Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - 06
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vedendola perire, par ch'ei se ne confortasse con le ineluttabili leggi
dell'umanità che gli lampeggiavano alla mente, e con risguardare ormai
il genere umano come unica famiglia, e il popol romano come capo di
quella.[110] Dopo la morte di Diodoro seguirono le ultime guerre civili
dei dominatori, che fecero campo di battaglia la Sicilia (a. 43-35 av.
l'e. v.), e sì la straziarono, che consunta com'essa era dalle cause
economiche e morali, non potè risorgere; le antiche e nuove piaghe
scoprironsi di un subito. La popolazione delle cittadi scemò
orribilmente; moltissime rimasero vôte d'abitatori; abbandonata gran
parte dei colti: la terra di Cerere, sì cupidamente presa dai Romani, si
era sfruttata nelle mani loro.[111]
Chi abbia mai percorso le splendide memorie della Sicilia greca, o
soltanto abbia notato gli avanzi di quella prosperità nelle orazioni di
Cicerone contro Verre (a. 70 av. l'e. v.) crederà a stento lo squallore
che ingombrò il paese verso il principio dell'era volgare. Pur ne son
prova i provvedimenti di Augusto, necessitato ad ovviare alla rovina di
parecchie città, e l'espresso attestato di Strabone, uom greco,
contemporaneo, sciente delle cose di Sicilia, non sospetto di esagerarne
le calamità per calor poetico dell'animo. Cominciando dal lato di
levante Strabone trovava sol quattro città: Messina, Taormina, Catania,
Siracusa; notando che le ultime due fossero state di recente ristorate
da Augusto, e Siracusa ristretta a minore spazio presso la penisola
d'Ortigia, in vece dello antico giro di centottanta stadii, troppo ormai
agli abitatori.[112] Su la costiera meridionale, continua il geografo,
v'ha Agrigento e Lilibeo e il rimanente delle città al tutto rovinate e
deserte; nè la settentrionale abbonda di popolazione, ancorchè la si
estenda più che le altre due, e vi si veggano Alesa, Tindaro, Cefalù,
Palermo colonia romana, e lo Emporio Segestano. Delle città dentro terra
ei va nominando Etna, Centorbi ristorata altresì da Augusto, Erice col
magnifico tempio scarso ormai di sacerdoti, Enna designata sol come
fortezza, Lentini che andava a male; e le altre abbandonate tutte e date
ad abitare a pastori. Spaventevole ragguaglio confermato coi nomi delle
principali città distrutte, e col dire della grande fertilità del suolo,
ma che i prodotti di quello, grani, miele, zafferano, bestiame, pelli,
lane, tutto portavasi a Roma, fuorchè quel poco, son le parole di
Strabone, che si consuma nell'isola. A compiere il quadro egli accenna
alle antiche guerre servili che più o meno ripullulavano, e che ai suoi
tempi un Seleuro che si dicea figlio dell'Etna, avesse levato eserciti e
tenuto una parte del paese, ma poi vinto e condotto a Roma, aggiugne
romaneggiando il geografo greco, ognun l'ha veduto nel circo, esposto in
cima a un gran catafalco in figura dell'Etna, il quale aprendosi,
com'era congegnato, lasciò cadere il ribelle nelle gabbie delle
fiere.[113]
Ma la rivoluzione che oppresse la libertà di Roma, temperò anco i
soprusi dell'aristocrazia romana nelle province; tendendo il principato
a ragguagliar nella comune obbedienza tutte le classi dei cittadini, e
tutte le parti del territorio. Per questo mutato ordine di cose, la
Sicilia, come alcuni altri paesi, respirò alquanto; anche mercè i pronti
e materiali soccorsi di Augusto ricordati di sopra; limosina la quale
dovea accorare i Siciliani più che confortarli, e continuò, per maggior
onta, sotto Tiberio e Caligola, da cui fu riedificato alcun monumento
dell'isola. Succeduta poi una serie di buoni principi, che fecero
dimenticare, con unico esempio nella storia, i vizii del potere
assoluto, la Sicilia convalescente arrivò a partecipare di quella
prospera mediocrità universale dell'impero romano: parecchi villaggi
ingrossati presero il luogo delle città ch'erano distrutte ai tempi di
Strabone, e alcuna di queste risorse, o così potè dirsi, perchè un pugno
di gente tornava ad abitar tra le rovine. Provan ciò le opere di Plinio
e di Tolomeo, e l'Itinerario d'incerta epoca che porta il nome di
Antonino: scritti che tornano a un dipresso alla prima metà del secondo
secolo. E in vero l'Itinerario accenna novelle stazioni di posta
istituite recentemente, e i due geografi, con poco divario l'uno
dall'altro, danno una lista di città il cui numero è quadruplo di quel
di Strabone e metà di quel che si rinviene appo Stefano Bizantino,
erudito di tempi più bassi, che spigolò negli antichi scritti dei
Greci.[114] Le quali cifre ancorchè vadan prese ad arcata per la poca
esattezza di coteste compilazioni, pur vi si raffigura il precipizio
della Sicilia negli ultimi tre secoli che precedettero l'era volgare, e
lo scarso ristoro nei primi due secoli che la seguirono.
Scarso ristoro e non durevole; perchè indi cominciò la decadenza
universale dell'impero; perchè l'Italia si trovò peggio che le altre
province per lo flagello dei latifondi e degli schiavi di che eran
pieni; e perchè la Sicilia, divenuta del tutto italiana, fu afflitta più
che la Penisola, per essere caduta una parte maggiore delle sue terre
nelle mani dell'aristocrazia di Roma. A tal disordine sociale non
bastavano a riparare nè la prudenza di Augusto, nè la benevolenza degli
Antonini, nè l'equa amministrazione della giustizia, nè la bene ordinata
azienda. Pertanto riapparvero gli antichi sintomi nel terzo secolo; e
tra quell'universale scompiglio, che suol chiamarsi l'epoca dei trenta
tiranni, divampò nell'isola una novella guerra servile[115] (a. 259).
Spenti altrove i piccioli tiranni, posata la commozione sociale
dell'isola, continuò in tutta Italia l'abbandono dell'agricoltura,
continuò lo spopolamento, non ultima cagione delle invasioni dei
Barbari. Diocleziano prolungò alquanto la vita dell'impero. Poi la sede
passò a Costantinopoli (a. 330); ripassò in Italia alla divisione (a.
395) nella quale la Sicilia appartenne all'impero d'Occidente: ma che
potea ormai nuocere o giovare un mero mutamento di forme amministrative
alla provincia arsa ed annichilita?
Delle incursioni dei Barbari settentrionali avrò poco da dire.
Comparvero la prima fiata in Sicilia quando appena potean temersi ai
confini estremi dell'impero. Sotto il regno di Probo, una mano di
Franchi, vinti nelle Gallie e trasportati in riva al Mar Nero,
trovandovi un'armatetta romana, se ne impadroniano con disegno di
tornarsene in Ponente; e nell'arrisicato lor corso dal Bosforo allo
stretto di Gibilterra, per necessità e vendetta, saccheggiavano molti
luoghi delle costiere, e, tra gli altri, piombati sopra Siracusa, le
dettero il guasto, vi fecero una carnificina, e salvi si ridussero
finalmente alle Bocche del Reno[116] (a. 278).
Dopo quel turbine passeggiero, consumata la rovina dell'impero
occidentale, Alarico, come ognun sa, morì a Cosenza quand'era in punto
di assaltare la Sicilia (a. 410); ma Genserico osteggiò Palermo, prese
Lilibeo (a. 440), e, sconfitti i suoi Vandali da Ricimero presso
Girgenti (a. 456), dopo avere più tosto depredato che occupato l'isola,
cedettela per trattato ad Odoacre (a. 476), ritenendo solo il Lilibeo
come vedetta da custodire il suo novello reame di Affrica. Odoacre poi
regnò su la Sicilia per quattordici anni; del quale ci resta il
documento d'una concessione di terre presso Siracusa,[117] e prova
com'ei prendesse nell'isola quella che si chiamò la parte dei Barbari.
