Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 24
capitale musulmana, “ridondante di cittadini e di stranieri, che pareavi
adunata tutta la genía saracenica da levante a ponente et da
settentrione al mare.” Un folto popolo andò a incontrare il convoglio,
tripudiando alla vista di quel bottino, intonando versetti del Corano,
che Teodosio chiama canti trionfali e peani.
Dopo cinque dì, l'arcivescovo e i preti suoi erano addotti allo emiro
supremo, dice Teodosio, senza dubbio il wâli di Sicilia, “sedente in
trono, sotto un portico,[703] ascosto dietro una cortina per tirannesca
superbia.” L'emiro e l'arcivescovo fecero per interpreti una breve
disputa religiosa, nel cui tenore, dato da Teodosio, ben si ravvisa il
gergo musulmano; e vedesi che il tiranno parlava senza orgoglio nè
intolleranza; il pastore con dignità e circospezione. Accomiatati per
tornare alla prigione, attraversavano la piazza di mezzo della città,
probabilissimamente quella ch'or si chiama del Palagio Reale, seguendoli
“moltissimi Cristiani che senza dissimulazione li compiangeano, e molti
Musulmani tratti da curiosità di vedere il rinomato arcivescovo;” dei
quali Teodosio non dice che desser su la voce a que' primi, nè
profferissero ingiurie. Furon chiusi poi nelle pubbliche carceri,[704]
che vi si scendea per quattordici gradini e non aveano altra finestra
che la porta; dove, tra il caldo, la oscurità, il puzzo, gli schifi
insetti, erano accalcati Negri, Arabi, Ebrei, Cristiani di Tarso, di
Longobardia e Siciliani. Il vescovo di Malta, ch'avea i ferri ai piè,
levossi per abbracciare Sofronio: si contarono a vicenda lor casi;
piansero insieme; e ringraziarono Iddio. Ma venuta la festa dei
Sagrifizii, com'esattamente la chiama Teodosio,[705] un fanatico
dottore[706] si messe a stigare il popolazzo che per maggiore allegria
facesse un falò di quel sacerdote politeista; se non che gli uomini più
autorevoli e i magistrati calmarono il furore, mostrando vietato da
legge musulmana l'abbominevole sagrifizio[707] e doversi in altra guisa
render lode a Dio della vittoria. “Così campammo, conchiude Teodosio,
scrivendo dal carcere, e pur ci minacciano la morte ogni dì.[708]” Si
addoppiarono forse i timori suoi ne' tumulti della capitale, nella
guerra che si raccese con avvantaggio delle armi greche; finchè,
l'ottocento ottantacinque, erano riscattati i prigioni siracusani;[709]
onde l'arcivescovo e Teodosio, par che tornassero in libertà.[710]
CAPITOLO X.
Lo stesso anno, se prima o appresso la espugnazione di Siracusa non si
ritrae, Gia'far-ibn-Mohammed fu ucciso in Palermo dai suoi proprii
famigliari, per trama di due principi del sangue aghlabita, ch'eran
ritenuti prigioni nel palagio dell'emiro, mandativi al certo da Ibrahîm;
l'uno, fratel di costui per nome Abu-I'kal-Aghlab-ibn-Ahmed;
l'altro, fratello del padre di Ibrahîm, e addimandavasi anco
Aghlab-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, soprannominato _Khereg-er-ro'ûna_, come
noi diremmo “La pazzia se n'andò.” Aghlab, matto o no, volle raccogliere
il frutto dell'omicidio; prese lo Stato, affidandosi in una mano di
partigiani; ma non andò guari che il popolo, sollevatosi, lo scacciò con
tutti i compiici suoi, e mandolli in Affrica.[711] Succedea nel governo,
per elezione, com'e' pare, d'Ibrahîm, un Hosein-ibn-Ribâh,[712] che
pochi anni addietro avea retto per breve tempo la colonia.
Il quale immantinenti ebbe a combattere aspra guerra coi Cristiani.
Uscito la state dell'ottocento settantanove contro Taormina, fu
sconfitto più fiate. All'ultimo trionfò in sanguinosa battaglia, e
uccisevi il capitano nemico che il _Baiân_ chiama patrizio;[713] forse
quel Crisafi, la cui morte ricorda in quest'anno medesimo la _Cronica di
Cambridge_:[714] il qual nome gentilizio ricomparisce in un diploma del
duodecimo secolo, non che nei ricordi de' tempi successivi, e rimane
tuttavia in Sicilia. Da ciò si vede che i Politeisti dell'isola, come il
_Baiân_ chiama i cittadini delle terre non sottomesse ai Musulmani,
avendo dinanzi agli occhi quello spaventevole esempio di Siracusa,
vollero piuttosto affrontar la morte uniti in campo, che perire divisi,
ciascuno entro il suo muro. Notevol è che la medesima disperata reazione
avvenne già dopo la presa di Castrogiovanni. Or davano animo al
resistere anco le discordie dei Musulmani e gli appresti che facea
Basilio per cancellare l'onta delle armi sue.
Incalzavan la briga i frati, solito stromento di governo nell'impero
bizantino; i quali si fecero agitatori, portatori d'avvisi, anco
esploratori; affidandosi nella umiltà di loro stato, nei pretesti che
forniva e nella riverenza del popolo musulmano, ch'era sì caritatevole
verso i poveri di qualunque religione, proclive a tutte superstizioni
anco straniere, e uso a tenere in gran conto l'abnegazione monastica.
Pertanto veggiamo sopraccorrere in questo tempo in Sicilia un valente
frate, Elia da Castrogiovanni, la cui vita tra non guari avremo a
narrare. Lasciata Gerusalemme, ov'ei facea stanza, Elia navigò alla
volta d'Affrica; di lì venne sur un legno carico di mercatanzie in
Palermo; vi rivide la madre; e a capo di pochi dì, appunto quando
s'allestiva un'armata nel porto della capitale, ei passò a Taormina; di
là a Reggio, ove il popolo era tutto sbigottito; lo rassicurò
vaticinando la sconfitta degli Infedeli: e dopo i successi che siamo per
narrare, Elia ricomparisce a Taormina per pochi dì; passa in Grecia;
ov'è preso per spia dei Musulmani; indi viene in Calabria di nuovo; va a
Roma e di nuovo a Taormina. L'intendimento di cotesti viaggi è
evidentissimo. Il fatto si deve accettare da una biografia scritta non
guari dopo la morte di Elia, e molto accurata nei nomi proprii e
topografici, e negli avvenimenti che noi d'altronde conosciamo;
verosimile e semplice negli altri; nella quale i miracoli stanno appesi
come parati da festa su le mura di un edifizio.[715]
Il detto vaticinio d'Elia era di quelli che ognuno può fare. Dopo gli
avvantaggi riportati dalle armatette bizantine, a Napoli[716] sopra i
Musulmani d'Affrica e di Sicilia, e in Levante contro quei dell'Asia
Minore e di Creta, il navilio capitanalo da Niceta Orifa, per audace
fazione, avea distrutto l'armata cretese nel golfo di Corinto; aveala
arso, affondato, fatti moltissimi prigioni, e messili a morte con
orrendi supplizii; chi scorticato vivo, chi immerso nella pece
bollente.[717] Oltre il terrore di questi fatti, stava pei Bizantini la
superiorità del numero; leggendosi che l'armata affricana e Siciliana
che s'accozzò in Palermo sommasse a sessanta navi,[718] ed a
centoquaranta la bizantina che le fu mandata incontro,[719] capitanata
da un Nasar, uom di Siria come lo mostra il nome; forse della fiera
gente dei Mardaiti che valorosamente combatteano contro gli oppressori
Musulmani in patria e fuori.[720] Come il navilio affricano s'era messo
a depredare Cefalonia, Zante e tutte quelle costiere, con animo forse di
passare in Calabria, Nasar, raccolte sue forze nel porto di Modone,
ristorata la disciplina nei soldati, rinforzatili di Mardaiti e milizie
del Peloponneso, uscì improvvisamente contro il nemico. Per aspro
combattimento gli bruciò o prese la più parte delle navi, credo io, nei
primi di agosto ottocento ottanta, su la costiera occidentale della
Grecia propria, Ellade, come allor si chiamava la provincia a
settentrione dell'istmo di Corinto. Rifuggitisi in Sicilia quei pochi
legni che il poterono, Basilio comandava a Nasar di passar oltre verso
Ponente. Così quegli veniva a Reggio; e distrutto, com'e' pare, qualche
avanzo dell'armata siciliana che osava far testa, approdò non lungi di
Palermo.[721]
Padroni oramai del mare i Bizantini cominciarono a dar la caccia alle
navi mercantili dei Musulmani, e grande copia vi presero di ricche
merci, soprattutto d'olio, il quale fu tanto che il venderono a un obolo
la libbra:[722] depredazioni esiziali in quell'anno, in cui era una
spaventevole carestia in Africa,[723] e però molto bisogno delle derrate
di Sicilia. Al tempo stesso Nasar mandò torme di cavalli a dare il
