Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 22

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di cardinale. Qui noi troviamo le due sètte avvicinarsi per le
ambizioni poco sincere dei Ricci, i quali sè conoscevano essere da
meno. Piero e Uguccione insieme andarono a papa Urbano ambasciatori
in Viterbo; poi Rosso dei Ricci (fratello a Uguccione) fu scelto è
vero ad accompagnare come quasi Ghibellino l’Imperatrice, ma questo
Rosso troviamo bentosto capitano della lega stretta col Papa contro ai
Visconti, e in quella guerra cadde prigione. Dipoi Uguccione mandava
Guglielmo suo figliuolo in corte del Legato di Bologna, a cui miravano
già i sospetti dei Fiorentini dacchè era il Papa fatto possente nella
Romagna; dove ebbe provvisione, e un altro figliuolo benefizi della
Chiesa: Albizzi e Ricci pareano fatti una cosa, e Uguccione e Rosso
erano divenuti fieri all’ammonire: si rinnovò allora quella provvisione
del 59, la quale cassava le assoluzioni ed esenzioni date in addietro
ad uomini ghibellini.[292] La Repubblica era in balía dei Capitani
di parte guelfa; ad essi andavano le ambizioni. Tra gli altri Benghi,
dei Bondelmonti, possente uomo ed assai brigante, che era stato fatto
di popolo per servizi prestati in guerra alla Repubblica, si diede
agli uomini della parte guelfa per aver sofferta una ingiuria dai
magistrati, ed a quella parte vennero seco non pochi grandi.
Ma venne tosto un’altra legge a fermare la sovranità della Repubblica
nel magistrato di Parte guelfa, chiudendo ogni via a frenarne la
potenza o a temperarla per vie legali. Statuiva, niuna provvisione la
quale toccasse anche per incidenza ed in via accessoria le leggi e
statuti e i privilegi o le proprietà di quella Parte, potersi fare,
e fatte, essere _ipso jure_ irrite e nulle, senza che prima fosse
consultato il magistrato della Parte stessa, chiamando a tal fine in
palagio, Capitani e loro Consiglio; e fatto partito da questi, che
desse licenza ai Priori e al Gonfaloniere di dare alla deliberazione
corso, e farla passare per gli opportuni Consigli: a qualsiasi
contravventore pena di due mila fiorini d’oro, i quali andassero alla
Camera Apostolica, e più di essere _ipso facto_ dichiarato e tenuto per
Ghibellino, non bene Guelfo e sospetto, in perpetuo, senza speranza
di rivocazione, cancellazione o indulgenza.[293] L’anno dipoi, uno
dei Priori avendo voluto provvedere per riformagione che nessuna
ammonizione valesse quando non fosse approvata dai Signori e Collegi
del palagio, tutti gli furono addosso, chi per un rispetto e chi per un
altro, tantochè egli corse anche pericolo della testa. Richiesto il dì
che uscì dell’ufficio dai Capitani della parte, dovè comparire innanzi
a loro con la fune al collo, rendendosi in colpa di ciò che aveva
voluto fare; e nientedimeno fu ammonito per sospetto.[294] Alla sopra
riferita legge diede il nome Bartolo Siminetti chiamato Mastino; ma di
ogni cosa era principale autore Lapo da Castiglionchio, legista di nome
assai chiaro in quella età, del quale abbiamo una scrittura intesa a
mostrare sè essere nobile d’antico lignaggio, nè potersi quella nobiltà
di sangue giammai togliere per ascrizione fatta nell’ordine popolare.