Del resto gli Eruli non passaronvi mai; forse non vi mandarono che
qualche picciol presidio: a tale debolezza era condotta la Sicilia! Così
ancora, vinto Odoacre dagli Ostrogoti, la si diè quetamente a Teodorico;
a persuasione di Cassiodoro, ed a condizione che le città e i campi
fossero salvi dalla licenza dei vincitori, dei quali sol venisse
nell'isola quel tanto che bastava a munir le fortezze principali.
Teodorico, resse l'isola assai più umanamente che i suoi predecessori
barbari e non barbari; ma non potè far che si dimenticasse l'origine
sua, nè l'eresia ariana ond'era infetto: sì che un semplice romito di
Lipari, alla morte del re affermò averlo veduto strascinare all'isoletta
di Vulcano, scinto, scalzo, con le mani legate al dorso, ghermito dalle
ombre invendicate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco, che il
precipitarono nel cratere ardente.[118]
Tal nimistà nazionale e religiosa, comune a tutta l'Italia, fe' cadere
il regno dei Goti, non guari dopo la morte di Teodorico, e spianò la
strada alla dominazione bizantina, che parea meno straniera e che fu
portata da Belisario, capitano degno al certo dei tempi più gloriosi di
Roma. Dopo l'Affrica, e prima della terraferma d'Italia, Belisario
conquistò la Sicilia entro poche settimane, con diecimila uomini al più,
per la connivenza degli abitatori: ebbe Catania per un colpo di mano;
Siracusa e altre città a patti; Palermo sola per ostinata battaglia; e
tornato a Siracusa, capitale dell'isola, entrovvi in trionfo (a. 535),
spargendo monete d'oro su la plebe, che potea credere in vero ristorato
l'onor di sua nazione, sentendo parlar greco e latino tra i vincitori.
La breve guerra di Totila (a. 549-551 ) fu l'ultima incursione dei
Barbari settentrionali in Sicilia; i quali non l'avevan tenuto più che
ottant'anni; non vi avean posto colonie militari, non vi lasciarono nè
progenie, nè istituzioni, nè alcun vestigio. Indi il governo bizantino
quetamente ricominciò nell'isola tutti gli abusi del romano, del quale
riteneva il nome e le forme; e per un secolo intero che corse dal
conquisto di Belisario al regno di Costanzo, la storia di Sicilia non ha
altro fatto notabile, che la mutata natura dei legami tra l'isola e la
terraferma d'Italia.
La popolazione siciliana per otto secoli avea tenuto tal consuetudine
con quella dell'Italia centrale, qual se l'isola si fosse venuta a porre
alle foci del Tevere: tanta era la frequenza dei negozii attenenti al
governo, ai commercii, e un tempo agli studii liberali, poi alla
religione; sempre e più che ogni altra cosa alla cultura delle terre. Le
irruzioni degli stranieri infino a Totila nulla mutarono a questo ordine
di cose; avendo l'isola con rurale docilità seguíto le sorti della
terraferma, nella quale tutti i vincitori vennero a stanziare. Ma nel
sesto secolo, il conquisto bizantino e il longobardo, accaduti con sì
breve intervallo, scomposero que' legami. Il primo trasferì a
Costantinopoli i negozii dipendenti dal governo, ch'erano molti, e
importantissima tra quelli l'amministrazione dei poderi della Corona. Il
secondo (a. 568-575) divise l'Italia in due parti, una dei vincitori,
l'altra dell'impero bizantino; la quale si componea delle isole e di
brani in terraferma frastagliati a caso come da tremuoto: la punta cioè
della Penisola; alcune strisce di costiera qua e là sovr'ambo i mari;
nel centro, Roma con varii pezzi di territorio infino all'Adriatico. Or
la parte soggiogata dai nuovi Barbari si trovò naturalmente in guerra
col governo bizantino; e più grave effetto era su l'animo d'ogni uom
romano il terrore di quegli atrocissimi principii della dominazione
longobarda; il macello dei maggiori cittadini, lo spogliamento delle
facultà, la profanazione delle chiese, le persecuzioni e sovente il
martirio degli ortodossi per man di quegli eretici ariani e dei loro
ausiliari idolatri; gli ordini civili distrutti; gli abitatori degradati
da ingiuriose leggi; la più parte fatti servi o poco manco. Pertanto
ogni comunicazione si chiuse tra la Sicilia e le misere regioni stanza e
preda dei Barbari. Al contrario mutaronsi poco o nulla i rapporti
materiali della Sicilia coi paesi rimasti al nome bizantino, e i morali
si strinsero ed accrebbero. E ciò intervenne per cagion dei molti
Italiani che si rifuggivano nelle isole; per la fratellanza che spirava
la comune oppressione di tutte le province occidentali dell'impero; e
sopratutto per procaccio dei papi, che ormai aveano acquistato
grandissimo séguito in Sicilia.
CAPITOLO II.
A creder le pie leggende locali, il cristianesimo ebbe precoci e
splendidi principii in Sicilia. San Pietro, dicono, s'affrettò a
mandarvi d'Antiochia (a. 44) i primi vescovi: Marciano a Siracusa,
Pancrazio a Taormina. Vennero pochi anni appresso, Berillo a Catania,
Libertino a Girgenti, Filippo a Palermo, Bacchilo a Messina. I quali
tutti perseguitati e persecutori, abbattono tempii pagani, rintuzzano
oracoli, uccidono dragoni; Marciano, ascoso nei laberinti sotterranei
della capitale, vi compone un altare con l'effigie della Vergine ed è
strangolato da' Giudei; Maria e Teja incontrano alsì il martirio a
Taormina per serbar castità; e presso lor tombe s'innalza il primo
monistero di donne dell'orbe cristiano. Cotesti racconti, ancorchè
accettati alla rinfusa nei libri della corte di Roma, furono messi in
forse pei principii del decimottavo secolo, da due grandi eruditi
siciliani, Giambattista Caruso e Giovanni di Giovanni.[119] Agli
argomenti loro parmi da aggiugnere, che gli Atti degli Apostoli,
narrando sì minutamente il viaggio di San Paolo a Roma (a. 61 ) e
com'egli fosse soprastato per tre dì a Siracusa,[120] non fan parola,
secondo lor costume, di correligionarii o amici trovati in quella città;
donde al certo non si confermano i fasti di San Marciano. Volgendoci a
un altro ordine di critica, basta accennare che le tradizioni dette
ripugnino ai fatti generali della storia ecclesiastica del primo secolo;
che ci si vegga la gerarchia, non del primo ma del quinto o sesto
secolo; anche passando sotto silenzio quel monastero di suore e culto
d'immagini. La ignoranza poi di chi scrisse le leggende chiaro apparisce
dalla poca o niuna parte che vi si dà a San Paolo, massimo propagator
del vangelo nelle schiatte greca e latina.