guasto ai territorii delle città fatte tributarie dei Musulmani:
parecchi mesi durò frastornando il commercio della colonia, senza
attentarsi ad assalirla altrimenti; finchè andossene in Terraferma
ov'era più agevole a fare acquisto di territorio.[724] Ben ei lasciò una
squadra di salandre a Termini, o Cefalù, con soldati che continuassero
l'infestagione per terra;[725] e forse allor fu che Basilio, con intento
di ordinare la guerra in Sicilia, fecevi capitano Euprassio,[726] e poi
Musulice. Allora per certo si cominciò a fabbricare o afforzare una
città, alla quale i Bizantini poser nome di Città del Re; com'io credo,
l'odierna Polizzi,[727] la quale sorge sopra un colle in mezzo alla
valle principale delle Madonie, a brevissima distanza dalle scaturigini
dei due Imera, settentrionale e meridionale, o vogliam dire fiume Grande
e fiume Salso. Cotesti fiumi, correndo in dirittura opposta, l'uno al
Tirreno, l'altro al mar d'Affrica, tagliano la Sicilia d'una linea non
interrotta, la quale segnò la divisione amministrativa sotto i Romani, e
poi di nuovo nel decimoterzo secolo; e le due provincie si chiamarono la
prima volta Lilibetana e Siracusana, poi Sicilia di là e di quà del
Salso, ossia Occidentale ed Orientale, e l'una rispondea al Val di
Mazara, l'altra a quei di Demona e Noto uniti insieme. Da quella
fortezza i Bizantini tenendo il passo delle Madonie, poteano dominare
l'uno e l'altro pendío; chiudere i Musulmani nel Val di Mazara; e
assicurare le popolazioni cristiane di Val Demone e Val di Noto. Con
pari intento il conte Ruggiero due secoli appresso affortificava
Polizzi, sì che a lui ne fu attribuita la fondazione.
Scambiato per cagion di quelle sconfitte, o forse uccisovi,
Hosein-ibn-Ribâh, e rifatto governatore della colonia Hasan-ibn-Abbâs,[728]
i cavalleggieri musulmani prorompeano di Palermo a infestar tutta
la Sicilia, l'anno dugento sessantasette dell'egira (11 agosto 880 a
30 luglio 881), nella state cioè dell'ottocento ottantuno;
e Hasan col grosso delle genti, attraversata risolutamente l'isola,
andava a bruciare le mèssi nel contado di Catania. Di lì passato in quel
di Taormina,[729] distruggeva le ricolte e tagliava gli alberi: onde
uscitogli contro Barsamio, capitano del presidio, uom di Siria come
parrebbe al nome, questi toccò una sconfitta, che il biografo di Elia da
Castrogiovanni dice predetta dal Santo.[730] Il vincitor musulmano,
tornandosi a Palermo, dava il guasto al territorio di Bekâra, non so
bene se Vicari, ovvero un castel distrutto nelle vicinanze di Gangi, che
non son guari lontani nè l'uno nè l'altro dal luogo ov'eransi afforzati
i Bizantini. Questi dal canto loro non intermessero le incursioni ne'
territorii dei Musulmani ai quali recarono gravissimi danni.[731] Così
con varia fortuna si combattea.
L'anno appresso, che fu il dugento sessantotto dell'egira (31 luglio 881
a 19 luglio 882), cominciò con atroce sconfitta e terminossi con
splendide vittorie dei Musulmani. Narra Ibn-el-Athîr che una gualdana
condotta da Abu-Thûr, “Quel dal Toro,” come noi diremmo, imbattutasi
nell'esercito bizantino, fu tagliata a pezzi; sì che ne camparon sette
uomini soli.[732] Il nome di Caltavuturo,[733] che significa la rôcca di
Abu-Thûr, discosta cinque miglia da Polizzi, addita il luogo dello
scontro. La quale notizia accozzata con quel rigo di annali è esempio
dei materiali su cui ci tocca ordinariamente a compilare questo nostro
lavoro: ragguagli talvolta precisi, ma come iscrizioni sepolcrali; nè ci
dipingono le sembianze, nè ci rivelano le passioni, i pensieri, tutto
quel movimento vitale che piace e giova intendere nella storia. Ma alle
memorie storiche come noi le vorremmo, come l'ebbero alle mani i grandi
maestri dell'arte, suppliscono un po' le leggende: almeno ci svelano in
che modo allor gli uomini delirassero, che è pur segno di vita.
Un'agiografia greca ed un'agiografia arabica s'abbattono entrambe,
com'e' pare, nel medesimo fatto di Caltavuturo; narrando le visioni di
due avversarii in alcuna sconfitta toccata dai Musulmani. Niceta Davidde
di Paflagonia, nella Vita d'Ignazio Patriarca di Costantinopoli scritta
in greco, novera questo tra i cento prodigii del patriarca: che
Musulice, stratego di Sicilia, in un'aspra battaglia contro i Saraceni,
sbigottito, nè sapendo che farsi, invocava l'anima beata d'Ignazio, e
che quegli, apparso in aria sopra un possente caval bianco, gli
accennava di muover le schiere contro la sinistra del nemico; e così
fece il pio capitano, e, contro il solito, vinse.[734] In luogo di un
vescovo che venisse a dimostrare arte di strategia, la leggenda
musulmana fa scendere dall'empireo le Huri dai begli occhi negri, per
chiamare a novella vita i martiri della fede unitaria. Il narratore è
Abu-Hasan-Harîri, siciliano di santissimi costumi secondo sua setta,
trapassato il novecento trentuno. “Al tempo, diceva egli in sua
vecchiezza, al tempo che questa nostra patria nudriva prodi cavalieri,
non trascorsi per anco a lacerarsi in guerra civile, io mossi con gli
altri ad una impresa contro Infedeli; nella quale scontratici col
nemico, fe' carnificina di noi. Tra i cadaveri trovai semivivo
Abu-Abd-Selem-Moferreg, uom virtuoso, dato ad esercizii di pietà, a dura
penitenza, e a combattere per la fede; il quale così mi parlò: “Ti
giuro,” ei disse, “per Dio, che ho visto tante scale drizzate da questo
campo infino al cielo, per le quali scendeano giovanette che mai più
vaghe non ne conobbi al mondo. Tenendo alle mani uno sciugatoio di
drappo verde, ciascuna s'accostò a un dei martiri nostri, e presogli il
capo e posatoselo in grembo, gli astergeva il sangue; poi, levando nelle
sue braccia il trafitto, se ne risaliva con esso lui in cielo. Ma la
donzella che venne a me, addandosi ch'io respirassi, mi volse le spalle
tutta sconsolata, esclamando: — Oh sventura, egli vive! Oh vergogna mia
appo le compagne! — Ed ella mi lasciò,” finiva singhiozzando Moferreg,
“ch'io la vidi con questi occhi miei aperti e risentiti. Mi lasciò la
dolce sorella: or come mai potrò cessare il pianto finch'io non la
ritrovi?”” Da quel dì in poi Moferreg si profondò tanto più a meditare
su la divinità e su l'altro mondo; raddoppiò ogni più strano rigor di
vita ascetica; si cibò d'erbe; e quando alcuno gli diceva: “Smetti, o
Abu-Abd-Selem,[735] che hai fatto abbastanza per guadagnare il
Paradiso;” ei gli dava su la voce: “Sciagurato ch'io non ho scusa appo
il mio Signore;” e ricominciava a piangere: nel qual modo si travagliò
per sei anni che gli rimaser di vita.[736]
Deposto dopo la sconfitta di Caltavuturo Hasan-ibn-Abbâs, e surrogatogli
Mohammed-ibn-Fadhl, rinnovava, nella primavera dell'ottocento
ottantadue, il disegno di Hasan; spargendo le gualdane per ogni luogo
ove i Cristiani non fossero sottomessi; e movendo egli medesimo con lo
esercito sopra Catania. Andò seco lui grande sforzo di gente, levatasi
in massa alla guerra sacra, com'e' pare dal testo d'Ibn-el-Athîr.[737]
Dato il guasto alle mèssi in quel di Catania, Mohammed improvvisamente
si voltò contro i soldati delle salandre bizantine, i quali non si
ritrae se abbiano fatto sbarco nella costiera orientale, o, per terra,
tenuto dietro all'esercito musulmano; o se questo sia ito a trovarli su
la costiera settentrionale, valicando i monti. Mohammed li combattè e
ruppe con molta strage. Poi andò a guastare le ricolte di Taormina; e al
ritorno scontrossi con più forte esercito cristiano, accozzato forse dai
municipii di Sicilia. Lo sbaragliò; ne uccise tremila uomini, e mandò le
teste in Palermo. Usando la vittoria, assaltò poi la Città del Re,
Polizzi, se regge il mio supposto; della quale impadronissi per forza
d'armi, e messe a morte tutt'i combattenti, e ogni altra persona fe'
schiava.[738] Così erano sgombrati gli avanzi della espedizione di
Nasar. Le forze bizantine, bastando appena alla guerra di Calabria,
abbandonavano la Sicilia, o forse vi lasciavano pochissimi presidii. Il
territorio cristiano pertanto si ristrinse ai monti della Peloriade,
all'Etna, e alla valle ch'è di mezzo.
