comune principiavansi dal capo politico o
da ogni altro Musulmano; così anche le concioni o sermoni pubblici; e
gli stessi teologi che nacquero ne' tempi posteriori non furono
sacerdoti; i dervis e altre fraterie non altro che accattoni e moderni.
Chiamati i fedeli a servir su la terra l'Onnipossente con la borsa e con
la spada, pagando la decima e combattendo i miscredenti: l'uno statuto
giudaico; l'altro effetto d'uno intendimento politico e della universale
intolleranza dell'età. Precetti divini anco erano i doveri degli uomini
tra di loro, dettati con forma e severità giudaica, ma ispirati dalla
carità cristiana. Infatti viene innanzi ogni altro e secondo solo alla
fede, espresso e positivo obbligo la limosina. La fratellanza tra i
Musulmani, il rispetto delle persone e delle proprietà: donde un abbozzo
di codice civile e penale, che ridusse a legge certa, universale,
applicabile dall'autorità pubblica, molte male osservate costumanze
degli Arabi; e sopra ogni altra la pena degli omicidii. Con ciò il
Profeta correggeva, ora per espresso divieto ora per consiglio, i vizii
più flagranti della società arabica: maledetto il parricidio delle
bambine; proscritti l'usura, il vino, il gioco; la poligamia limitata;
dati diritti di non lieve momento alle donne; la schiavitù non abolita
ma mitigata e menomata, consigliandosi, e in molti casi comandandosi, la
emancipazione. Da ogni parte si vede, quando si risguardi
all'ordinamento sociale, come i costumi legassero le mani al
legislatore, troppo superiore, non che alla sua nazione, ma al suo
secolo. Per lo contrario, quell'altissimo ingegno non bastò ad
improvvisare un dritto pubblico. Degli ordini politici ei non lesse
altro in cielo che la uguaglianza dei cittadini tra loro e l'obbligo di
ubbidire ciecamente a lui solo: principii stranieri entrambi, fecondi
dapprima; e poi l'uno svanì, l'altro portò alla assurdità d'un governo
assoluto senza legislatore. Questa è la somma della nuova legge. La
prova dell'autorità non potendo venir che di lassù, Maometto con molta
arte ne compose una sembianza. A dimostrazione del suo dio allegò e
ripetè senza stancarsi quanti sapesse dei miracoli giudei e cristiani, i
terrori delle tradizioni e fenomeni dell'Arabia, la bellezza del creato,
la pioggia, la vegetazione, la vita, ogni beneficio che vien dalla
natura, ogni mistero che l'uomo non può spiegare. In attestato della
propria missione portò un sol prodigio: il divino stile, diceva egli,
del Corano, che intelletto d'uomo non sarebbe arrivato giammai a
comporre: e sì sfidava i miscredenti a imitarne una sola pagina. Infatti
quei che noi diciamo versi del Corano ei chiamò _aiât_ ossia miracoli.
Gli altri prodigii che sogliono attribuire a Maometto i Musulmani, e,
più di loro, i Cristiani, nè egli mai li vantò, nè entrano nella
credenza di lor teologi: sono invenzioni di tempi più bassi e di altre
nazioni; sopratutto dei Persiani che portavano nello islamismo lor
fantasie indo-germaniche.