Egli è probabile che non dall'Oriente ma da Roma venissero in Sicilia i
semi del cristianesimo; nè pria delle persecuzioni di Nerone. Del
rimanente si può accettare dalle leggende l'itinerario della nuova fede
nell'isola, correggendovi sì la cronologia e gli episodii; perchè quel
cammino non discorda dalle condizioni dei Siciliani nel primo secolo, e
perchè d'altronde si sa come le agiografie contengan sempre, tra molta
lega, un po' di buon metallo, e rispettino sopra ogni altra cosa la
verità delle notizie geografiche. Il cristianesimo fu, in origine,
l'incivilimento degli oppressi; ma non tutti gli oppressi n'erano capaci
allo stesso modo. Dovea precorrere alla grossiera fede del volgo lo zelo
di spiriti convinti o innamorati: e però in Sicilia quelle speculazioni
metafisiche, quei peregrini principii di morale, quella tendenza
d'associazione e di carità, non poteano esser compresi che nelle città;
dovean trovare accoglienza tra i sottili ingegni greci, prima che nella
gente latina più tenace alle realità; doveano durare grandissima fatica
a penetrar quella mista e insalvatichita popolazione rurale. I pochi
cristiani dell'isola, non vinta per anco la forza d'inerzia delle masse,
ebbero a combattere le forze vive del principato, dell'aristocrazia e
dei dotti; le quali, vedendosi ormai minacciate dalla nuova potenza che
sorgea nel mondo, fecero ogni opera ad abbatterla. Indi per gran tratto
del terzo secolo e nei primi anni del quarto, scorreva in Sicilia il
sangue dei martiri. Si illustravano allora i nomi, rimasti sì popolari,
di Agata, Lucia, Ninfa, Euplio e molti altri; Lentini, culla un tempo
della rettorica greca, si rendea celebre per la eroica costanza e numero
dei cristiani. Nel medesimo tempo altri discendenti de' Sicelioti si
fortificavano nel culto nazionale di Cerere o di Venere Ericina, con gli
argomenti di Porfirio, capitato nell'isola per osservare l'Etna e
fattovisi a scrivere (verso il 270) un trattato a difesa del paganesimo.
Il filosofo Probo da Lilibeo, che visse in quella età, e i molti
discepoli ch'ebbe Porfirio nel suo lungo soggiorno in Sicilia,
combatterono insieme con lui questa guerra neoplatonica contro il
cristianesimo: e i sofismi loro tornarono vani al par che i supplizii a
fronte del principio morale dei novatori. Posate le persecuzioni;
succeduto alla tolleranza il favore del governo, e al favore uno
impetuoso zelo, la più parte dell'isola confessava la fede di Cristo. I
sanguinarii editti di Teodosio poi accrebbero per forza il numero dei
proseliti; fecero chiudere gli ultimi tempii pagani; e pur non bastarono
a sradicare le antiche superstizioni della popolazione rurale. Infino
agli ultimi anni del sesto secolo, che appena si crederebbe, se ne
scoprono le vestigia in Sicilia, come in Sardegna; poichè le epistole di
San Gregorio fan parola di idolatri che il vescovo di Tindaro durasse
fatica a convertire, e di schiavi pagani, comperati dai Giudei di
Catania per iniziarli a lor setta.[121]
Insieme con la Chiesa Siciliana già adulta, emerse, ai tempi di
Costantino, la gerarchia. Ebbe al certo origine popolare in Sicilia come
per ogni luogo; ebbe stretto legame con la gerarchia di Roma per la
consuetudine che passava tra i due paesi: legame di fraternità sotto la
persecuzione, poi di riverenza, infine di soggezione, quando l'ordine
ecclesiastico s'informò dall'ordine amministrativo dell'impero. Pertanto
fin dai principii del quinto secolo veggiamo chiaramente il vescovo di
Roma far da metropolitano nell'isola; consecrare i vescovi di quella;
scrivere loro direttamente per gli affari di disciplina; chiamarli a
sinodo a Roma; dar licenza per la dedicazione delle basiliche; delegare
or uno or un altro all'esercizio di sua giurisdizione nelle cause
ecclesiastiche; provvedere alla visitazione delle chiese: il quale
ordinamento non fu mutato che nell'ottavo secolo, come innanzi diremo.
La riverenza del vescovo di Roma in Sicilia s'accrebbe necessariamente a
misura che quel s'inalzava alla supremazia ecclesiastica in Occidente, e
che i conquisti dei Barbari lo rendevano protettore di tutto il clero
occidentale. E la Chiesa Siciliana seguì senza contrasto tutte le
dottrine e riti di Roma: fu provincia quieta ancorchè non ignorante;
ausiliare fedele della metropoli, ancorchè non vi sia nato alcuno
scrittore di primo ordine nè ortodosso nè eretico. Il clero non par sia
stato irreprensibile; del resto non numeroso nè turbolento: pochi al
certo i monaci, di regola forse basiliana; e vi si aggiunse una colonia
di Benedittini a Messina, se pur v'ha questo di vero in una leggenda che
ci occorrerà di esaminare nel quarto capitolo di questo libro.[122]
Ma un altro vincolo fortissimo avvinse la Sicilia al papato in quei
bassi tempi; e fu la proprietà territoriale, avanzo dei vasti patrimonii
acquistati dai cittadini romani tra con le arti di Marcello e di Verre,
o raggranellati ora per gli sforzi d'onesta industria, or con l'usura.
Non prima fu lecito alle chiese di possedere beni, che lo zelo dei nuovi
convertiti, l'artifizio del clero datosi ad avviluppare le coscienze in
una rete inestricabile di peccata, il baratto dei perdoni, l'assiduità
al letto di morte sopra animi stemprati dalla infermità agitati da tante
paure, la confusione delle opere di pietà con le opere di carità, la
eloquenza e dottrina fatte retaggio esclusivo del sacerdozio; tutti
questi potenti motivi, moltiplicarono le donazioni e i lasciti pii: e
più dopo la occupazione dei Barbari, quando i beni mondani de' vinti
divennero sì precarii e sì rinvilirono. Così furono largheggiati alle
chiese italiane vasti tratti di terreno in Sicilia, che nel linguaggio
dei tempi si chiamavano fondi o masse. La Chiesa di Milano nel sesto
secolo possedea nell'isola un patrimonio di questa fatta;[123] un altro
n'ebbe la Chiesa di Ravenna;[124] ed uno di gran lunga più dovizioso la
Chiesa di Roma, che d'altronde tenea tanti altri poderi in tutta Italia
e fuori. Al dir di papa Adriano I, il patrimonio di Sicilia proveniva da
donazioni non meno d'imperatori che di privati. Vaste erano le
possessioni e sì sparse in tutta l'isola, principalmente presso
Siracusa, Catania, Milazzo, Palermo, Girgenti, che talvolta i vescovi di
Roma preposero all'amministrazione due rettori che sedeano a Siracusa e
a Palermo, come al tempo antico i questori nelle due province,
siracusana e lilibetana. Del rimanente un autore bizantino della fine
dell'ottavo secolo fa montare il ritratto in Sicilia e in Calabria a tre
talenti e mezzo d'oro,[125] classica e incerta cifra statistica. I
poderi, come ogni altro dell'isola, si coltivavano da conduttori e
rustici, delle quali condizioni di persone tratteremo a suo luogo;
notando sol qui che la Chiesa Romana riscuoteva una tassa nei matrimonii
dei suoi rustici: strano transatto tra l'antica ragione che avea negato
il nome di matrimonio ai congiugnimenti degli schiavi, e la nuova fede
che costituivali in sacramento. Molte altre orribili avanie anco
pativano i conduttori e rustici della Chiesa; avanie forse comuni a
tutta la popolazione rurale della Sicilia, e per lo più aggravate dalla
negligente amministrazione di mano morta, com'oggi ben si chiama.[126]
Così fatti abusi furono mitigati da San Gregorio al tempo di cui
dicevamo in su la fine del capitolo precedente, ed al quale convien che
torni la narrazione.