Tali concetti stavano in fondo al pensiero di quegli uomini i quali
cercavano condurre lo Stato ad una forma aristocratica, siccome aveva
fatto Venezia e leggevano essi nelle istorie dell’antica Roma.[295]
Ma non volevano però essi, nè certo volevano i migliori cittadini,
porsi in sul collo due famiglie ambiziose e prepotenti, e a queste
vendere la Repubblica; ed a questo fine insieme convennero quei
medesimi che aveano fatta la legge, Simone Peruzzi, Giovanni Magalotti,
Lapo da Castiglionchio, Salvestro de’ Medici, che figurarono poi
diversamente nei moti successivi: con essi andavano altri molti dei
migliori cittadini. Ma perchè era pena capitale ragunarsi più di
dodici in luogo segreto, saputa la cosa, ne fu rumore; e convocato
un Consiglio di richiesti, in numero cinquecento, Filippo Bastari
popolano, che fu tre volte Gonfaloniere, disse arditamente, molti
essersi intesi perchè il male avesse qualche efficace provvedimento;
e conchiudeva la diceria con queste parole: «noi ci siamo ragunati
per essere liberi; eh Signori, dateci la libertà.» Pur nonostante
vinceva forse la parte dei pochi (tanto era possente), se gli Albizzi
e i Ricci, falsamente collegati, non venivano tra loro a brutte parole
rimbeccandosi ingiurie acerbe: talchè disciolto il Consiglio, fu vinto
dipoi che a cinquantasei dei principali cittadini, e che già erano in
uffizio, fosse balía di provvedere sotto certe condizioni alla salute
della Repubblica. Al che molti si crederono bastasse avere escluso dai
maggiori uffizi per cinque anni tre Albizzi e tre Ricci, che erano i
principali di quelle famiglie. Ma tosto si vidde nel fatto, la cosa
cadere sul capo ai Ricci soli, che perderono lo Stato: a Piero degli
Albizzi, se fu chiuso il Palagio dei Signori, quello dei Guelfi,
dove egli aveva grandissima autorità, gli rimase aperto. Allora fu
anche istituito il nuovo magistrato detto dei Dieci di libertà, a
difesa delle leggi e a salvaguardia dei cittadini; il quale rimase
e fu possente nella Repubblica, secondo i tempi che succederono. Era
dei primi che a tale ufficio vennero eletti, Marchionne Stefani, dal
quale abbiamo ampio ragguaglio di questi fatti. Di più ordinarono
fosse lecito a chiunque patisse offesa d’ingiuria da un più potente
di lui, fare petizione che l’offenditore venisse posto tra i grandi;
e sebbene poi tra loro si conciliassero, il partito dovesse andare
più innanzi: il che a molti peggiori scandali divenne cagione ed a
private soperchierie. In Firenze erano i Consoli della Mercanzia di
autorità grande, e per tutta Italia molti si stavano ai giudizi loro
per la importanza dei commerci di questa città: ai cinque, ch’erano
delle maggiori Arti, due furono aggiunti dalle minori; dal che si trova
essere scemata l’autorità di quel magistrato.


CAPITOLO VIII.
GUERRA CON PAPA GREGORIO XI. [AN. 1375-1378.]

Mentrechè gli uomini della Parte guelfa tiranneggiavano la Repubblica,
questa era venuta in guerra col Papa. Non prima viddero i Pontefici
col trasferirsi in Avignone scaduta essere l’autorità ch’esercitavano
sull’Italia, voltarono l’animo alla recuperazione dell’antico
patrimonio, e tosto si diedero a riconquistarlo con le armi; pare
volessero divenire principi dacchè erano meno pontefici. Delle terre
della Chiesa parte godevano libertà sotto popolare reggimento, di
molte avevano occupate da lungo tempo le signorie alcune famiglie di
possenti cittadini, rimasti signori per isforzato consentimento dei
Papi medesimi, e oramai come indipendenti; non solevano i Pontefici
direttamente esercitare la temporale sovranità, che in Roma veniva ad
essi negata, ed era negli altri luoghi dello Stato negletta da loro
o contro ad essi via via usurpata. Era quindi un nuovo fatto quel
costringere generalmente con le armi i popoli a una sudditanza da prima
insolita; ed i Papi scegliendo a quell’uopo Legati stranieri e armi
straniere e ferocissime, rendevano odiosa più che mai l’impresa di cui
sembravano vergognare, essi tenendosi in disparte di là dalle Alpi; e
qui spogliati di gran parte del favore che prima godevano appresso ai
popoli dell’Italia. Quindi la politica dei Fiorentini era mutata verso
la Chiesa; usati avere intorno a sè o città libere o signori amici e
ad ogni modo poco temibili, ora vedevano uno Stato grosso formarsi
di membra che prima solevano insieme congiugnersi pel solo vincolo
della lega guelfa, della quale erano essi a capo, ed in cui stava la
forza loro: Bologna e Perugia di recente soggettate da quelli armigeri
Cardinali, poneano minaccia là dove solevano essere difese allo
Stato di Firenze, e questo venendo a interchiudere da opposti lati,
lo stringevano così da farne (secondo correvano allora i sospetti)
pericolare la libertà.