Le istituzioni musulmane, come ognun sa, furono dettate a poco a poco,
abrogate ed emendate secondo le circostanze: e gli Arabi si beveano
d'aver sì comodo legislatore, onnisciente e fallibile, capriccioso ed
eterno. Deriva la legge da due fonti: il Corano e la tradizione, ossia
le pratiche e parole di Maometto, notate dai discepoli, delle quali noi
abbiamo ricordi autentici e diligenti più che non si possa aspettare in
leggende religiose; emergendo non dalle tenebre di una setta e d'una
antichità remota, ma dalla storia di pochi anni di persecuzione, che si
voltò in trionfo vivendo i persecutori e i perseguitati e ridivenuti
fratelli. Quell'ampia raccolta, ci attesta forse meglio che il Corano la
sagacità, prudenza, umanità, bontà e saviezza pratica del legislatore:
ed è stata guida dei Musulmani a private e pubbliche virtù. Il Corano,
assai più studiato, racchiude confusamente dommi, leggi generali,
provvedimenti secondo i casi, assiomi, parabole, e gli antichi racconti
religiosi ai quali accennai disopra, guasti per lo più da fallace
memoria o presi a sorgenti apocrife; e ciò tra ripetizioni,
contraddizioni, declamazioni; in stile vario, spezzato, incisivo, per lo
più sublime, talvolta monotono: un tutto incantevole agli uditori suoi,
per la proprietà e maneggio della lingua; e può ammirarsi anco da noi
ancorchè non di rado vi si desiderino l'accento, il gesto, le attualità
che doveano rendere sì efficaci quelle parole. Ma il prestigio che le
rendeva più efficaci era al certo l'universale movimento degli animi in
Arabia; era l'ebbrezza che spirano le idee dell'eterno e dell'infinito
assaggiate per la prima volta; era quel lampo di giustizia che splendeva
agli occhi degli uomini; il naturale amor della uguaglianza
improvvisamente soddisfatto; l'usura abolita; l'assistenza reciproca sì
efficacemente comandata; la gratitudine dei deboli confortati; l'impeto
della democrazia sorgente sotto il nome del principato teocratico; il
vasto campo che s'apriva anco alle ambizioni dei grandi. Seguendo il
cammino di quella fiamma che si apprese a poco a poco e poi scoppiò in
incendio, si vede come le dessero alimento a volta a volta il sentimento
religioso, il sociale e il nazionale, poi tutti e tre uniti insieme.
Il Profeta incominciò a provarsi in casa. Supposta dapprima (gennaio
611) una visione dell'angiolo Gabriele, dissene alla moglie che gliene
credette; poi ad Alî cugin suo, fanciullo di undici anni; a Zeid liberto
e figliuolo adottivo; e, in quarto, a quegli che fu dopo lui il
principale sostegno dell'islamismo, Abu-Bekr, personaggio di grandissima
saviezza. Allargandosi e prendendo forma, la nuova religione fu derisa;
e Maometto non se ne mosse: Cercò d'attirarsi i plebei, poichè i grandi
lo spregiavano. Desta la tarda gelosia del politeismo, insospettita la
nobiltà contro il novatore, fecero opera a screditarlo; poi a vicenda lo
minacciarono e vollero attirarselo con promesse; gli fecero mille
oltraggi; poser le mani addosso ai seguaci più deboli; costrinserli a
spatriare. Maometto ciò nondimeno perseverava con mirabilissima
costanza, coraggio e mansuetudine; affidando la pericolante vita
all'onor della parentela, la quale non lo abbandonò ancor che fosse, la
più parte, idolatra. Per virtù di quell'unico legame della società
arabica, poteron anco rimanere alla Mecca pochi altri proseliti di nome.
Dopo undici anni, crescendo sempre i convertiti tra le persecuzioni,
Maometto si attirò cittadini di Iathrib che poi fu detta Medina; e mutò
l'apostolato in congiura contro la patria. Allora gli ottimati della
Mecca, posposto ogni rispetto, vollero spegnere il capo; e non potendolo
fare con le leggi, chè non ve n'erano, ogni casa patrizia mandò il suo
sicario per render comune il misfatto, e impossibile la vendetta della
casa di Hascem. Ma i costumi posero nuovo ostacolo non preveduto: la
schiera dei sicarii non osò violare l'asilo domestico del proscritto; si
appostò fuori la notte: ed egli accorgendosene fuggì.
La qual notte ebbero principio un pontificato, un impero ed un'era.