La chiesa di Roma non si potea sottomettere di queto ai Longobardi,
flagello della gente latina, e, oltre a ciò, incapaci ad occupare tutta
la Penisola com'avean fatto i Goti. Donde, invece di piaggiare i nuovi
Barbari, dovea la Chiesa far opera a scacciarli con le armi che fosse in
poter suo di muovere, le bizantine cioè e le italiane; dovea rinforzare
le bizantine con la riputazione sua in Italia e fuori. Sopratutto, non
bastando l'impero a difendere Roma minacciata dai Longobardi e dalla
fame, dovea la Chiesa salvar dassè sola la città eterna, le cui
tradizioni politiche e religiose faceano aspirare il vescovo al primato
in Italia e in tutta cristianità.
Così fatto intento, consigliato al paro dalle passioni e dagli
interessi, ma debolmente procacciato dai papi nei primi venti anni del
conquisto longobardo, par che infiammasse l'animo di San Gregorio. Uomo
di illustre sangue, grande avere, illibati costumi, indole gentile
inchinata alla mestizia, dotta a mo' dei tempi ancorchè nemico della
letteratura classica che gli puzzava di paganesimo, facile scrittore
ancorchè inelegante, pronto parlatore, posato e robusto ingegno,
perseverante, saldo nei proponimenti, pieghevole nei mezzi, operoso,
insinuante, sottile ricercatore dei fatti altrui, buon massaio dei
denari ma non per sè stesso, caritatevole e liberale con accorgimento
anzi con astuzia, destro a usare le altrui debolezze e fino gli altrui
vizii, ma a buon fine; e pieno il generoso petto di giustizia, di
umanità, di religione e di zelo per la Chiesa di Roma: i quali
sentimenti diversi gli pareano un solo; sì che in ultimo lo zelo
ecclesiastico predominò e soffocò tutti gli altri quando gli si
opponeano. Gregorio, primo del nome tra i papi, santo nel calendario
romano e grande nella storia, fu specchio di virtù cristiana con quelle
macchie di ruggine connaturali per la umana debolezza a tal virtù, le
quali crescendo in certi tempi e in certi luoghi hanno occupato e guasto
tutto il terso metallo; e n'è nata la bruttura che si chiama volgarmente
gesuitismo. Gregorio, pria che il pontificato lo abilitasse a mandar ad
effetto il disegno politico che accennai, disperando della vittoria,
volle apparecchiare, com'e' parmi, un sicuro asilo alla Chiesa ortodossa
di Roma e d'Italia. La virtù delle armate bizantine e il genio dei
Longobardi, alieno sempre dalle cose del mare, gli designarono a ciò la
Sicilia.
Donde, lasciato appena l'uficio municipale di prefetto per cercare più
certa via di potenza in un chiostro di Roma (a. 575), Gregorio fondava
del proprio sette monasteri: uno in quella città e sei in Sicilia. Tal
disuguaglianza di liberalità non può apporsi a capriccio. Sendo Gregorio
nato a Roma, di famiglia romana e amorosissimo dei concittadini suoi che
viveano in necessità e angustie spaventevoli, si è cercato di spiegare
il fatto in varii modi. Altri ha imaginato ch'ei possedesse beni
nell'isola, il che non pare, nè basterebbe. Altri che Silvia sua madre
fosse siciliana,[127] il quale supposto è gratuito al par che
insufficiente a sciogliere l'enimma. A me pare che il bandolo si trovi
negli scritti di San Gregorio stesso. Non prima esaltato al pontificato,
lo veggiamo provvedere con estrema sollecitudine che si raccogliessero a
Messina i frati calabresi testè cacciati in Sicilia da un novello romore
d'armi longobarde; i quali andavano per l'isola miseri e vagabondi.[128]
Ora ognun sa che più numero assai di Italiani s'era rifuggito in Sicilia
parecchi anni innanzi (a. 576), quando i Longobardi corsero le province
di mezzo della Penisola; nel quale scompiglio i chierici recaron
secoloro gli arredi delle chiese che poi non voleano rendere:[129] e non
è mestieri di citazioni per provare quanta povertà straziasse tutti
quegli esuli. Però San Gregorio non potea largire le proprie facultà in
opera più caritatevole, nè più utile all'Italia e a Roma stessa, che di
aprir loro un ospizio. Quella mente, in quella età, non poteva imaginare
altro ospizio che il monastero. I sei che ne fondò bastavano a
ricettare, se non tutti gli esuli, almeno i più degni e capaci a
disciplinare e agguerrire questo nodo di frati che combattessero su i
dubbii confini della religione e della politica; tenessero in Sicilia
una propaganda romana contro la sede di Costantinopoli, la quale attraea
le popolazioni di linguaggio greco; apparecchiassero séguito alla Chiesa
di Roma, venendo alla dura estremità di riparare in Sicilia cacciata dai
Barbari; e potessero in fine, secondo gli eventi, ripassare in
terraferma a gridar la croce contro gli Ariani. San Gregorio mentr'era
privato, com'ei pare, coltivò a questo medesimo intento l'amistà di
ragguardevoli famiglie siciliane.[130]
E quand'egli, sforzato o forse secondato dallo amor dei Romani, salì
alla cattedra di San Pietro, il disegno su la Sicilia si allargò, come
tutti gli altri della sua mente. Non è del mio subietto discorrere di
quanto momento fosse stato questo gran Romano sul secol suo con le
azioni e con gli scritti; nè ricorderò la conversione di popoli lontani;
la riverenza e terrore della religione aumentati; l'autorità civile
arrogatasi tra per la influenza che gli usi dei tempi davano ai vescovi
e per la lontananza e impotenza dell'impero bizantino; il nome della
sede romana esaltato; le arti assiduamente adoperate a ciò or con animo
sincero, or con malizia: la morale, cioè, la filosofia, la teologia, la
disciplina e ambito del clero, la solenne liturgia, il grave canto, le
leggende superstiziose; senza lasciare intentato veruno argomento che
potesse scuotere l'intelletto, cattivare l'animo, illudere i sensi.
L'effetto generale del pontificato di San Gregorio fu che, aspirando al
primato spirituale, ei si accostò necessariamente alla dominazione
temporale; dove più dove meno secondo gli ostacoli. Così a Roma e
nell'Italia di mezzo il patrocinio suo con l'andare dei tempi divenne
principato. Così in Sicilia l'influenza ch'ei volle esercitare ebbe men
libero campo, e nondimeno lasciò tante vestigia che i papi, molti secoli
appresso, con quella loro prodigiosa tenacità, si provarono a mutarla
anche in signoria. L'influenza di San Gregorio in Sicilia passò al certo
la più larga misura che potesse darsi al primato ecclesiastico, e si
volse a due particolari intendimenti. Un fu lo antico, rincalzato ed
esteso, cioè di render la Sicilia cittadella del clero italiano, nella
quale il papa fosse padrone degli animi, poichè i corpi li tenea
l'impero bizantino. L'altro intendimento sembra di cattar favore, perchè
l'amministrazione del patrimonio papale, secondata dai governanti, dagli
ottimati e dall'universale, rendesse maggior frutto, da sovvenirne
largamente il popol di Roma, chè meglio si difendesse dai Longobardi e
sempre più s'affezionasse ai papi.