I mali umori delle due parti furono palesi tostochè ascese al papal
seggio Gregorio XI, anch’egli francese, benigno e pio quanto a sè
ma trascurato o connivente ai vizi de’ suoi; del che avevagli dato
esempio lo zio di lui Clemente VI. Era in Perugia per Santa Chiesa
un abate di Montmayeur, ed in Bologna era Legato il cardinale di
Bourges, fieri uomini ed aggressivi e alla Repubblica male affetti, lei
avversando come ostacolo frapposto ad ogni divisamento loro. Veramente
i Fiorentini, soliti farsi di Santa Chiesa tutela ed arme contro a’
Visconti, oggi temevano come più vicina la potenza dei Legati; ed io
credo nel segreto de’ consigli loro per nulla gradissero il ritorno dei
Pontefici in Roma, che avrebbe allo stato della Chiesa data fermezza
troppo maggiore. Si aggiungevano le interne cause, e in gran numero dei
popolani la brama di abbattere quel magistrato che avea per sè l’antica
forza del nome guelfo e il vessillo della Chiesa;[296] le parti erano
oggimai scambiate, ed i nuovi modi di governo tenuti dai Papi gli
facevano sostenitori dei pochi e dei grandi contro a’ popoli e alla
libertà. Questa opprimevano i Legati in città amiche ai Fiorentini,
usando a tal fine le armi straniere e le fortezze di recente fabbricate
nel cuore stesso delle città, permettevano o promuovevano le nefande
opere e le scellerate; e fecero (benchè a dirlo mi sia duro) che le
coscienze dei più rigidi e timorati, non che la turba dei malevoli
ad ogni sorta d’autorità, e quanti erano mantenitori del pensiero
ghibellino, allora stessero contro a’ cherici.[297]
La Repubblica si era posta già da due anni sulle difese col distruggere
quello che fosse rimasto in essere di potenza alla famiglia degli
Ubaldini, amici ai Legati della vicina Bologna, e mantenuti, come
dicevasi, in istato dagli Albizzi che a quella parte davano mano: degli
Ubaldini uno venne ucciso dai suoi fedeli a tradimento; un altro in
Firenze per sentenza decollato (come fu detto) contro ragione.[298]
Ma le cose peggiorarono quando in Romagna fu Legato l’anno 1375 il
Cardinale di Sant’Angelo, di casato Novellet, di leggiero animo e
imperito. Era in Firenze stata la peste un’altra volta; cui succedette
tanto grave carestia che, nonostante il provvedere dei magistrati e la
larghezza che soleva la Repubblica usare in simili congiunture,[299]
mancando il grano, fece richiesta al Legato di Bologna permettesse
farne tratta da quelle provincie che molto ne erano abbondanti:
ma rifiutò questi, il divieto mantenendo con pertinacia, sebbene
avesse dal Papa lettere in contrario. Dovè il Comune per altro modo
e con grave spesa provvedere, avendo nel costo dei grani, che poi
a minore prezzo rivendeva, perduto somma molto ingente, che, al
dire d’un cronista contemporaneo, fu lo scampo della libertà.[300]
E le aggressioni o le minaccie continuavano: certo aiuto di gente
mandato dall’Abate di Perugia ai Salimbeni parve insidia tramata
contro alla libertà di Siena, come cercassero i Legati aprirsi ogni
via al sovvertimento di Toscana. Quel di Bologna fece poi tregua co’
Signori di Milano; ed ai Fiorentini mandò scritto, non potere egli
più sostenere la Compagnia grossa degli Inglesi che aveva a soldo,
chiedendo prestito di danaro; e perchè gli fu negato,[301] fece nel
mese di giugno che la Compagnia scendesse in Toscana, guastando le
terre e occupando le strade, che era un impedire alla città i ricolti