Quella striscia di terreno sarebbe stata poi, con lieve fatica,
soverchiata dai Musulmani, se non li avesse arrestato il peggior nemico
loro, la discordia. La quale nelle avversità suol trovare nuov'esca; e
cova sotterra; e quando poi senta rivoltare la fortuna, s'apre spiragli,
e divampa. I segni del tristo fuoco si veggono apparire poco appresso la
vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl: sono la debolezza e incertezza con che
si sciupò la vittoria. Il dugento sessantanove (20 luglio 882 a 9 luglio
883), Mohammed affliggea con saccheggi, cattività, uccisioni i contadi
di Rametta e Catania, ma tornava in Palermo tra il giugno e il luglio
dell'ottocento ottantatre,[739] senza offendere altrimenti il nemico
tutto quell'anno. Al vittorioso condottiero, se deposto o morto non si
sa, era surrogato un Hosein-ibn-Ahmed; il quale morì l'anno dugento
settantuno (28 giugno 884 a 16 giugno 885), dopo una scorreria che fe'
fare nel territorio di Rametta, con guasti di poderi e preda
di roba e d'uomini. Poi, venuto d'Affrica a governare l'isola
Sewâda-ibn-Mohammed-ibn-Khafâgia, volendo imitare il padre e l'avolo con
gagliarde imprese, desolò non solo il contado, ma forse anco i sobborghi
di Catania;[740] passò a Taormina; combattè quel presidio; guastò le
mèssi; e si facea più da presso, quando venuti a chiedergli accordo,
com'ei pare, i decurioni della città, fermò la tregua per tre mesi e lo
scambio di trecento prigioni musulmani con que' di Siracusa; ridusse lo
esercito alle stanze in Palermo;[741] e spirata la tregua, riassaltò la
Sicilia orientale all'entrare del dugento settandue (17 giugno 885 a 6
giugno 886) senz'altro frutto che un po' di bottino.[742]
Così per due anni allenava la guerra sacra, perchè gli animi
s'apparecchiavano alla guerra civile. Alfine, aggiugnendosi alle altre
cagioni di mal contentamento le vittorie che riportava in Calabria
Niceforo Foca e il disordine che dovean recare dalla Terraferma
nell'isola i Musulmani rifuggiti,[743] si venne in questa al sangue. I
Berberi e gli Arabi combatteron tra loro, il dì appunto non si sa, tra
l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera dell'ottantasette: e
Sewâda con un suo fratello e tutti i partigiani, presi dal popolo di
Palermo e messi in ceppi, furono mandati in Affrica. Il popolo rifece
governatore un Abu-Abbâs-ibn-Ali;[744] ma par che poco durasse in
ufizio, e che il principe aghlabita riescisse a chetare i sollevati; sì
che non guari dopo rimandava in Palermo lo stesso Sewâda.
Breve pausa di discordie, ma ben la sentirono i nemici. Morto in questo
mezzo Basilio Macedone (1 marzo 886) e venuto l'impero nelle deboli mani
di Leone, era chiamato Niceforo Foca a governar la guerra in Asia
Minore. I Musulmani di Sicilia allestivano allora l'armata per
riassaltare la Calabria, l'anno dell'egira dugento sessantacinque (15
maggio 888 a 4 maggio 889). Allo incontro venne da Costantinopoli a
Reggio il navilio imperiale; e passato lo stretto, che già avea preso il
nome di Mar del Faro,[745] trovò il nemico nelle acque di Milazzo,
probabilmente in settembre ottocento ottantotto. La battaglia finì con
una strage spaventevole: prese tutte le navi ai Cristiani; morti dei
loro cinque, forse settemila, tra di ferro e annegati: ed è da credervi,
poichè al certo il vincitore musulmano non risparmiò i prigioni, dopo
quelle orribili crudeltà di Niceta Orifa. Allo annunzio della quale
sconfitta gli abitatori di Reggio e delle altre città e castella della
estrema Calabria, fuggivano dalle case loro sentendosi sul collo la
spada musulmana. Infatti l'armata vincitrice approdò; sparse gli
scorridori all'intorno, e fatto gran bottino si ridusse in Palermo.[746]
Dopo la espugnazione dell'ottocento quarantatrè, il nome di Messina
ricomparisce nelle memorie musulmane in questo tempo, sapendosi che
Mogber-ibn-Ibrahîm-ibn-Sofiân fosse mandato a capitanare “l'esercito di
Messina e terra di Calabria dopo la battaglia di Milazzo;” queste sono
le proprie parole del biografo.[747] Nel mezzo secolo che corse tra
l'uno e l'altro avvenimento, non si fa punto menzione di quella città;
ma si ricordano, dall'ottocento settantasette in poi, i guasti di
eserciti musulmani nel contado di Rametta, picciola rôcca tra i monti, a
ponente di Messina ond'è lontana nove miglia in linea retta[748] e molto
più pei sentieri tanto o quanto praticabili a tramontana e mezzogiorno.
Rametta o _Rimecta_, terra di nome latino, e però antica, ancorchè non
se ne faccia ricordo da storici e geografi innanzi il nono secolo; terra
limitata dal sito a mediocre prosperità; forte asilo in tempo di guerra.
Così ancora per tutto il corso del decimo secolo il nome di Messina
s'udì poco, quel di Rametta fu famoso per battaglie e assedii; finchè la
città del Faro, non molto innanzi il conquisto normanno, ripigliava
l'antico lustro, e Rametta tornava alla condizione assegnatale dalla
natura. Da cotesta vicenda parmi si debba argomentare che dopo
l'ottocento quarantatrè i principali cittadini di Messina e gran parte
del popolo si tramutassero in quelli aspri gioghi per viver liberi; e
che Messina, mezzo abbandonata, rimanesse come porto ed emporio, Rametta
divenisse l'Acropoli dell'antica patria.