Quanto premessero a Gregorio le cose di Sicilia si scorge dalla prima
epistola che ci rimane di lui per la quale provvide a far adunare ogni
anno i vescovi dell'isola a Siracusa o Catania.[131] Seguiron da presso
un'altra ad amici suoi siciliani,[132] una che confortava i vescovi
siciliani a mescolarsi nelle cause secolari per difendere i poveri,[133]
e una che dettò profonde e diligenti riforme nell'amministrazione del
patrimonio.[134] Noveransi inoltre più di dugento lettere toccanti la
Sicilia, donde appariscono a chiunque i disegni suoi, e la coscienza più
dell'umanità che gli lampeggiavano alla mente, e con risguardare ormai
il genere umano come unica famiglia, e il popol romano come capo di
quella.[110] Dopo la morte di Diodoro seguirono le ultime guerre civili
dei dominatori, che fecero campo di battaglia la Sicilia (a. 43-35 av.
l'e. v.), e sì la straziarono, che consunta com'essa era dalle cause
economiche e morali, non potè risorgere; le antiche e nuove piaghe
scoprironsi di un subito. La popolazione delle cittadi scemò
orribilmente; moltissime rimasero vôte d'abitatori; abbandonata gran
parte dei colti: la terra di Cerere, sì cupidamente presa dai Romani, si
era sfruttata nelle mani loro.[111]
Chi abbia mai percorso le splendide memorie della Sicilia greca, o
soltanto abbia notato gli avanzi di quella prosperità nelle orazioni di
Cicerone contro Verre (a. 70 av. l'e. v.) crederà a stento lo squallore
che ingombrò il paese verso il principio dell'era volgare. Pur ne son
prova i provvedimenti di Augusto, necessitato ad ovviare alla rovina di
parecchie città, e l'espresso attestato di Strabone, uom greco,
contemporaneo, sciente delle cose di Sicilia, non sospetto di esagerarne
le calamità per calor poetico dell'animo. Cominciando dal lato di
levante Strabone trovava sol quattro città: Messina, Taormina, Catania,
Siracusa; notando che le ultime due fossero state di recente ristorate
da Augusto, e Siracusa ristretta a minore spazio presso la penisola
d'Ortigia, in vece dello antico giro di centottanta stadii, troppo ormai
agli abitatori.[112] Su la costiera meridionale, continua il geografo,
v'ha Agrigento e Lilibeo e il rimanente delle città al tutto rovinate e
deserte; nè la settentrionale abbonda di popolazione, ancorchè la si
estenda più che le altre due, e vi si veggano Alesa, Tindaro, Cefalù,
Palermo colonia romana, e lo Emporio Segestano. Delle città dentro terra
ei va nominando Etna, Centorbi ristorata altresì da Augusto, Erice col
magnifico tempio scarso ormai di sacerdoti, Enna designata sol come
fortezza, Lentini che andava a male; e le altre abbandonate tutte e date
ad abitare a pastori. Spaventevole ragguaglio confermato coi nomi delle
principali città distrutte, e col dire della grande fertilità del suolo,
ma che i prodotti di quello, grani, miele, zafferano, bestiame, pelli,
lane, tutto portavasi a Roma, fuorchè quel poco, son le parole di
Strabone, che si consuma nell'isola. A compiere il quadro egli accenna
alle antiche guerre servili che più o meno ripullulavano, e che ai suoi
tempi un Seleuro che si dicea figlio dell'Etna, avesse levato eserciti e
tenuto una parte del paese, ma poi vinto e condotto a Roma, aggiugne
romaneggiando il geografo greco, ognun l'ha veduto nel circo, esposto in
cima a un gran catafalco in figura dell'Etna, il quale aprendosi,
com'era congegnato, lasciò cadere il ribelle nelle gabbie delle
fiere.[113]
Ma la rivoluzione che oppresse la libertà di Roma, temperò anco i
soprusi dell'aristocrazia romana nelle province; tendendo il principato
a ragguagliar nella comune obbedienza tutte le classi dei cittadini, e
tutte le parti del territorio. Per questo mutato ordine di cose, la
Sicilia, come alcuni altri paesi, respirò alquanto; anche mercè i pronti
e materiali soccorsi di Augusto ricordati di sopra; limosina la quale
dovea accorare i Siciliani più che confortarli, e continuò, per maggior
onta, sotto Tiberio e Caligola, da cui fu riedificato alcun monumento
dell'isola. Succeduta poi una serie di buoni principi, che fecero
dimenticare, con unico esempio nella storia, i vizii del potere
assoluto, la Sicilia convalescente arrivò a partecipare di quella
prospera mediocrità universale dell'impero romano: parecchi villaggi
ingrossati presero il luogo delle città ch'erano distrutte ai tempi di
Strabone, e alcuna di queste risorse, o così potè dirsi, perchè un pugno
di gente tornava ad abitar tra le rovine. Provan ciò le opere di Plinio
e di Tolomeo, e l'Itinerario d'incerta epoca che porta il nome di
Antonino: scritti che tornano a un dipresso alla prima metà del secondo
secolo. E in vero l'Itinerario accenna novelle stazioni di posta
istituite recentemente, e i due geografi, con poco divario l'uno
dall'altro, danno una lista di città il cui numero è quadruplo di quel
di Strabone e metà di quel che si rinviene appo Stefano Bizantino,
erudito di tempi più bassi, che spigolò negli antichi scritti dei
Greci.[114] Le quali cifre ancorchè vadan prese ad arcata per la poca
esattezza di coteste compilazioni, pur vi si raffigura il precipizio
della Sicilia negli ultimi tre secoli che precedettero l'era volgare, e
lo scarso ristoro nei primi due secoli che la seguirono.
Scarso ristoro e non durevole; perchè indi cominciò la decadenza
universale dell'impero; perchè l'Italia si trovò peggio che le altre
province per lo flagello dei latifondi e degli schiavi di che eran
pieni; e perchè la Sicilia, divenuta del tutto italiana, fu afflitta più
che la Penisola, per essere caduta una parte maggiore delle sue terre
nelle mani dell'aristocrazia di Roma. A tal disordine sociale non
bastavano a riparare nè la prudenza di Augusto, nè la benevolenza degli
Antonini, nè l'equa amministrazione della giustizia, nè la bene ordinata
azienda. Pertanto riapparvero gli antichi sintomi nel terzo secolo; e
tra quell'universale scompiglio, che suol chiamarsi l'epoca dei trenta
tiranni, divampò nell'isola una novella guerra servile[115] (a. 259).
Spenti altrove i piccioli tiranni, posata la commozione sociale
dell'isola, continuò in tutta Italia l'abbandono dell'agricoltura,
continuò lo spopolamento, non ultima cagione delle invasioni dei
Barbari. Diocleziano prolungò alquanto la vita dell'impero. Poi la sede
passò a Costantinopoli (a. 330); ripassò in Italia alla divisione (a.
395) nella quale la Sicilia appartenne all'impero d'Occidente: ma che
potea ormai nuocere o giovare un mero mutamento di forme amministrative
alla provincia arsa ed annichilita?
Delle incursioni dei Barbari settentrionali avrò poco da dire.
Comparvero la prima fiata in Sicilia quando appena potean temersi ai
confini estremi dell'impero. Sotto il regno di Probo, una mano di
Franchi, vinti nelle Gallie e trasportati in riva al Mar Nero,
trovandovi un'armatetta romana, se ne impadroniano con disegno di
tornarsene in Ponente; e nell'arrisicato lor corso dal Bosforo allo
stretto di Gibilterra, per necessità e vendetta, saccheggiavano molti
luoghi delle costiere, e, tra gli altri, piombati sopra Siracusa, le
dettero il guasto, vi fecero una carnificina, e salvi si ridussero
finalmente alle Bocche del Reno[116] (a. 278).
Dopo quel turbine passeggiero, consumata la rovina dell'impero
occidentale, Alarico, come ognun sa, morì a Cosenza quand'era in punto
di assaltare la Sicilia (a. 410); ma Genserico osteggiò Palermo, prese
Lilibeo (a. 440), e, sconfitti i suoi Vandali da Ricimero presso
Girgenti (a. 456), dopo avere più tosto depredato che occupato l'isola,
cedettela per trattato ad Odoacre (a. 476), ritenendo solo il Lilibeo
come vedetta da custodire il suo novello reame di Affrica. Odoacre poi
regnò su la Sicilia per quattordici anni; del quale ci resta il
documento d'una concessione di terre presso Siracusa,[117] e prova
com'ei prendesse nell'isola quella che si chiamò la parte dei Barbari.