e così averla a discrezione. La Compagnia giunse fin verso Prato,
ma i Fiorentini per centotrentamila fiorini d’oro patteggiarono col
capitano si ritraesse; e questi poi venne più tardi ai soldi loro,
veduto ch’erano buoni pagatori. Aveva nome Giovanni Hawkwood, che i
nostri chiamano Giovanni Aguto; e lui vedremo più volte poi mischiato
ai fatti della Repubblica: dei condottieri in quella età era l’Aguto
il più famoso, stato già contro alla Repubblica nella guerra de’ Pisani
ed in quella dei Visconti fatta per conto di Samminiato. Costui mentre
era intorno a Prato, un trattato si scoperse per dargli la terra; del
quale essendo trovati autori un notaro e un prete, condotti in Firenze
patirono quivi crudele supplizio:[302] scrivono l’Aguto rivelasse egli
medesimo il trattato, e che i due presi lo confessassero. Inoltre
dicevano avere il Legato mandato in Firenze ingegneri a disegnare i
luoghi forti della città, e a spiare aditi agli assalti.
Allora in Firenze furono creati gli Otto della guerra con tanta balìa
quanta se ne poteva dare per la condotta delle genti stipendiarie,
per la nomina dei capitani e degli ambasciatori, per fare leghe ed
ogni altra cosa che importasse alla guerra, salva l’approvazione
della Signoria sola, o insieme ai Collegi, quanto alla spesa ed
all’osservanza delle leggi e ordini del Comune.[303] Dei quali Otto,
perchè rimasero dipoi famosi, gioverà dire essere stati com’era
prescritto, uno di famiglia grande, uno delle Arti minori e gli
altri sei delle maggiori Arti. Elessero altri otto a fare accatto
sui cherici, dicendo la guerra essere venuta per difetto dei pastori:
quindi, per forza o per amore, ebbero prestanza di fiorini novantamila;
poi cominciarono a mettere in vendita gli arredi delle chiese, poi
le possessioni. La Repubblica in tali cose andava spedita, se l’uopo
stringesse, o che le ragioni dello Stato a lei sembrassero manomesse:
queste andavano sopra ogni cosa, e tanto più osavano quanto che sempre
nelle coscienze loro viveva la fede, ed amavano popolarmente la Chiesa
quando anche avversassero gli ecclesiastici. Troviamo in più casi
questi modi essere praticati, ed è parte che sarebbe da rintracciare
minutamente nell’istoria della Repubblica.
Sul quale proposito diremo che in Firenze l’Inquisizione era in mano
dei frati Conventuali di Santa Croce, perchè nel secolo XIII erano
apparsi i Domenicani andare tropp’oltre contro ai Paterini. Ma quando
nell’anno 1345 un fra Piero dell’Aquila Inquisitore usava sue armi per
fini privati, impedirono a mano armata l’esecuzione d’una sentenza,
ed a lui tolsero il diritto di avere sue carceri e d’imporre multe e
di far pigliare chicchessia senza licenza dei Priori; altresì frenando
negli Inquisitori la facoltà di concedere licenza delle armi a privati
cittadini, che si annoveravano a tal fine tra’ famigliari del Santo
Ufizio. Avevano anche in vari tempi fatto leggi contro a’ cherici,
sottoponendoli al giudizio dei magistrati secolari per le offese
recate ai laici, e chi offendesse alcun laico di maleficio criminale
fosse fuori della guardia del Comune; inoltre vietando richiamarsi
in Corte di Papa e ottenere privilegio di giudici delegati, sotto
gravi pene all’appellante e a’ propinqui suoi. Erano di plebe quelli
che imponevano tali cose; poichè tra’ più grossi benefiziati molti
erano de’ grandi o dei grassi popolani, i quali si facevano dai loro
assolvere di violenze o di soprusi recati ai più deboli e impotenti.