Mogber, uom valoroso, della nobile schiatta di Sofiân collaterale di
casa d'Aghlab,[749] era stato accetto un tempo a Ibrahîm-ibn-Ahmed, che
solea per diletto armeggiar di lancia con esso lui; era stato preposto
al governo di Laribus; ma poi, allontanato d'Affrica al par di quanti
altri davan ombra al tiranno, ebbe il pericoloso comando dell'esercito a
Messina. Dove gli avvenne che andato con poche galee a una correria in
Calabria, l'armata bizantina, capitanata, com'ei pare, da un ammiraglio
Michele, lo fe' prigione, e sì mandollo a Costantinopoli; ove dopo
alquanti anni morì. Per lungo tempo rimase popolare in Affrica il nome
di Mogber, recitandovisi da tutti un poemetto ch'egli avea dettato nei
tristi giorni della cattività, e mandatolo al Kairewân, del quale
abbiamo due squarci: poesia imitativa; versi così così; sensi di carità
patria; disprezzo della fortuna, e speranza che confortasse l'animo del
prigione colui che avea guardato Giuseppe dalle seduzioni, rincorato
Giobbe, liberato Abramo dal furore de' Miscredenti e dato possanza al
bastone di Mosè in faccia ai Maghi d'Egitto.[750]
Ma Sewâda-ibn-Mohammed, tornato in Palermo, movea l'anno dugento
settantasei (5 maggio 889 a 23 aprile 890) contro Taormina, e invano
l'assediava;[751] col quale par che Ibrahîm-ibn-Ahmed abbia mandato in
Sicilia milizie straniere sotto pretesto della guerra sacra in Calabria,
e in verità per mettere un freno in bocca ai coloni. In fatti, leggiamo
nella _Cronica di Cambridge_ che di marzo ottocento novanta i Musulmani
di Sicilia si levarono in arme contro gli Affricani e uccisero un
Tâwâli, del quale altro non si conosce che il nome o soprannome che
sia;[752] ma quella appellazione di Affricani e Siciliani, data qui dal
medesimo scrittore che nell'ottocento ottantasette avea parlato di Giund
e Berberi, mostra che si combattesse tra le novelle forze venute
d'Affrica e gli antichi coloni, non più tra le due schiatte di
costoro.[753] Resse la Sicilia l'anno dugento settantotto (14 aprile 891
a 1 aprile 892) Mohammed-ibn-Fadhl di già ricordato. Il dugento
settantanove (2 aprile 892 a 21 marzo 893), il _Baiân_ ripete il nome di
costui e lo dice entrato in Palermo capitale dell'isola il due
sefer[754] (4 maggio 892); la qual data, sì precisa, è indizio di
avvenimento non ordinario; forse un moto di fazioni; forse una
battaglia. Ne fan certi di ciò i cenni che troviamo in altri scrittori.
Leggiamo nella storia d'Affrica del Nowairi, che l'anno dugentottanta
(893-894) Ibrahim-ibn-Ahmed, rifatto _hâgib_, o vogliam dir ciambellano
e primo ministro, un Hasan-ibn-Nâkid, gli conferì inoltre parecchi
oficii, tra i quali l'emirato di Sicilia, e che Hasan andò con un
esercito a combattere i popoli di Tunis e di tutta la penisola di
Scerîk,[755] come chiamavan la lingua di terra che si termina nel Capo
Bon e dritto guarda al promontorio occidentale della Sicilia. Da
un'altra mano, tra l'ottocentonovantadue e il novantasei, non s'intende
in Sicilia d'impresa contro i Cristiani; anzi si vede fermato un patto
tra loro e i Musulmani dell'isola: fermato ai tempi di Abu-Ali, dice la
_Cronica di Cambridge_;[756] fermato coi Saraceni di Palermo che si
ribellarono dal principe d'Affrica, dice Giovanni Diacono
napoletano,[757] alludendo, com'e' par certo, al medesimo accordo. V'ha
luogo dunque a due supposti: o che il principe affricano abbia voluto
usar la vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl, per togliere le franchigie della
colonia, e farla reggere dal primo ministro ch'ei si teneva allato;
ovvero che i coloni siano rimasi di sopra in alcun altro scontro, e
Ibrahim abbia commesso al primo ministro, che, doma la penisola di
Scerîk, traghettasse il mare, e andasse a domar la Sicilia, il che poi
non si effettuò. Al secondo supposto dan valore le parole di Giovanni
Diacono; talchè Abu-Ali sarebbe soprannome del capo della rivoluzione in
Palermo.
La pace, chè tal vocabolo adopran qui i cronisti contro l'uso ordinario
degli accordi coi Cristiani, non portava ai Musulmani altro avvantaggio,
che di liberar mille prigioni di lor gente. Fu stipolata tra gli ultimi
dell'ottocento novantacinque e i primi del novantasei. Le fu posto il
termine di quaranta mesi; e la colonia diè statichi da scambiarsi ogni
tre mesi, una volta Arabi e una volta Berberi.[758] Tornò dunque a un
compenso del riscatto di mille Musulmani col valsente del bottino,
schiavi e guasti di ricolte, che i Cristiani avrebbero potuto patire in
quattro estati; e gli ostaggi si davano dai Musulmani ai Cristiani,
perchè in tal baratto questi pagavan contante, e quelli in credito.
Accordo glorioso per quei tre o quattro municipii della schiatta vinta
che a mala pena si difendeano, stretti e incalzati in un cantuccio
dell'isola; troppo umile pei conquistatori che s'eran lasciati prender
tanta gente, sia in Sicilia sia in Calabria, nè si fidavano di liberarla
con la spada. Nè minore scandolo era per loro a confessare in faccia ai
Politeisti la profonda scissura della colonia, con quello avvicendare
degli statichi: Arabi e Berberi, non più fratelli in Islam!
Pongo termine qui alla narrazione del conquisto. Io non ho voluto
arrestarmi all'ottocento settantotto alla espugnazione di Siracusa, nè
proseguire infino a quella di Taormina nel novecentodue, che sarebbero
parute l'una o l'altra epoche più esatte secondo i fatti esteriori. Ma
il gioco delle forze politiche, al quale vuolsi risguardare piuttosto
che agli accidenti delle guerre, cambiò appunto al tempo della detta
pace. Allor fu che il principato bizantino lasciò la Sicilia come
spacciata. Allora i pochi municipii cristiani independenti cominciarono
ad operare dassè. Allora la colonia musulmana, stendendo la mano a quei
generosi avanzi della schiatta vinta, gittossi nella lotta di
independenza che darà materia al seguente libro.
CAPITOLO XI.
Travagliandosi per tal modo i Musulmani di Sicilia negli ultimi
venticinque anni del nono secolo, la guerra che conduceano in terraferma
d'Italia mutò indole e luoghi. Ciò anco venne dalle nuove condizioni dei
potentati cristiani. Maturati, siccome abbiamo accennato, i frutti della
riforma di Basilio Macedone, l'impero d'Oriente occupava le più vicine
parti della penisola, e cercava di attirarsi con le pratiche il papa, e
adescare o sforzare gli altri Stati minori della Italia Meridionale, sì
che tornassero al nome bizantino. Da un'altra mano, l'Impero
Occidentale, smisurata massa ed eterogenea, presto s'era scissa: i varii
principi del sangue di Carlomagno, che ne avean preso chi un reame e chi
un altro, litigavano tra loro; e s'era spenta con Lodovico secondo,
imperatore, ogni virtù di quella schiatta. Allora quei che aspiravano al
regno d'Italia ed alla dignità imperiale, non bastando a pigliarsi la
corona con le proprie mani, cominciarono ad accattarla dal papa; il
quale, mercè la preponderanza del clero, trovava modo a governare i
suffragi dei grandi vassalli italiani. Così l'autorità imperiale
avvilissi tanto più; la papale crebbe; e non ne migliorò punto la
condizione d'Italia.
adunata tutta la genía saracenica da levante a ponente et da
settentrione al mare.” Un folto popolo andò a incontrare il convoglio,
tripudiando alla vista di quel bottino, intonando versetti del Corano,
che Teodosio chiama canti trionfali e peani.