Del resto gli Eruli non passaronvi mai; forse non vi mandarono che
qualche picciol presidio: a tale debolezza era condotta la Sicilia! Così
ancora, vinto Odoacre dagli Ostrogoti, la si diè quetamente a Teodorico;
a persuasione di Cassiodoro, ed a condizione che le città e i campi
fossero salvi dalla licenza dei vincitori, dei quali sol venisse
nell'isola quel tanto che bastava a munir le fortezze principali.
Teodorico, resse l'isola assai più umanamente che i suoi predecessori
barbari e non barbari; ma non potè far che si dimenticasse l'origine
sua, nè l'eresia ariana ond'era infetto: sì che un semplice romito di
Lipari, alla morte del re affermò averlo veduto strascinare all'isoletta
di Vulcano, scinto, scalzo, con le mani legate al dorso, ghermito dalle
ombre invendicate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco, che il
precipitarono nel cratere ardente.[118]
Tal nimistà nazionale e religiosa, comune a tutta l'Italia, fe' cadere
il regno dei Goti, non guari dopo la morte di Teodorico, e spianò la
strada alla dominazione bizantina, che parea meno straniera e che fu
portata da Belisario, capitano degno al certo dei tempi più gloriosi di
Roma. Dopo l'Affrica, e prima della terraferma d'Italia, Belisario
conquistò la Sicilia entro poche settimane, con diecimila uomini al più,
per la connivenza degli abitatori: ebbe Catania per un colpo di mano;
Siracusa e altre città a patti; Palermo sola per ostinata battaglia; e
tornato a Siracusa, capitale dell'isola, entrovvi in trionfo (a. 535),
spargendo monete d'oro su la plebe, che potea credere in vero ristorato
l'onor di sua nazione, sentendo parlar greco e latino tra i vincitori.
La breve guerra di Totila (a. 549-551 ) fu l'ultima incursione dei
Barbari settentrionali in Sicilia; i quali non l'avevan tenuto più che
ottant'anni; non vi avean posto colonie militari, non vi lasciarono nè
progenie, nè istituzioni, nè alcun vestigio. Indi il governo bizantino
quetamente ricominciò nell'isola tutti gli abusi del romano, del quale
riteneva il nome e le forme; e per un secolo intero che corse dal
conquisto di Belisario al regno di Costanzo, la storia di Sicilia non ha
altro fatto notabile, che la mutata natura dei legami tra l'isola e la
terraferma d'Italia.
La popolazione siciliana per otto secoli avea tenuto tal consuetudine
con quella dell'Italia centrale, qual se l'isola si fosse venuta a porre
alle foci del Tevere: tanta era la frequenza dei negozii attenenti al
governo, ai commercii, e un tempo agli studii liberali, poi alla
religione; sempre e più che ogni altra cosa alla cultura delle terre. Le
irruzioni degli stranieri infino a Totila nulla mutarono a questo ordine
di cose; avendo l'isola con rurale docilità seguíto le sorti della
terraferma, nella quale tutti i vincitori vennero a stanziare. Ma nel
sesto secolo, il conquisto bizantino e il longobardo, accaduti con sì
breve intervallo, scomposero que' legami. Il primo trasferì a
Costantinopoli i negozii dipendenti dal governo, ch'erano molti, e
importantissima tra quelli l'amministrazione dei poderi della Corona. Il
secondo (a. 568-575) divise l'Italia in due parti, una dei vincitori,
l'altra dell'impero bizantino; la quale si componea delle isole e di
brani in terraferma frastagliati a caso come da tremuoto: la punta cioè
della Penisola; alcune strisce di costiera qua e là sovr'ambo i mari;
nel centro, Roma con varii pezzi di territorio infino all'Adriatico. Or
la parte soggiogata dai nuovi Barbari si trovò naturalmente in guerra
col governo bizantino; e più grave effetto era su l'animo d'ogni uom
romano il terrore di quegli atrocissimi principii della dominazione
longobarda; il macello dei maggiori cittadini, lo spogliamento delle
facultà, la profanazione delle chiese, le persecuzioni e sovente il
martirio degli ortodossi per man di quegli eretici ariani e dei loro
ausiliari idolatri; gli ordini civili distrutti; gli abitatori degradati
da ingiuriose leggi; la più parte fatti servi o poco manco. Pertanto
ogni comunicazione si chiuse tra la Sicilia e le misere regioni stanza e
preda dei Barbari. Al contrario mutaronsi poco o nulla i rapporti
materiali della Sicilia coi paesi rimasti al nome bizantino, e i morali
si strinsero ed accrebbero. E ciò intervenne per cagion dei molti
Italiani che si rifuggivano nelle isole; per la fratellanza che spirava
la comune oppressione di tutte le province occidentali dell'impero; e
sopratutto per procaccio dei papi, che ormai aveano acquistato
grandissimo séguito in Sicilia.
CAPITOLO II.
A creder le pie leggende locali, il cristianesimo ebbe precoci e
splendidi principii in Sicilia. San Pietro, dicono, s'affrettò a
mandarvi d'Antiochia (a. 44) i primi vescovi: Marciano a Siracusa,
Pancrazio a Taormina. Vennero pochi anni appresso, Berillo a Catania,
Libertino a Girgenti, Filippo a Palermo, Bacchilo a Messina. I quali
tutti perseguitati e persecutori, abbattono tempii pagani, rintuzzano
oracoli, uccidono dragoni; Marciano, ascoso nei laberinti sotterranei
della capitale, vi compone un altare con l'effigie della Vergine ed è
strangolato da' Giudei; Maria e Teja incontrano alsì il martirio a
Taormina per serbar castità; e presso lor tombe s'innalza il primo
monistero di donne dell'orbe cristiano. Cotesti racconti, ancorchè
accettati alla rinfusa nei libri della corte di Roma, furono messi in
forse pei principii del decimottavo secolo, da due grandi eruditi
siciliani, Giambattista Caruso e Giovanni di Giovanni.[119] Agli
argomenti loro parmi da aggiugnere, che gli Atti degli Apostoli,
narrando sì minutamente il viaggio di San Paolo a Roma (a. 61 ) e
com'egli fosse soprastato per tre dì a Siracusa,[120] non fan parola,
secondo lor costume, di correligionarii o amici trovati in quella città;
donde al certo non si confermano i fasti di San Marciano. Volgendoci a
un altro ordine di critica, basta accennare che le tradizioni dette
ripugnino ai fatti generali della storia ecclesiastica del primo secolo;
che ci si vegga la gerarchia, non del primo ma del quinto o sesto
secolo; anche passando sotto silenzio quel monastero di suore e culto
d'immagini. La ignoranza poi di chi scrisse le leggende chiaro apparisce
dalla poca o niuna parte che vi si dà a San Paolo, massimo propagator
del vangelo nelle schiatte greca e latina.