Laonde poteva la legge essere per sè buona (secondo avvisano i
Cronisti), ma offendeva troppo la libertà della Chiesa, ed ebbe biasimo
dai più savi. Gregorio XI annoverava pure queste leggi tra’ carichi
apposti alla Repubblica di Firenze nel Breve del quale tantosto avremo
a favellare.[304]
Aveva l’Aguto nel suo discendere in Toscana corso anche le terre dei
Pisani e dei Lucchesi e dei Senesi e degli Aretini, costringendoli,
com’era usanza, a riscattarsi dalle devastazioni per molto danaro.
Siena bentosto entrò in lega co’ Fiorentini (essa temendo anche i
Salimbeni), e pose accatto sopra i cherici: v’entrò anche Arezzo,
ch’avea alle coste la minaccia dei Tarlati; ma Pisa e Lucca più tardi
s’aggiunsero alla confederazione, bensì con patto di non inviare genti
a soccorso di chi occupasse i possedimenti della Chiesa.[305] Laonde
Firenze, a sè cercando più saldo appoggio e di maggiore riputazione,
non temette collegarsi al più antico e più costante dei suoi nemici,
Bernabò Visconti. Molti avevano, e massimamente la Parte guelfa,
cercato indarno di storpiare quella lega, la quale si trova, nè senza
ragione, biasimata da taluno di quelli stessi ch’erano pure dei più
caldi per la guerra. Trascrivo alcune parole del Boninsegni, tanto
mi sembrano bene esprimere il sentire allora di molti, avvalorato in
quello scrittore anche dai fatti che ne provennero. «Fu tenuto allora
da molti buoni e savi cittadini che questo fosse de’ rei partiti
che il Comune pigliasse a’ nostri giorni; e la esperienza ne fece la
prova, perchè benchè i Fiorentini avessino voluto correggere e fare
discredenti i prelati superbi, malvagi e ingrati, che allora reggevano
e governavano la Chiesa di Dio, non dovevano però in tutto mortificare
e disfare lo Stato della Chiesa, con la quale i Fiorentini sono stati
d’un animo e collegati contro a’ Visconti di Milano, e con questa
collegazione gli avevano sempre tenuti a freno: e però seguì che,
disfatto lo stato della Chiesa in Italia, il Conte di Virtù, poi duca
di Milano, ne crebbe tanto suo stato, che diè molte brighe e turbazioni
e guerre a’ Fiorentini, mancando loro il favore ecclesiastico; e oltre
a ciò spese la nostra città in detta guerra tre milioni di fiorini,
di che seguì che i nostri mercatanti perderono molti avviamenti e
traffichi per lo mondo; e forse per questo seguirono poi le discordie
cittadinesche, per le quali il reggimento venne in mano de’ Ciompi e
popolo minuto.[306]» Ma vero è poi, che ai Fiorentini quella guerra
non parve che fosse da guerreggiare con le armi, nè di una lega tanto
insolita altro cercavano che il nome. Giudicarono, siccome avvenne,
che la riputazione della possanza di Bernabò avrebbe condotto più
agevolmente all’effetto che essi cercavano, quello cioè di rubellare
al Papa lo stato, malfermo tuttora per le inclinazioni avverse dei
popoli ed il mal governo dei Legati e le mene di coloro che prima
solevano avere alle mani loro il governo delle città. Cotesta era
guerra meno prode che efficace, e fu dagli Otto proseguita con sagace
e appassionata operosità, essi praticando nel segreto co’ partigiani e
con gli amici che avevano sparsi per le terre della Chiesa, o man mano
guadagnavano; in sè concordi, e senza intralcio d’altrui sindacati,
portati a cielo da grande aura di favore popolare, encomiati delle
opere loro perchè la città non si credette in altro tempo mai essere
stata sì bene servita: gli chiamarono gli Otto Santi. Molto facevano
col danaro, ma chi delle terre della Chiesa volendosi rubellare cercava
aiuto d’armati, lo aveva. Mandarono attorno per le città una nuova
bandiera che avevano fatta fare tutta rossa, con dentro scrittovi
Libertà in bianche lettere a traverso: se alcuna terra si volesse
dare ai Fiorentini, non l’accettavano. Così molte furono in pochi dì
liberate: «poi, alcuno tirannello si levava e rientravavi dentro; pure
alla Chiesa era tolta;[307]» e ciò bastava.