Dopo cinque dì, l'arcivescovo e i preti suoi erano addotti allo emiro
supremo, dice Teodosio, senza dubbio il wâli di Sicilia, “sedente in
trono, sotto un portico,[703] ascosto dietro una cortina per tirannesca
superbia.” L'emiro e l'arcivescovo fecero per interpreti una breve
disputa religiosa, nel cui tenore, dato da Teodosio, ben si ravvisa il
gergo musulmano; e vedesi che il tiranno parlava senza orgoglio nè
intolleranza; il pastore con dignità e circospezione. Accomiatati per
tornare alla prigione, attraversavano la piazza di mezzo della città,
probabilissimamente quella ch'or si chiama del Palagio Reale, seguendoli
“moltissimi Cristiani che senza dissimulazione li compiangeano, e molti
Musulmani tratti da curiosità di vedere il rinomato arcivescovo;” dei
quali Teodosio non dice che desser su la voce a que' primi, nè
profferissero ingiurie. Furon chiusi poi nelle pubbliche carceri,[704]
che vi si scendea per quattordici gradini e non aveano altra finestra
che la porta; dove, tra il caldo, la oscurità, il puzzo, gli schifi
insetti, erano accalcati Negri, Arabi, Ebrei, Cristiani di Tarso, di
Longobardia e Siciliani. Il vescovo di Malta, ch'avea i ferri ai piè,
levossi per abbracciare Sofronio: si contarono a vicenda lor casi;
piansero insieme; e ringraziarono Iddio. Ma venuta la festa dei
Sagrifizii, com'esattamente la chiama Teodosio,[705] un fanatico
dottore[706] si messe a stigare il popolazzo che per maggiore allegria
facesse un falò di quel sacerdote politeista; se non che gli uomini più
autorevoli e i magistrati calmarono il furore, mostrando vietato da
legge musulmana l'abbominevole sagrifizio[707] e doversi in altra guisa
render lode a Dio della vittoria. “Così campammo, conchiude Teodosio,
scrivendo dal carcere, e pur ci minacciano la morte ogni dì.[708]” Si
addoppiarono forse i timori suoi ne' tumulti della capitale, nella
guerra che si raccese con avvantaggio delle armi greche; finchè,
l'ottocento ottantacinque, erano riscattati i prigioni siracusani;[709]
onde l'arcivescovo e Teodosio, par che tornassero in libertà.[710]
CAPITOLO X.
Lo stesso anno, se prima o appresso la espugnazione di Siracusa non si
ritrae, Gia'far-ibn-Mohammed fu ucciso in Palermo dai suoi proprii
famigliari, per trama di due principi del sangue aghlabita, ch'eran
ritenuti prigioni nel palagio dell'emiro, mandativi al certo da Ibrahîm;
l'uno, fratel di costui per nome Abu-I'kal-Aghlab-ibn-Ahmed;
l'altro, fratello del padre di Ibrahîm, e addimandavasi anco
Aghlab-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, soprannominato _Khereg-er-ro'ûna_, come
noi diremmo “La pazzia se n'andò.” Aghlab, matto o no, volle raccogliere
il frutto dell'omicidio; prese lo Stato, affidandosi in una mano di
partigiani; ma non andò guari che il popolo, sollevatosi, lo scacciò con
tutti i compiici suoi, e mandolli in Affrica.[711] Succedea nel governo,
per elezione, com'e' pare, d'Ibrahîm, un Hosein-ibn-Ribâh,[712] che
pochi anni addietro avea retto per breve tempo la colonia.
Il quale immantinenti ebbe a combattere aspra guerra coi Cristiani.
Uscito la state dell'ottocento settantanove contro Taormina, fu
sconfitto più fiate. All'ultimo trionfò in sanguinosa battaglia, e
uccisevi il capitano nemico che il _Baiân_ chiama patrizio;[713] forse
quel Crisafi, la cui morte ricorda in quest'anno medesimo la _Cronica di
Cambridge_:[714] il qual nome gentilizio ricomparisce in un diploma del
duodecimo secolo, non che nei ricordi de' tempi successivi, e rimane
tuttavia in Sicilia. Da ciò si vede che i Politeisti dell'isola, come il
_Baiân_ chiama i cittadini delle terre non sottomesse ai Musulmani,
avendo dinanzi agli occhi quello spaventevole esempio di Siracusa,
vollero piuttosto affrontar la morte uniti in campo, che perire divisi,
ciascuno entro il suo muro. Notevol è che la medesima disperata reazione
avvenne già dopo la presa di Castrogiovanni. Or davano animo al
resistere anco le discordie dei Musulmani e gli appresti che facea
Basilio per cancellare l'onta delle armi sue.
Incalzavan la briga i frati, solito stromento di governo nell'impero
bizantino; i quali si fecero agitatori, portatori d'avvisi, anco
esploratori; affidandosi nella umiltà di loro stato, nei pretesti che
forniva e nella riverenza del popolo musulmano, ch'era sì caritatevole
verso i poveri di qualunque religione, proclive a tutte superstizioni
anco straniere, e uso a tenere in gran conto l'abnegazione monastica.
Pertanto veggiamo sopraccorrere in questo tempo in Sicilia un valente
frate, Elia da Castrogiovanni, la cui vita tra non guari avremo a
narrare. Lasciata Gerusalemme, ov'ei facea stanza, Elia navigò alla
volta d'Affrica; di lì venne sur un legno carico di mercatanzie in
Palermo; vi rivide la madre; e a capo di pochi dì, appunto quando
s'allestiva un'armata nel porto della capitale, ei passò a Taormina; di
là a Reggio, ove il popolo era tutto sbigottito; lo rassicurò
vaticinando la sconfitta degli Infedeli: e dopo i successi che siamo per
narrare, Elia ricomparisce a Taormina per pochi dì; passa in Grecia;
ov'è preso per spia dei Musulmani; indi viene in Calabria di nuovo; va a
Roma e di nuovo a Taormina. L'intendimento di cotesti viaggi è
evidentissimo. Il fatto si deve accettare da una biografia scritta non
guari dopo la morte di Elia, e molto accurata nei nomi proprii e
topografici, e negli avvenimenti che noi d'altronde conosciamo;
verosimile e semplice negli altri; nella quale i miracoli stanno appesi
come parati da festa su le mura di un edifizio.[715]
Il detto vaticinio d'Elia era di quelli che ognuno può fare. Dopo gli
avvantaggi riportati dalle armatette bizantine, a Napoli[716] sopra i
Musulmani d'Affrica e di Sicilia, e in Levante contro quei dell'Asia
Minore e di Creta, il navilio capitanalo da Niceta Orifa, per audace
fazione, avea distrutto l'armata cretese nel golfo di Corinto; aveala
arso, affondato, fatti moltissimi prigioni, e messili a morte con
orrendi supplizii; chi scorticato vivo, chi immerso nella pece
bollente.[717] Oltre il terrore di questi fatti, stava pei Bizantini la
superiorità del numero; leggendosi che l'armata affricana e Siciliana
che s'accozzò in Palermo sommasse a sessanta navi,[718] ed a
centoquaranta la bizantina che le fu mandata incontro,[719] capitanata
da un Nasar, uom di Siria come lo mostra il nome; forse della fiera
gente dei Mardaiti che valorosamente combatteano contro gli oppressori
Musulmani in patria e fuori.[720] Come il navilio affricano s'era messo
a depredare Cefalonia, Zante e tutte quelle costiere, con animo forse di
passare in Calabria, Nasar, raccolte sue forze nel porto di Modone,
ristorata la disciplina nei soldati, rinforzatili di Mardaiti e milizie
del Peloponneso, uscì improvvisamente contro il nemico. Per aspro
combattimento gli bruciò o prese la più parte delle navi, credo io, nei
primi di agosto ottocento ottanta, su la costiera occidentale della
Grecia propria, Ellade, come allor si chiamava la provincia a
settentrione dell'istmo di Corinto. Rifuggitisi in Sicilia quei pochi
legni che il poterono, Basilio comandava a Nasar di passar oltre verso
Ponente. Così quegli veniva a Reggio; e distrutto, com'e' pare, qualche
avanzo dell'armata siciliana che osava far testa, approdò non lungi di
Palermo.[721]
Padroni oramai del mare i Bizantini cominciarono a dar la caccia alle
navi mercantili dei Musulmani, e grande copia vi presero di ricche
merci, soprattutto d'olio, il quale fu tanto che il venderono a un obolo
la libbra:[722] depredazioni esiziali in quell'anno, in cui era una
spaventevole carestia in Africa,[723] e però molto bisogno delle derrate
di Sicilia. Al tempo stesso Nasar mandò torme di cavalli a dare il
guasto ai territorii delle città fatte tributarie dei Musulmani:
parecchi mesi durò frastornando il commercio della colonia, senza
attentarsi ad assalirla altrimenti; finchè andossene in Terraferma