Questa si messe in uso diciassette anni appresso; quando, tra gli ordini
che si istituivano appo i Musulmani ad esempio delle nazioni incivilite,
parve fissare data comune agli atti pubblici, smettendo le epoche
diverse osservate in alcune parti dell'Arabia. L'occasione è variamente
riferita dai cronisti. Secondo alcuni la diè Abu-Musa-el-Ascia'ri
governator di Bassora, lagnandosi con Omar califo, che gli avesse
scritto lettere senza data. Mohammed-ibn-Sirîn, citato da Ibn-el-Athîr,
narra in vece che un Arabo appresentatosi ad Omar gli dicesse: “Convien
porre le date.” “E che è cotesto?” domandò Omar; e quegli: “È una usanza
dei Barbari, i quali scrivono: tal mese e tal anno”. “Mi piace,” replicò
il califo: “ponghiamo dunque le date.” Onde, convocata la dieta dei
Musulmani, si disputò se fosse da prendere l'era di Alessandria, o
l'usanza dei Persiani che notavano gli anni di ciascun re; ovvero far
capo dalla missione di Maometto; o infine dalla _hegira_ di lui, la
emigrazione cioè, la Separazione solenne, l'atto d'un uomo libero che
ripudia la società in cui sia vissuto. Fu vinto il partito della
_hegira_, e sanzionato da Omar; il quale contemplò quello evento come
divisione di due epoche: l'una d'errore, l'altra di verità. Nondimeno si
contò non dal giorno della fuga, ma dal principio dell'anno in cui
avvenne lasciandosi il calendario come stava, cioè l'ordine antico dei
mesi, e lunare il periodo dell'anno, come per ignoranza lo volle
Maometto.[141]
Fuggissi il Profeta a Medina (622); adunò i discepoli; maneggiò gli
antichi e i nuovi da savio capo di parte; li infiammò, promettendo
bottino e paradiso; combattè con varia fortuna; vincitore usò verso i
nemici il più sovente con magnanimità; rade volte inflessibile, rade
volte assentì o comandò assassinii; fu sempre giustissimo coi suoi
partigiani; nè acquistò mai per sè stesso, ma per loro. Alfine traendo
mezz'Arabia sotto le insegne sue, gittò via la maschera o forse il
sincero proponimento della tolleranza che già gli era parsa sì bella,
quando i politeisti il perseguitavano, e i Giudei si collegavano con
essolui. E allora la repubblica aristocratica della Mecca piegossi a
patteggiare col cittadino ribelle (a. 628); poco appresso a salutarlo
principe, a confessarlo profeta, a sgomberar la Caaba dei trecensessanta
idoli, per renderla al culto del Dio uno (a. 630). Le tribù beduine, le
città del Iemen, tutti gli Arabi fuorchè i cristiani di Hira e di
Ghassan ch'erano soggetti agli stranieri, credettero, accettarono per
interesse, o per forza si sottomessero; abbattuti per ogni luogo i
simulacri delle antiche divinità; sforzati a tacersi, o a celebrare il
Vincitore, i poeti che l'aveano nimicato sì gagliardamente; accettati i
luogotenenti suoi nelle province: la nazione divenne una, e riconobbe un
sol capo.
Questi intanto aspirava a cose maggiori. La religione rivelata dal
creatore del mondo non potea limitarsi a un sol popolo, e il popolo
arabo non potea restare in pace tra sè quando non portasse la guerra in
casa altrui. Pertanto il Profeta non avea mai fatto eccezione di genti
nè di luoghi alla legge di combattere gli infedeli tanto che si
convertissero o pagassero tributo. Quando gli parve certa la
sottomissione dell'Arabia, e prima anco di entrare alla Mecca, osò
mandare messaggi ai potenti della terra, richiedendoli di far
professione dell'islamismo. Dei quali il re di Persia, che si tenea
signor feudale dell'Arabia, lacerò le insolenti lettere; il che
intendendo Maometto, sclamava: “E così Dio laceri il suo reame:” e a
capo di dieci anni i Musulmani il fecero. Il re d'Abissinia non parve
ostile. Nè anco il maggior principe di cristianità, Eraclio, che sedea
sul trono di Costantinopoli; il quale onorò l'ambasciatore, e lietamente
udì la rivoluzione che s'operava in Arabia e tornava a danno immediato
dei Persiani. Pur egli si trovò esposto il primo agli assalti de'
Musulmani, poichè i suoi vassalli di Hira uccideano un altro legato di
Maometto, e questi immantinente mandava a farne vendetta. Ancorchè
oppressi dal numero alla battaglia di Muta (a. 629), gli Arabi
addimostrarono in quello scontro la virtù che dovea soggiogar tanta
parte del mondo. Ucciso il capitano, dà di piglio alla bandiera Gia'far
fratello di Alî; gli è tronco un braccio, ed ei la passa all'altra mano;
mozzatagli anco questa, stringesi l'insegna al petto coi moncherini,
finchè spirò trafitto di cinquanta ferite: nessuna a tergo. E fu
rinnalzato il vessillo da un altro guerriero; e ricondusse a Medina i
gloriosi avanzi della strage.