Città di Castello fu la prima che, levando rumore e soccorsa dai
Fiorentini, si ribellasse: seguitarono Perugia, Orvieto, Montefiascone,
Viterbo; in questa rientrando quel Francesco Prefetto da Vico, che
infino allora i Fiorentini aveano chiamato malvagio tiranno: poi Todi,
Gubbio, Civitavecchia, Spoleto; ed in Romagna Forlì dove tornarono gli
Ordelaffi, come in Imola gli Alidosi, e i Polentani in Ravenna; poi
Fermo ed Ascoli e Macerata nella Marca; poi trenta altre città minori o
terre o castelli: la prima cosa era atterrare le fortezze che i Legati
dentro vi avevano fabbricato. «Pareva che intervenisse delle terre
della Chiesa come d’un muro fatto a secco, che trattone alcune pietre,
rovina quasi tutto il resto.[308]» Allora il Papa assoldò in Provenza
alcune migliaia di Brettoni, uomini in guerra valorosi, in pace
crudeli, per fargli scendere in Italia. Citò a comparire i Signori ed
i Collegi, e nominatamente gli Otto della guerra, sotto minaccia delle
più gravi censure e pene che allora fossero in casi simili proferite,
se rimanessero contumaci. Ma insieme volendo alla conciliazione aprire
una via, mandò in Firenze ambasciatori, un Siniscalco di Provenza e
un Legista, offrendo lasciare in libertà Perugia e Città di Castello
e fare altre cose che a’ Fiorentini piacessero, purchè non andassero
più innanzi con la guerra. Per questo si tennero molte pratiche e
consigli di richiesti; ed era la pace già deliberata, quando gli Otto,
che non la volevano, avendo afferrata un’occasione che in Bologna si
era offerta, strinsero i trattati che avevano dentro e vi mandarono
gente, sì che la città levata in armi cacciò il Legato: erano ancora
gli ambasciatori in Firenze quando giunse la novella, e si fece grande
festa decretando fosse quel giorno solenne allora e in perpetuo:
tanto più sfoggiavano in cosiffatte dimostrazioni, quanti più erano i
contrari.
Dei quali fatti in Avignone giunse l’avviso quando erano ivi di già
arrivati messer Donato Barbadori, Domenico di Silvestro e Alessandro
dell’Antella, oratori del Comune ed avvocati presso al Pontefice.