ov'era più agevole a fare acquisto di territorio.[724] Ben ei lasciò una
squadra di salandre a Termini, o Cefalù, con soldati che continuassero
l'infestagione per terra;[725] e forse allor fu che Basilio, con intento
di ordinare la guerra in Sicilia, fecevi capitano Euprassio,[726] e poi
Musulice. Allora per certo si cominciò a fabbricare o afforzare una
città, alla quale i Bizantini poser nome di Città del Re; com'io credo,
l'odierna Polizzi,[727] la quale sorge sopra un colle in mezzo alla
valle principale delle Madonie, a brevissima distanza dalle scaturigini
dei due Imera, settentrionale e meridionale, o vogliam dire fiume Grande
e fiume Salso. Cotesti fiumi, correndo in dirittura opposta, l'uno al
Tirreno, l'altro al mar d'Affrica, tagliano la Sicilia d'una linea non
interrotta, la quale segnò la divisione amministrativa sotto i Romani, e
poi di nuovo nel decimoterzo secolo; e le due provincie si chiamarono la
prima volta Lilibetana e Siracusana, poi Sicilia di là e di quà del
Salso, ossia Occidentale ed Orientale, e l'una rispondea al Val di
Mazara, l'altra a quei di Demona e Noto uniti insieme. Da quella
fortezza i Bizantini tenendo il passo delle Madonie, poteano dominare
l'uno e l'altro pendío; chiudere i Musulmani nel Val di Mazara; e
assicurare le popolazioni cristiane di Val Demone e Val di Noto. Con
pari intento il conte Ruggiero due secoli appresso affortificava
Polizzi, sì che a lui ne fu attribuita la fondazione.
Scambiato per cagion di quelle sconfitte, o forse uccisovi,
Hosein-ibn-Ribâh, e rifatto governatore della colonia Hasan-ibn-Abbâs,[728]
i cavalleggieri musulmani prorompeano di Palermo a infestar tutta
la Sicilia, l'anno dugento sessantasette dell'egira (11 agosto 880 a
30 luglio 881), nella state cioè dell'ottocento ottantuno;
e Hasan col grosso delle genti, attraversata risolutamente l'isola,
andava a bruciare le mèssi nel contado di Catania. Di lì passato in quel
di Taormina,[729] distruggeva le ricolte e tagliava gli alberi: onde
uscitogli contro Barsamio, capitano del presidio, uom di Siria come
parrebbe al nome, questi toccò una sconfitta, che il biografo di Elia da
Castrogiovanni dice predetta dal Santo.[730] Il vincitor musulmano,
tornandosi a Palermo, dava il guasto al territorio di Bekâra, non so
bene se Vicari, ovvero un castel distrutto nelle vicinanze di Gangi, che
non son guari lontani nè l'uno nè l'altro dal luogo ov'eransi afforzati
i Bizantini. Questi dal canto loro non intermessero le incursioni ne'
territorii dei Musulmani ai quali recarono gravissimi danni.[731] Così
con varia fortuna si combattea.
L'anno appresso, che fu il dugento sessantotto dell'egira (31 luglio 881
a 19 luglio 882), cominciò con atroce sconfitta e terminossi con
splendide vittorie dei Musulmani. Narra Ibn-el-Athîr che una gualdana
condotta da Abu-Thûr, “Quel dal Toro,” come noi diremmo, imbattutasi
nell'esercito bizantino, fu tagliata a pezzi; sì che ne camparon sette
uomini soli.[732] Il nome di Caltavuturo,[733] che significa la rôcca di
Abu-Thûr, discosta cinque miglia da Polizzi, addita il luogo dello
scontro. La quale notizia accozzata con quel rigo di annali è esempio
dei materiali su cui ci tocca ordinariamente a compilare questo nostro
lavoro: ragguagli talvolta precisi, ma come iscrizioni sepolcrali; nè ci
dipingono le sembianze, nè ci rivelano le passioni, i pensieri, tutto
quel movimento vitale che piace e giova intendere nella storia. Ma alle
memorie storiche come noi le vorremmo, come l'ebbero alle mani i grandi
maestri dell'arte, suppliscono un po' le leggende: almeno ci svelano in
che modo allor gli uomini delirassero, che è pur segno di vita.
Un'agiografia greca ed un'agiografia arabica s'abbattono entrambe,
com'e' pare, nel medesimo fatto di Caltavuturo; narrando le visioni di
due avversarii in alcuna sconfitta toccata dai Musulmani. Niceta Davidde
di Paflagonia, nella Vita d'Ignazio Patriarca di Costantinopoli scritta
in greco, novera questo tra i cento prodigii del patriarca: che
Musulice, stratego di Sicilia, in un'aspra battaglia contro i Saraceni,
sbigottito, nè sapendo che farsi, invocava l'anima beata d'Ignazio, e
che quegli, apparso in aria sopra un possente caval bianco, gli
accennava di muover le schiere contro la sinistra del nemico; e così
fece il pio capitano, e, contro il solito, vinse.[734] In luogo di un
vescovo che venisse a dimostrare arte di strategia, la leggenda
musulmana fa scendere dall'empireo le Huri dai begli occhi negri, per
chiamare a novella vita i martiri della fede unitaria. Il narratore è
Abu-Hasan-Harîri, siciliano di santissimi costumi secondo sua setta,
trapassato il novecento trentuno. “Al tempo, diceva egli in sua
vecchiezza, al tempo che questa nostra patria nudriva prodi cavalieri,
non trascorsi per anco a lacerarsi in guerra civile, io mossi con gli
altri ad una impresa contro Infedeli; nella quale scontratici col
nemico, fe' carnificina di noi. Tra i cadaveri trovai semivivo
Abu-Abd-Selem-Moferreg, uom virtuoso, dato ad esercizii di pietà, a dura
penitenza, e a combattere per la fede; il quale così mi parlò: “Ti
giuro,” ei disse, “per Dio, che ho visto tante scale drizzate da questo
campo infino al cielo, per le quali scendeano giovanette che mai più
vaghe non ne conobbi al mondo. Tenendo alle mani uno sciugatoio di
drappo verde, ciascuna s'accostò a un dei martiri nostri, e presogli il
capo e posatoselo in grembo, gli astergeva il sangue; poi, levando nelle
sue braccia il trafitto, se ne risaliva con esso lui in cielo. Ma la
donzella che venne a me, addandosi ch'io respirassi, mi volse le spalle
tutta sconsolata, esclamando: — Oh sventura, egli vive! Oh vergogna mia
appo le compagne! — Ed ella mi lasciò,” finiva singhiozzando Moferreg,
“ch'io la vidi con questi occhi miei aperti e risentiti. Mi lasciò la
dolce sorella: or come mai potrò cessare il pianto finch'io non la
ritrovi?”” Da quel dì in poi Moferreg si profondò tanto più a meditare
su la divinità e su l'altro mondo; raddoppiò ogni più strano rigor di
vita ascetica; si cibò d'erbe; e quando alcuno gli diceva: “Smetti, o
Abu-Abd-Selem,[735] che hai fatto abbastanza per guadagnare il
Paradiso;” ei gli dava su la voce: “Sciagurato ch'io non ho scusa appo
il mio Signore;” e ricominciava a piangere: nel qual modo si travagliò
per sei anni che gli rimaser di vita.[736]
Deposto dopo la sconfitta di Caltavuturo Hasan-ibn-Abbâs, e surrogatogli
Mohammed-ibn-Fadhl, rinnovava, nella primavera dell'ottocento
ottantadue, il disegno di Hasan; spargendo le gualdane per ogni luogo
ove i Cristiani non fossero sottomessi; e movendo egli medesimo con lo
esercito sopra Catania. Andò seco lui grande sforzo di gente, levatasi
in massa alla guerra sacra, com'e' pare dal testo d'Ibn-el-Athîr.[737]
Dato il guasto alle mèssi in quel di Catania, Mohammed improvvisamente
si voltò contro i soldati delle salandre bizantine, i quali non si
ritrae se abbiano fatto sbarco nella costiera orientale, o, per terra,
tenuto dietro all'esercito musulmano; o se questo sia ito a trovarli su
la costiera settentrionale, valicando i monti. Mohammed li combattè e
ruppe con molta strage. Poi andò a guastare le ricolte di Taormina; e al
ritorno scontrossi con più forte esercito cristiano, accozzato forse dai
municipii di Sicilia. Lo sbaragliò; ne uccise tremila uomini, e mandò le
teste in Palermo. Usando la vittoria, assaltò poi la Città del Re,
Polizzi, se regge il mio supposto; della quale impadronissi per forza
d'armi, e messe a morte tutt'i combattenti, e ogni altra persona fe'
schiava.[738] Così erano sgombrati gli avanzi della espedizione di
Nasar. Le forze bizantine, bastando appena alla guerra di Calabria,
abbandonavano la Sicilia, o forse vi lasciavano pochissimi presidii. Il
territorio cristiano pertanto si ristrinse ai monti della Peloriade,
all'Etna, e alla valle ch'è di mezzo.