Venuto a morte Maometto (giugno 632), mentre apprestava nuovo esercito a
vendicare la sconfitta di Muta, lasciò lo Stato in sommo pericolo.
Accesa la guerra esterna; falsi profeti sorgeano per ogni luogo; le
tribù nomadi ricusavano le decime, e scioglieansi dal novello freno; la
nobiltà cittadina vogliosa di ridividere l'Arabia in cento e cento
republichette; i discepoli dell'islamismo non scevri d'ambizione,
sospetti, e gare di parte: e, tra tutto ciò, non sapeasi chi dovesse
prender lo Stato; perchè o una frode domestica occultò il pensiero del
Profeta, o egli differì troppo a manifestarlo, ovvero, e ciò mi pare più
probabile, volle seppellir seco la profezia, e lasciare il principato
alla elezione, come portavano i costumi degli Arabi. Ma lasciò anco il
Profeta una generazione d'uomini che potea trionfare di questi e di
maggiori ostacoli. Maometto avea maturato in veraci virtù i capricci
cavallereschi della nazione. Mentre allettava la comune degli uomini coi
vili beni di questo mondo e gli imaginarii godimenti dell'altro, avea
spirato agli animi più puri lo zelo della verità morale; ai più
malinconici la fede; agli uni e agli altri una stoica abnegazione; a
tutti l'amor della patria; chè patria ed islamismo furono per gli Arabi
di quel tempo una sola idea. Io non dirò altrimenti della magnanimità di
tanti compagni del Profeta, perch'è nota a tutti, e i nomi di Abu-Bekr,
Omar, Alî, Khâled, Sa'd-ibn-abi-Wakkas agguaglian forse que' degli
Aristidi, de' Cincinnati e degli Scipioni. De' sentimenti che prevaleano
in tutta la nazione voglio addurre uno esempio solo; e son le parole
d'un Beduino, diligentemente conservate dalla tradizione, e trascritte
da Tabari, che fu il primo che dettasse gli annali dell'islamismo. Tre
anni appresso la morte del Profeta, trentamila Arabi afforzandosi con
sapienti mosse tra i canali dell'Eufrate inferiore, fronteggiavano
centomila Persiani condotti dal più sperimentato capitano della Persia.