Recitarono, com’era usanza, grave orazione, magnificando l’antico
ossequio dei Fiorentini verso la Chiesa e le recenti offese che
spinsero la Repubblica a provvedersi contro le ambizioni e il nemico
animo dei Legati; per essi venuta in pericolo la libertà, e Firenze suo
malgrado cercare a sè ogni via di scampo. Rispose il Papa, avviserebbe:
pochi dì poi chiamati a sè con solenni cerimonie gli ambasciatori,
fece ad essi leggere il decreto pel quale veniva Firenze interdetta,
ed oltre alle pene spirituali volendo ancora contr’essa procedere a
gastighi corporali, ordina il Breve che sieno i Fiorentini cacciati
da ogni parte del mondo cristiano, ed i beni loro confiscati; e se
al divieto non obbedissero, sieno ridotti in servitù, «a fine che il
pianto loro sia ai posteri di terrore:[309]» parole gravi come i fatti,
ed io vorrei che gli scrittori della Curia si astenessero da tali
enfasi di linguaggio. Narrano che il Barbadori uscendo di sala, volto
a un Crocifisso che ivi era, a lui appellasse di quella sentenza come
a giudice supremo.[310] E trovo scritto che d’Avignone sola fossero
cacciati oltre a seicento Fiorentini dimoranti in quella città pei
grandi traffici di Provenza, e come banchieri principali o cambiatori
nella Corte pontificia. La sentenza ebbe esecuzione in Inghilterra ed
in altre parti, sebbene andassero ambasciatori ai re d’Inghilterra e di
Francia e di Ungheria per la tutela delle persone e degli averi che i
Fiorentini tenevano sparsi in tanti luoghi della cristianità. Da Pisa
non furono accomiatati i mercanti che ivi dimoravano, e la città fu
interdetta; ma il Gambacorti, che la reggeva, cercando schermirsi col
Papa insieme e co’ Fiorentini, inverso a questi batteva freddo; nè le
altre città di Toscana si dimostrarono molto vive in quella contesa, nè
Lucca nè Siena trovo che fossero interdette.[311]
A vie più accendere le passioni bentosto si aggiunsero due fatti
crudeli, e inique stragi ed abominazioni commesse da quelle straniere
milizie che dal Pontefice assoldate, doveano stare a difesa sua nel
suo discendere in Italia. Santa Caterina da Siena e Francesco Petrarca
gli avean prima dato miglior consiglio; venisse senz’armi, con la sola
croce sarebbe più forte.[312] Per la ribellione di Bologna essendo
l’Aguto rimasto fuori della città, fece pensiero di occupare con le sue
genti Faenza che si teneva per la Chiesa; le quali entratevi, la città
tutta fu messa a sacco, forzate le donne fin dei monasteri e tenute
pe’ soldati, le vecchie cacciate fuori di città, costretti gli uomini a
ricomperarsi o ad andare tapinando: poi quando l’Aguto credette essersi
ben rifatto, vendè la città vuota com’era al marchese di Ferrara; poi
vi rientravano i Manfredi, ch’erano soliti dominarla. Nè il cardinale
Roberto di Ginevra, venuto al governo della legazione di Bologna,
mostrò risentirsi di quel fatto scellerato, e tosto poi adoperò l’Aguto
contro a Cesena, che desse mano ad altra opera anche più crudele. Erano
in questa città i Brettoni, selvaggi uomini corrivi ad ogni eccesso;
talchè alla fine, moltiplicando le offese e vinta essendo la pazienza
de’ cittadini, levati su, diedero addosso ai Brettoni sparpagliati, e
molti ne uccisero, che fu detto essere qualche centinaio. Era il Legato
presso la città in luogo forte, alla Murata, ed era con lui Galeotto
Malatesta; ai quali andati i cittadini, ebbero promessa non ne sarebbe
altro, e tornassero ai fatti loro. Ma tosto dipoi sopravvenendo le
genti dell’Aguto, e ravviatisi i Brettoni, insieme entrarono in Cesena;
e qui uccidere a man salva uomini e donne e i bambini nelle culle:
erano tutte le vie e le piazze piene di corpi morti nel fango, le
chiese di sangue, e su per gli altari uccisero parecchi: tremila o più
furono i morti: scampò chi riuscì a fuggirsi della terra, perocchè gli
Inglesi più attendevano alla preda, ed i Brettoni alla vendetta.[313]
Destava quel fatto pietà commista a odii atroci, e per le città della
Toscana si fecero esequie a’ morti in Cesena.[314] Il Papa tacque; ma
s’egli dannava con pubblico breve il Cardinal di Ginevra, costui non
sarebbe più tardi riuscito a portare scisma dentro alla Chiesa di Dio
col farsi eleggere falso papa.