Quella striscia di terreno sarebbe stata poi, con lieve fatica,
soverchiata dai Musulmani, se non li avesse arrestato il peggior nemico
loro, la discordia. La quale nelle avversità suol trovare nuov'esca; e
cova sotterra; e quando poi senta rivoltare la fortuna, s'apre spiragli,
e divampa. I segni del tristo fuoco si veggono apparire poco appresso la
vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl: sono la debolezza e incertezza con che
si sciupò la vittoria. Il dugento sessantanove (20 luglio 882 a 9 luglio
883), Mohammed affliggea con saccheggi, cattività, uccisioni i contadi
di Rametta e Catania, ma tornava in Palermo tra il giugno e il luglio
dell'ottocento ottantatre,[739] senza offendere altrimenti il nemico
tutto quell'anno. Al vittorioso condottiero, se deposto o morto non si
sa, era surrogato un Hosein-ibn-Ahmed; il quale morì l'anno dugento
settantuno (28 giugno 884 a 16 giugno 885), dopo una scorreria che fe'
fare nel territorio di Rametta, con guasti di poderi e preda
di roba e d'uomini. Poi, venuto d'Affrica a governare l'isola
Sewâda-ibn-Mohammed-ibn-Khafâgia, volendo imitare il padre e l'avolo con
gagliarde imprese, desolò non solo il contado, ma forse anco i sobborghi
di Catania;[740] passò a Taormina; combattè quel presidio; guastò le
mèssi; e si facea più da presso, quando venuti a chiedergli accordo,
com'ei pare, i decurioni della città, fermò la tregua per tre mesi e lo
scambio di trecento prigioni musulmani con que' di Siracusa; ridusse lo
esercito alle stanze in Palermo;[741] e spirata la tregua, riassaltò la
Sicilia orientale all'entrare del dugento settandue (17 giugno 885 a 6
giugno 886) senz'altro frutto che un po' di bottino.[742]
Così per due anni allenava la guerra sacra, perchè gli animi
s'apparecchiavano alla guerra civile. Alfine, aggiugnendosi alle altre
cagioni di mal contentamento le vittorie che riportava in Calabria
Niceforo Foca e il disordine che dovean recare dalla Terraferma
nell'isola i Musulmani rifuggiti,[743] si venne in questa al sangue. I
Berberi e gli Arabi combatteron tra loro, il dì appunto non si sa, tra
l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera dell'ottantasette: e
Sewâda con un suo fratello e tutti i partigiani, presi dal popolo di
Palermo e messi in ceppi, furono mandati in Affrica. Il popolo rifece
governatore un Abu-Abbâs-ibn-Ali;[744] ma par che poco durasse in
ufizio, e che il principe aghlabita riescisse a chetare i sollevati; sì
che non guari dopo rimandava in Palermo lo stesso Sewâda.
Breve pausa di discordie, ma ben la sentirono i nemici. Morto in questo
mezzo Basilio Macedone (1 marzo 886) e venuto l'impero nelle deboli mani
di Leone, era chiamato Niceforo Foca a governar la guerra in Asia
Minore. I Musulmani di Sicilia allestivano allora l'armata per
riassaltare la Calabria, l'anno dell'egira dugento sessantacinque (15
maggio 888 a 4 maggio 889). Allo incontro venne da Costantinopoli a
Reggio il navilio imperiale; e passato lo stretto, che già avea preso il
nome di Mar del Faro,[745] trovò il nemico nelle acque di Milazzo,
probabilmente in settembre ottocento ottantotto. La battaglia finì con
una strage spaventevole: prese tutte le navi ai Cristiani; morti dei
loro cinque, forse settemila, tra di ferro e annegati: ed è da credervi,
poichè al certo il vincitore musulmano non risparmiò i prigioni, dopo
quelle orribili crudeltà di Niceta Orifa. Allo annunzio della quale
sconfitta gli abitatori di Reggio e delle altre città e castella della
estrema Calabria, fuggivano dalle case loro sentendosi sul collo la
spada musulmana. Infatti l'armata vincitrice approdò; sparse gli
scorridori all'intorno, e fatto gran bottino si ridusse in Palermo.[746]
Dopo la espugnazione dell'ottocento quarantatrè, il nome di Messina
ricomparisce nelle memorie musulmane in questo tempo, sapendosi che
Mogber-ibn-Ibrahîm-ibn-Sofiân fosse mandato a capitanare “l'esercito di
Messina e terra di Calabria dopo la battaglia di Milazzo;” queste sono
le proprie parole del biografo.[747] Nel mezzo secolo che corse tra
l'uno e l'altro avvenimento, non si fa punto menzione di quella città;
ma si ricordano, dall'ottocento settantasette in poi, i guasti di
eserciti musulmani nel contado di Rametta, picciola rôcca tra i monti, a
ponente di Messina ond'è lontana nove miglia in linea retta[748] e molto
più pei sentieri tanto o quanto praticabili a tramontana e mezzogiorno.
Rametta o _Rimecta_, terra di nome latino, e però antica, ancorchè non
se ne faccia ricordo da storici e geografi innanzi il nono secolo; terra
limitata dal sito a mediocre prosperità; forte asilo in tempo di guerra.
Così ancora per tutto il corso del decimo secolo il nome di Messina
s'udì poco, quel di Rametta fu famoso per battaglie e assedii; finchè la
città del Faro, non molto innanzi il conquisto normanno, ripigliava
l'antico lustro, e Rametta tornava alla condizione assegnatale dalla
natura. Da cotesta vicenda parmi si debba argomentare che dopo
l'ottocento quarantatrè i principali cittadini di Messina e gran parte
del popolo si tramutassero in quelli aspri gioghi per viver liberi; e
che Messina, mezzo abbandonata, rimanesse come porto ed emporio, Rametta
divenisse l'Acropoli dell'antica patria.