Egli è probabile che non dall'Oriente ma da Roma venissero in Sicilia i
semi del cristianesimo; nè pria delle persecuzioni di Nerone. Del
rimanente si può accettare dalle leggende l'itinerario della nuova fede
nell'isola, correggendovi sì la cronologia e gli episodii; perchè quel
cammino non discorda dalle condizioni dei Siciliani nel primo secolo, e
perchè d'altronde si sa come le agiografie contengan sempre, tra molta
lega, un po' di buon metallo, e rispettino sopra ogni altra cosa la
verità delle notizie geografiche. Il cristianesimo fu, in origine,
l'incivilimento degli oppressi; ma non tutti gli oppressi n'erano capaci
allo stesso modo. Dovea precorrere alla grossiera fede del volgo lo zelo
di spiriti convinti o innamorati: e però in Sicilia quelle speculazioni
metafisiche, quei peregrini principii di morale, quella tendenza
d'associazione e di carità, non poteano esser compresi che nelle città;
dovean trovare accoglienza tra i sottili ingegni greci, prima che nella
gente latina più tenace alle realità; doveano durare grandissima fatica
a penetrar quella mista e insalvatichita popolazione rurale. I pochi
cristiani dell'isola, non vinta per anco la forza d'inerzia delle masse,
ebbero a combattere le forze vive del principato, dell'aristocrazia e
dei dotti; le quali, vedendosi ormai minacciate dalla nuova potenza che
sorgea nel mondo, fecero ogni opera ad abbatterla. Indi per gran tratto
del terzo secolo e nei primi anni del quarto, scorreva in Sicilia il
sangue dei martiri. Si illustravano allora i nomi, rimasti sì popolari,
di Agata, Lucia, Ninfa, Euplio e molti altri; Lentini, culla un tempo
della rettorica greca, si rendea celebre per la eroica costanza e numero
dei cristiani. Nel medesimo tempo altri discendenti de' Sicelioti si
fortificavano nel culto nazionale di Cerere o di Venere Ericina, con gli
argomenti di Porfirio, capitato nell'isola per osservare l'Etna e
fattovisi a scrivere (verso il 270) un trattato a difesa del paganesimo.
Il filosofo Probo da Lilibeo, che visse in quella età, e i molti
discepoli ch'ebbe Porfirio nel suo lungo soggiorno in Sicilia,
combatterono insieme con lui questa guerra neoplatonica contro il
cristianesimo: e i sofismi loro tornarono vani al par che i supplizii a
fronte del principio morale dei novatori. Posate le persecuzioni;
succeduto alla tolleranza il favore del governo, e al favore uno
impetuoso zelo, la più parte dell'isola confessava la fede di Cristo. I
sanguinarii editti di Teodosio poi accrebbero per forza il numero dei
proseliti; fecero chiudere gli ultimi tempii pagani; e pur non bastarono
a sradicare le antiche superstizioni della popolazione rurale. Infino
agli ultimi anni del sesto secolo, che appena si crederebbe, se ne
scoprono le vestigia in Sicilia, come in Sardegna; poichè le epistole di
San Gregorio fan parola di idolatri che il vescovo di Tindaro durasse
fatica a convertire, e di schiavi pagani, comperati dai Giudei di
Catania per iniziarli a lor setta.[121]
Insieme con la Chiesa Siciliana già adulta, emerse, ai tempi di
Costantino, la gerarchia. Ebbe al certo origine popolare in Sicilia come
per ogni luogo; ebbe stretto legame con la gerarchia di Roma per la
consuetudine che passava tra i due paesi: legame di fraternità sotto la
persecuzione, poi di riverenza, infine di soggezione, quando l'ordine
ecclesiastico s'informò dall'ordine amministrativo dell'impero. Pertanto
fin dai principii del quinto secolo veggiamo chiaramente il vescovo di
Roma far da metropolitano nell'isola; consecrare i vescovi di quella;
scrivere loro direttamente per gli affari di disciplina; chiamarli a
sinodo a Roma; dar licenza per la dedicazione delle basiliche; delegare
or uno or un altro all'esercizio di sua giurisdizione nelle cause
ecclesiastiche; provvedere alla visitazione delle chiese: il quale
ordinamento non fu mutato che nell'ottavo secolo, come innanzi diremo.
La riverenza del vescovo di Roma in Sicilia s'accrebbe necessariamente a
misura che quel s'inalzava alla supremazia ecclesiastica in Occidente, e
che i conquisti dei Barbari lo rendevano protettore di tutto il clero
occidentale. E la Chiesa Siciliana seguì senza contrasto tutte le
dottrine e riti di Roma: fu provincia quieta ancorchè non ignorante;
ausiliare fedele della metropoli, ancorchè non vi sia nato alcuno
scrittore di primo ordine nè ortodosso nè eretico. Il clero non par sia
stato irreprensibile; del resto non numeroso nè turbolento: pochi al
certo i monaci, di regola forse basiliana; e vi si aggiunse una colonia
di Benedittini a Messina, se pur v'ha questo di vero in una leggenda che
ci occorrerà di esaminare nel quarto capitolo di questo libro.[122]
Ma un altro vincolo fortissimo avvinse la Sicilia al papato in quei
bassi tempi; e fu la proprietà territoriale, avanzo dei vasti patrimonii
acquistati dai cittadini romani tra con le arti di Marcello e di Verre,
o raggranellati ora per gli sforzi d'onesta industria, or con l'usura.
Non prima fu lecito alle chiese di possedere beni, che lo zelo dei nuovi
convertiti, l'artifizio del clero datosi ad avviluppare le coscienze in
una rete inestricabile di peccata, il baratto dei perdoni, l'assiduità
al letto di morte sopra animi stemprati dalla infermità agitati da tante
paure, la confusione delle opere di pietà con le opere di carità, la
eloquenza e dottrina fatte retaggio esclusivo del sacerdozio; tutti
questi potenti motivi, moltiplicarono le donazioni e i lasciti pii: e
più dopo la occupazione dei Barbari, quando i beni mondani de' vinti
divennero sì precarii e sì rinvilirono. Così furono largheggiati alle
chiese italiane vasti tratti di terreno in Sicilia, che nel linguaggio
dei tempi si chiamavano fondi o masse. La Chiesa di Milano nel sesto
secolo possedea nell'isola un patrimonio di questa fatta;[123] un altro
n'ebbe la Chiesa di Ravenna;[124] ed uno di gran lunga più dovizioso la
Chiesa di Roma, che d'altronde tenea tanti altri poderi in tutta Italia
e fuori. Al dir di papa Adriano I, il patrimonio di Sicilia proveniva da
donazioni non meno d'imperatori che di privati. Vaste erano le
possessioni e sì sparse in tutta l'isola, principalmente presso
Siracusa, Catania, Milazzo, Palermo, Girgenti, che talvolta i vescovi di
Roma preposero all'amministrazione due rettori che sedeano a Siracusa e
a Palermo, come al tempo antico i questori nelle due province,
siracusana e lilibetana. Del rimanente un autore bizantino della fine
dell'ottavo secolo fa montare il ritratto in Sicilia e in Calabria a tre
talenti e mezzo d'oro,[125] classica e incerta cifra statistica. I
poderi, come ogni altro dell'isola, si coltivavano da conduttori e
rustici, delle quali condizioni di persone tratteremo a suo luogo;
notando sol qui che la Chiesa Romana riscuoteva una tassa nei matrimonii
dei suoi rustici: strano transatto tra l'antica ragione che avea negato
il nome di matrimonio ai congiugnimenti degli schiavi, e la nuova fede
che costituivali in sacramento. Molte altre orribili avanie anco
pativano i conduttori e rustici della Chiesa; avanie forse comuni a
tutta la popolazione rurale della Sicilia, e per lo più aggravate dalla
negligente amministrazione di mano morta, com'oggi ben si chiama.[126]
Così fatti abusi furono mitigati da San Gregorio al tempo di cui
dicevamo in su la fine del capitolo precedente, ed al quale convien che
torni la narrazione.