La Toscana restò immune da cosiffatte calamità, del che gli Otto
s’acquistarono maravigliosa benemerenza con l’accortezza dei
provvedimenti. Radunarono quanta più gente dovunque potessero, e
l’avviarono a Bologna o su per le Alpi a guardare i passi, avendo anche
molto estese le giurisdizioni loro per la Romagna col soggettarsi
i signori dei castelli, e le terre fatte libere pigliarsi com’eran
soliti in accomandigia. Teneano frattanto a bada il Legato facendo
nascere in Bologna un finto trattato di fargli riavere quella città;
ivi il governo del Legato aveva per sè la minuta plebe: i Fiorentini
si tenevano in devozione i rettori con le grandi provvigioni. Facevano
buona guardia, avendovi anche di continuo due commissari, uno dei quali
fu il cronista Marchionne Stefani.[315] Comandava allora le genti di
tutta la Lega Ridolfo da Varano dei signori di Camerino, reputato
capitano, che i Fiorentini, poichè la guerra più era ingrossata,
condotto avevano a’ loro stipendi. Si teneva egli chiuso in Bologna,
ed alle provocazioni dei nemici rispondeva, non uscire egli perchè
non vi entrassero. Giovanni Aguto conduceva guerra lenta, male
soddisfatto dello stare ai servigi della Chiesa che non aveva di che
pagarlo, poich’ebbe perduta tanta parte dello Stato; ond’egli, scaduto
che fu il tempo della condotta, s’acconciò co’ Fiorentini. Il che
parve gran ventura, perchè se si fossero insieme congiunte due tanto
grosse compagnie, com’era la sua e quella dei Brettoni, sarebbe stato
disfacimento d’Italia. Questi avevano in Francia promesso pigliare
Firenze, dicendo che se v’entrava il sole, essi v’entrerebbero. Ma
non avevano tale condottiero qual era l’Aguto; e due loro capitani già
erano stati dagli Otto guadagnati: sicchè tutto quell’apparato grande
di guerra andò a scaricarsi in ruberie e in crudeltà sulle infelici
terre di Romagna, senza alcun danno ma solamente con grande spesa dei
Fiorentini.
Aveano i Tarlati allora tentato rientrare in Arezzo con intelligenza
di loro amici ghibellini e con la forza dei soldati della Chiesa,
tanto ogni cosa era capovolta: ma gli Otto mandarono gente a riparo,
e non ne fu altro, a pochi essendo tagliato il capo. Più tardi il
vescovo Albergotti avea ritentato dare alla Chiesa quella città; ma fu
invano, e dovè fuggirsi.[316] Guerreggiava nella Marca il capitano dei
Fiorentini, il quale avendo tolta per sè Fabriano ed essi vietando la
ritenesse, egli si voltò alla parte della Chiesa; del che in Firenze fu
un gran dire, e la sua imagine fu dipinta per la città in più luoghi
col capo all’ingiù, impiccato come traditore: faceva Ridolfo negli
Stati suoi dipingere gli Otto della guerra, effigiati con iscrizione
di sordido vitupero.[317] Ebbe il comando in vece sua un conte Luzzo
o Lucio tedesco della casa di quel conte di Lando verso cui meglio
adoperarono i villani delle Alpi quando egli tentava i confini di
Toscana: ma il conte Luzzo guadagnava sopra a Ridolfo insigne vittoria;
ed i Fiorentini se ne contentarono, molto onorando il conte Luzzo; e
lieti che l’altro nuovo loro capitano Giovanni Aguto avesse in Maremma
fugate le genti del Papa, e corso con le armi le terre fin sotto
Perugia, facendo quivi assai gravi danni. Bolsena, con grave suo danno
e ruina, si era data con l’aiuto dei Fiorentini al Prefetto da Vico; il
che avvenne sotto agli occhi stessi del Pontefice.
Imperocchè Gregorio, avendo cessato allora per sempre il soggiorno
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