Mogber, uom valoroso, della nobile schiatta di Sofiân collaterale di
casa d'Aghlab,[749] era stato accetto un tempo a Ibrahîm-ibn-Ahmed, che
solea per diletto armeggiar di lancia con esso lui; era stato preposto
al governo di Laribus; ma poi, allontanato d'Affrica al par di quanti
altri davan ombra al tiranno, ebbe il pericoloso comando dell'esercito a
Messina. Dove gli avvenne che andato con poche galee a una correria in
Calabria, l'armata bizantina, capitanata, com'ei pare, da un ammiraglio
Michele, lo fe' prigione, e sì mandollo a Costantinopoli; ove dopo
alquanti anni morì. Per lungo tempo rimase popolare in Affrica il nome
di Mogber, recitandovisi da tutti un poemetto ch'egli avea dettato nei
tristi giorni della cattività, e mandatolo al Kairewân, del quale
abbiamo due squarci: poesia imitativa; versi così così; sensi di carità
patria; disprezzo della fortuna, e speranza che confortasse l'animo del
prigione colui che avea guardato Giuseppe dalle seduzioni, rincorato
Giobbe, liberato Abramo dal furore de' Miscredenti e dato possanza al
bastone di Mosè in faccia ai Maghi d'Egitto.[750]
Ma Sewâda-ibn-Mohammed, tornato in Palermo, movea l'anno dugento
settantasei (5 maggio 889 a 23 aprile 890) contro Taormina, e invano
l'assediava;[751] col quale par che Ibrahîm-ibn-Ahmed abbia mandato in
Sicilia milizie straniere sotto pretesto della guerra sacra in Calabria,
e in verità per mettere un freno in bocca ai coloni. In fatti, leggiamo
nella _Cronica di Cambridge_ che di marzo ottocento novanta i Musulmani
di Sicilia si levarono in arme contro gli Affricani e uccisero un
Tâwâli, del quale altro non si conosce che il nome o soprannome che
sia;[752] ma quella appellazione di Affricani e Siciliani, data qui dal
medesimo scrittore che nell'ottocento ottantasette avea parlato di Giund
e Berberi, mostra che si combattesse tra le novelle forze venute
d'Affrica e gli antichi coloni, non più tra le due schiatte di
costoro.[753] Resse la Sicilia l'anno dugento settantotto (14 aprile 891
a 1 aprile 892) Mohammed-ibn-Fadhl di già ricordato. Il dugento
settantanove (2 aprile 892 a 21 marzo 893), il _Baiân_ ripete il nome di
costui e lo dice entrato in Palermo capitale dell'isola il due
sefer[754] (4 maggio 892); la qual data, sì precisa, è indizio di
avvenimento non ordinario; forse un moto di fazioni; forse una
battaglia. Ne fan certi di ciò i cenni che troviamo in altri scrittori.
Leggiamo nella storia d'Affrica del Nowairi, che l'anno dugentottanta
(893-894) Ibrahim-ibn-Ahmed, rifatto _hâgib_, o vogliam dir ciambellano
e primo ministro, un Hasan-ibn-Nâkid, gli conferì inoltre parecchi
oficii, tra i quali l'emirato di Sicilia, e che Hasan andò con un
esercito a combattere i popoli di Tunis e di tutta la penisola di
Scerîk,[755] come chiamavan la lingua di terra che si termina nel Capo
Bon e dritto guarda al promontorio occidentale della Sicilia. Da
un'altra mano, tra l'ottocentonovantadue e il novantasei, non s'intende
in Sicilia d'impresa contro i Cristiani; anzi si vede fermato un patto
tra loro e i Musulmani dell'isola: fermato ai tempi di Abu-Ali, dice la
_Cronica di Cambridge_;[756] fermato coi Saraceni di Palermo che si
ribellarono dal principe d'Affrica, dice Giovanni Diacono
napoletano,[757] alludendo, com'e' par certo, al medesimo accordo. V'ha
luogo dunque a due supposti: o che il principe affricano abbia voluto
usar la vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl, per togliere le franchigie della
colonia, e farla reggere dal primo ministro ch'ei si teneva allato;
ovvero che i coloni siano rimasi di sopra in alcun altro scontro, e
Ibrahim abbia commesso al primo ministro, che, doma la penisola di
Scerîk, traghettasse il mare, e andasse a domar la Sicilia, il che poi
non si effettuò. Al secondo supposto dan valore le parole di Giovanni
Diacono; talchè Abu-Ali sarebbe soprannome del capo della rivoluzione in
Palermo.
La pace, chè tal vocabolo adopran qui i cronisti contro l'uso ordinario
degli accordi coi Cristiani, non portava ai Musulmani altro avvantaggio,
che di liberar mille prigioni di lor gente. Fu stipolata tra gli ultimi
dell'ottocento novantacinque e i primi del novantasei. Le fu posto il
termine di quaranta mesi; e la colonia diè statichi da scambiarsi ogni
tre mesi, una volta Arabi e una volta Berberi.[758] Tornò dunque a un
compenso del riscatto di mille Musulmani col valsente del bottino,
schiavi e guasti di ricolte, che i Cristiani avrebbero potuto patire in
quattro estati; e gli ostaggi si davano dai Musulmani ai Cristiani,
perchè in tal baratto questi pagavan contante, e quelli in credito.
Accordo glorioso per quei tre o quattro municipii della schiatta vinta
che a mala pena si difendeano, stretti e incalzati in un cantuccio
dell'isola; troppo umile pei conquistatori che s'eran lasciati prender
tanta gente, sia in Sicilia sia in Calabria, nè si fidavano di liberarla
con la spada. Nè minore scandolo era per loro a confessare in faccia ai
Politeisti la profonda scissura della colonia, con quello avvicendare
degli statichi: Arabi e Berberi, non più fratelli in Islam!
Pongo termine qui alla narrazione del conquisto. Io non ho voluto
arrestarmi all'ottocento settantotto alla espugnazione di Siracusa, nè
proseguire infino a quella di Taormina nel novecentodue, che sarebbero
parute l'una o l'altra epoche più esatte secondo i fatti esteriori. Ma
il gioco delle forze politiche, al quale vuolsi risguardare piuttosto
che agli accidenti delle guerre, cambiò appunto al tempo della detta
pace. Allor fu che il principato bizantino lasciò la Sicilia come
spacciata. Allora i pochi municipii cristiani independenti cominciarono
ad operare dassè. Allora la colonia musulmana, stendendo la mano a quei
generosi avanzi della schiatta vinta, gittossi nella lotta di
independenza che darà materia al seguente libro.
CAPITOLO XI.
Travagliandosi per tal modo i Musulmani di Sicilia negli ultimi
venticinque anni del nono secolo, la guerra che conduceano in terraferma
d'Italia mutò indole e luoghi. Ciò anco venne dalle nuove condizioni dei
potentati cristiani. Maturati, siccome abbiamo accennato, i frutti della
riforma di Basilio Macedone, l'impero d'Oriente occupava le più vicine
parti della penisola, e cercava di attirarsi con le pratiche il papa, e
adescare o sforzare gli altri Stati minori della Italia Meridionale, sì
che tornassero al nome bizantino. Da un'altra mano, l'Impero
Occidentale, smisurata massa ed eterogenea, presto s'era scissa: i varii
principi del sangue di Carlomagno, che ne avean preso chi un reame e chi
un altro, litigavano tra loro; e s'era spenta con Lodovico secondo,
imperatore, ogni virtù di quella schiatta. Allora quei che aspiravano al
regno d'Italia ed alla dignità imperiale, non bastando a pigliarsi la
corona con le proprie mani, cominciarono ad accattarla dal papa; il
quale, mercè la preponderanza del clero, trovava modo a governare i
suffragi dei grandi vassalli italiani. Così l'autorità imperiale
avvilissi tanto più; la papale crebbe; e non ne migliorò punto la
condizione d'Italia.
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