La chiesa di Roma non si potea sottomettere di queto ai Longobardi,
flagello della gente latina, e, oltre a ciò, incapaci ad occupare tutta
la Penisola com'avean fatto i Goti. Donde, invece di piaggiare i nuovi
Barbari, dovea la Chiesa far opera a scacciarli con le armi che fosse in
poter suo di muovere, le bizantine cioè e le italiane; dovea rinforzare
le bizantine con la riputazione sua in Italia e fuori. Sopratutto, non
bastando l'impero a difendere Roma minacciata dai Longobardi e dalla
fame, dovea la Chiesa salvar dassè sola la città eterna, le cui
tradizioni politiche e religiose faceano aspirare il vescovo al primato
in Italia e in tutta cristianità.
Così fatto intento, consigliato al paro dalle passioni e dagli
interessi, ma debolmente procacciato dai papi nei primi venti anni del
conquisto longobardo, par che infiammasse l'animo di San Gregorio. Uomo
di illustre sangue, grande avere, illibati costumi, indole gentile
inchinata alla mestizia, dotta a mo' dei tempi ancorchè nemico della
letteratura classica che gli puzzava di paganesimo, facile scrittore
ancorchè inelegante, pronto parlatore, posato e robusto ingegno,
perseverante, saldo nei proponimenti, pieghevole nei mezzi, operoso,
insinuante, sottile ricercatore dei fatti altrui, buon massaio dei
denari ma non per sè stesso, caritatevole e liberale con accorgimento
anzi con astuzia, destro a usare le altrui debolezze e fino gli altrui
vizii, ma a buon fine; e pieno il generoso petto di giustizia, di
umanità, di religione e di zelo per la Chiesa di Roma: i quali
sentimenti diversi gli pareano un solo; sì che in ultimo lo zelo
ecclesiastico predominò e soffocò tutti gli altri quando gli si
opponeano. Gregorio, primo del nome tra i papi, santo nel calendario
romano e grande nella storia, fu specchio di virtù cristiana con quelle
macchie di ruggine connaturali per la umana debolezza a tal virtù, le
quali crescendo in certi tempi e in certi luoghi hanno occupato e guasto
tutto il terso metallo; e n'è nata la bruttura che si chiama volgarmente
gesuitismo. Gregorio, pria che il pontificato lo abilitasse a mandar ad
effetto il disegno politico che accennai, disperando della vittoria,
volle apparecchiare, com'e' parmi, un sicuro asilo alla Chiesa ortodossa
di Roma e d'Italia. La virtù delle armate bizantine e il genio dei
Longobardi, alieno sempre dalle cose del mare, gli designarono a ciò la
Sicilia.
Donde, lasciato appena l'uficio municipale di prefetto per cercare più
certa via di potenza in un chiostro di Roma (a. 575), Gregorio fondava
del proprio sette monasteri: uno in quella città e sei in Sicilia. Tal
disuguaglianza di liberalità non può apporsi a capriccio. Sendo Gregorio
nato a Roma, di famiglia romana e amorosissimo dei concittadini suoi che
viveano in necessità e angustie spaventevoli, si è cercato di spiegare
il fatto in varii modi. Altri ha imaginato ch'ei possedesse beni
nell'isola, il che non pare, nè basterebbe. Altri che Silvia sua madre
fosse siciliana,[127] il quale supposto è gratuito al par che
insufficiente a sciogliere l'enimma. A me pare che il bandolo si trovi
negli scritti di San Gregorio stesso. Non prima esaltato al pontificato,
lo veggiamo provvedere con estrema sollecitudine che si raccogliessero a
Messina i frati calabresi testè cacciati in Sicilia da un novello romore
d'armi longobarde; i quali andavano per l'isola miseri e vagabondi.[128]
Ora ognun sa che più numero assai di Italiani s'era rifuggito in Sicilia
parecchi anni innanzi (a. 576), quando i Longobardi corsero le province
di mezzo della Penisola; nel quale scompiglio i chierici recaron
secoloro gli arredi delle chiese che poi non voleano rendere:[129] e non
è mestieri di citazioni per provare quanta povertà straziasse tutti
quegli esuli. Però San Gregorio non potea largire le proprie facultà in
opera più caritatevole, nè più utile all'Italia e a Roma stessa, che di
aprir loro un ospizio. Quella mente, in quella età, non poteva imaginare
altro ospizio che il monastero. I sei che ne fondò bastavano a
ricettare, se non tutti gli esuli, almeno i più degni e capaci a
disciplinare e agguerrire questo nodo di frati che combattessero su i
dubbii confini della religione e della politica; tenessero in Sicilia
una propaganda romana contro la sede di Costantinopoli, la quale attraea
le popolazioni di linguaggio greco; apparecchiassero séguito alla Chiesa
di Roma, venendo alla dura estremità di riparare in Sicilia cacciata dai
Barbari; e potessero in fine, secondo gli eventi, ripassare in
terraferma a gridar la croce contro gli Ariani. San Gregorio mentr'era
privato, com'ei pare, coltivò a questo medesimo intento l'amistà di
ragguardevoli famiglie siciliane.[130]
E quand'egli, sforzato o forse secondato dallo amor dei Romani, salì
alla cattedra di San Pietro, il disegno su la Sicilia si allargò, come
tutti gli altri della sua mente. Non è del mio subietto discorrere di
quanto momento fosse stato questo gran Romano sul secol suo con le
azioni e con gli scritti; nè ricorderò la conversione di popoli lontani;
la riverenza e terrore della religione aumentati; l'autorità civile
arrogatasi tra per la influenza che gli usi dei tempi davano ai vescovi
e per la lontananza e impotenza dell'impero bizantino; il nome della
sede romana esaltato; le arti assiduamente adoperate a ciò or con animo
sincero, or con malizia: la morale, cioè, la filosofia, la teologia, la
disciplina e ambito del clero, la solenne liturgia, il grave canto, le
leggende superstiziose; senza lasciare intentato veruno argomento che
potesse scuotere l'intelletto, cattivare l'animo, illudere i sensi.
L'effetto generale del pontificato di San Gregorio fu che, aspirando al
primato spirituale, ei si accostò necessariamente alla dominazione
temporale; dove più dove meno secondo gli ostacoli. Così a Roma e
nell'Italia di mezzo il patrocinio suo con l'andare dei tempi divenne
principato. Così in Sicilia l'influenza ch'ei volle esercitare ebbe men
libero campo, e nondimeno lasciò tante vestigia che i papi, molti secoli
appresso, con quella loro prodigiosa tenacità, si provarono a mutarla
anche in signoria. L'influenza di San Gregorio in Sicilia passò al certo
la più larga misura che potesse darsi al primato ecclesiastico, e si
volse a due particolari intendimenti. Un fu lo antico, rincalzato ed
esteso, cioè di render la Sicilia cittadella del clero italiano, nella
quale il papa fosse padrone degli animi, poichè i corpi li tenea
l'impero bizantino. L'altro intendimento sembra di cattar favore, perchè
l'amministrazione del patrimonio papale, secondata dai governanti, dagli
ottimati e dall'universale, rendesse maggior frutto, da sovvenirne
largamente il popol di Roma, chè meglio si difendesse dai Longobardi e
sempre più s'affezionasse ai papi.
Quanto premessero a Gregorio le cose di Sicilia si scorge dalla prima
epistola che ci rimane di lui per la quale provvide a far adunare ogni
anno i vescovi dell'isola a Siracusa o Catania.[131] Seguiron da presso
un'altra ad amici suoi siciliani,[132] una che confortava i vescovi
siciliani a mescolarsi nelle cause secolari per difendere i poveri,[133]
e una che dettò profonde e diligenti riforme nell'amministrazione del
patrimonio.[134] Noveransi inoltre più di dugento lettere toccanti la
Sicilia, donde appariscono a chiunque i disegni suoi, e la coscienza più
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