Avanti di venire alla decisiva battaglia di Cadesia, aveano gli Arabi
mandato oratori a Iezdegerd ultimo re sassanida: il quale, sentendo
parlar da conquistatori que' ch'era avvezzo a risguardar come vassalli,
sdegnosamente li domandò qual delirio spingesse gli Arabi a provocare le
armi della Persia; gli Arabi, dicea, poveri e divisi e ignoranti e
barbari più che niun altro popolo della terra. Se disperata miseria li
faceva uscir da' deserti, aggiunse il re, ei li soccorrerebbe di vitto e
di vestimento, lor darebbe alcun governatore pien di bontà. A che
tacendo gli altri per antica riverenza, un Beduino, Mogheira per nome,
così parlò: “È proprio di gentiluomo, gli disse, rispettare la nobiltà
del sangue in altrui: e sappi, o re, che tal riguardo solo, non rossore,
non paura, fa sì dubbiosi al risponderti cotesti compagni miei, che son
nati delle case più illustri dell'Arabia. Ma esporrò io ciò ch'essi
tacciono. Dicevi il vero, o re, poveri fummo, se poveri mai v'ebbe al
mondo: giacevamo su la ignuda terra; vestivamo pel di cameli e lane,
filati da noi stessi; la fame ci portò sovente a mangiar le cavallette e
i rettili del deserto; perchè le figliuole non scemassero il cibo ai
maschi, i padri vive le seppelliano. Idolatri e ignoranti, ci scannavamo
l'un l'altro: e questa era la religione nostra. Quando, mosso a pietà,
Iddio ci mandò un profeta, uom noto, di famiglia notissima, di tribù
ch'è la prima tra gli Arabi. Ei ci guidò alla vera religione, e noi
credemmo finchè Iddio non gli diè ragione con illuminare le nostre
menti. Ed ora che seguiamo i comandamenti di Dio, siam popol nuovo; siam
diversi da quegli Arabi di pria: lo sappia il mondo! Chiamate gli uomini
al mio culto, ci ha detto Iddio: chi assente, avrà i vostri dritti e
doveri; sopra cui ricusa ponete un tributo; se il dà, proteggetelo; se
no, combattete contr'esso: e a' vostri morti in battaglia è serbato il
paradiso, ai sopravviventi la vittoria. Scegli dunque, o re: paga il
tributo con umiltà, o t'apparecchia a combattere.”
Pria che la nazione potesse levarsi a tant'orgoglio, ebbe a sostenere la
breve ma durissima prova, alla quale accennai, e che fu vinta dai
valorosi compagni del Profeta; indi riveriti a ragione come santi
dell'islamismo. Prevengon essi la guerra civile con senno non minor che
l'ardire; esaltano al sommo uficio Abu-Bekr: e questi con potente mano
ridusse alla unità politica e religiosa le tribù e cittadi che tentavano
di spiccarsene; e sì unite, tra per amore e per forza, pria che
potessero pensare ad altre novità, lanciolle sopra i due imperi
bizantino e sassanida, e le inebriò di vittorie (632-634). Abu-Bekr
designò a successore Omar, che mantenne l'unità; diè principio agli
ordini pubblici; estese i conquisti (634-644), e nominò alla sua morte
sei elettori, i quali scelsero Othman. Sotto costui il corso delle armi
musulmane non si frenò perchè non si potea: la pace interna fu
distrutta; ed egli espiò col sangue la parte ch'ebbe a tale scompiglio.
Succedeagli Alî per elezione fieramente contrastata, onde divampò quella
guerra civile che esaltava al trono Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, capitano
dell'esercito di Siria, e rendeva ereditario il principato in casa
Omeiade. Ripigliavasi allora la guerra straniera, sospesa alquanto per
cagion della guerra civile: i limiti dell'impero estesi entro dieci anni
dopo la morte di Maometto infino alla Persia, alla Siria e all'Egitto,
arrivarono, entro un secolo, allo stretto di Gibilterra dalla parte di
ponente; dalla parte di settentrione e di levante alla Tartaria e alla
valle dell'Indo. Ma pria di discorrere per qual modo quelle terribili
armi incominciassero a infestare la Sicilia, è mestieri
particolareggiare le mutazioni politiche e sociali che lo islamismo
portò nella nazione arabica.[142]
Il Profeta, fatto principe, non volle o non potè rendere gli uomini
uguali in società, com'eranlo per natura, diceva egli, al par dei denti
d'un pettine, senza distinzione di re nè di vassalli.[143] Lasciò le
donne inferiori nei dritti civili; gli schiavi affidati alla carità
religiosa più tosto che a leggi espresse: e quanto agli infedeli non è
uopo dire che li volle sudditi dei credenti. Ma tra i Musulmani liberi
pose uguaglianza assoluta: la nobiltà, che avea governato gli Arabi da
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