Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 06

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campo bianco ed una porta rossa, pel titolo di Por santa Maria; quella
dei Pellicciai col campo azzurro, le pelli di vaio ed un _agnus
dei_:[61] le cinque minori più tardi furono ordinate.
Ferivano queste novità la parte dei Ghibellini e soprattutti le
grandi famiglie degli Uberti e dei Fifanti, dei Lamberti e degli
Scolari e gli altri che n’erano capi. Pareva loro che i Trentasei
favoreggiassero i guelfi popolani rimasti in Firenze; vedevano dopo
alla battaglia di Benevento ogni mutazione andare contro la parte
loro, e guerra essere di popolo acceso a tôrsi di dosso la signoria
dei grandi. Talchè prestamente il conte Guido Novello mandava per
gente ai vicini collegati, cioè a Pisa a Siena ad Arezzo a Pistoia a
Prato a Volterra a Colle ed a San Gimignano, che stavano allora tutte
con la parte ghibellina: sicchè coi secento Tedeschi che aveva, ben
presto ebbe adunato in Firenze 1500 cavalieri. Ma per dare il soldo
alle schiere tedesche voleva imporre una tassa che parve esorbitante
ai Trentasei: la costoro opposizione aumentò il dispetto dei Ghibellini
che, già sdegnati per il nuovo ordinamento dato al popolo, deliberarono
mettere a rumore la terra, e col favore dei cavalieri tedeschi
disfare l’ufficio dei Trentasei. Primi a levarsi furono i Lamberti,
che armati coi loro masnadieri uscirono fuori delle loro case in
Calimala gridando: «ove sono questi ladroni de’ Trentasei, che noi gli
taglieremo tutti a pezzi.» Sentito ciò questi, che erano a consiglio
nella solita bottega sotto la casa dei Cavalcanti in Mercato nuovo,
escono di parlamento. Nella città è tumulto grande, ognuno serra la
sua bottega, tutti s’armano ed accorrono nella via Larga e da Santa
Trinita. Gianni de’ Soldanieri, uno dei grandi ghibellini, per montare
in istato si fa capo del popolo abbandonando la sua parte; e Dante
registra nell’_Inferno_ il nome suo dov’è la bolgia dei traditori.
Intorno a lui ed a quelli di sua famiglia si ammassano i popolani
armati in gran numero, e fanno serragli appiè della torre dei Girolami.
Al che il conte Guido con tutta la cavalleria e coi grandi ghibellini
in arme e a cavallo movendo dalla piazza di San Giovanni, faceva
schierare i suoi contro a un altro serraglio che era sui calcinacci
delle case de’ Tornaquinci; alcuni Tedeschi saltarono a cavallo
dentro al serraglio stesso. Ma il popolo francamente tenne il fermo,
difendendosi con le balestre e col gittar sassi dalle torri e dalle
case; talchè vedendo il Conte di non poterlo rompere, facea voltare
le insegne e con tutti i suoi tornava sulla piazza di San Giovanni; e
quindi su quella di Sant’Apollinare, dove stavano i due frati Potestà:
era la sua cavalleria tanto numerosa che tenea da porta San Piero a
San Firenze. Ivi giunto, chiese le chiavi delle porte della città per
fuggire; e temendo essere accoppato dai sassi che a lui fossero gettati
dalle case, si pose ai fianchi Uberto de’ Pulci e Cerchio de’ Cerchi,
e dietro a sè Guidingo Savorigi, che erano dei Trentasei e dei maggiori
della terra, perchè gli fossero schermo. I due frati Gaudenti, gridando
dal palagio, cercavano impedire quella fuga; chiamavano a nome Uberto
e Cerchio, rincuorassero il conte Guido, che il popolo si acqueterebbe,
che si troverebbe via di pagare i Tedeschi. Ma fu invano: perciocchè il
Conte oltremodo impaurito non volle udire parola; e avute le chiavi, si
ritraeva difilato egli con tutto il numero de’ suoi cavalieri. Se fosse
stato in campagna aperta, certo che avrebbono i Tedeschi agevolmente
disperse quelle milizie ragunaticcie e oppresso quel popolo inesperto
delle armi: qui invece erano vie strette, ogni casa una fortezza, dove
ciascuno dei cittadini difendeva le cose più care, e a tutti veniva
pronto il soccorso: in questa sorta di battaglie rinviene il popolo
la sua forza. Il Conte in mezzo a universale silenzio, fatto gridare
se i Tedeschi ed i Pisani e gli altri collegati vi erano tutti, e
udito che sì, uscì per una delle porte e s’indirizzò a Prato. Ma quivi
giunto e parendogli di avere mostrato paura, volle il mattino seguente
tornare indietro e ritentare per forza d’armi la sua fortuna. Ma fu
troppo tardi: a tre ore di sole era presso alla porta del ponte alla
Carraia, dimandando gli fosse aperto: il popolo rispose correndo armato
alla difesa della città, la quale aveva buoni bastioni e buoni fossi,
voleri unanimi e risoluti. I cittadini stettero ivi a guardia fino a
sera; e allora il Conte e i Ghibellini, non potendo farsi aprire nè per
minacce nè per promesse, se ne tornarono scornati a Prato, pur beati
se avessero potuto impadronirsi almeno del castello di Capalle, che
assaltarono via facendo per isbizzarrirsi. Dopo quel giorno, per oltre
due secoli Firenze non vidde insegne straniere.
Allora i Fiorentini, tornati liberi e mandati via i due Potestà,
riformarono la terra, e per afforzarsi meglio avendo cercato soccorso
dai popoli amici, ebbero da Orvieto cento cavalieri, messer Ormanno
dei Monaldeschi per Podestà ed un altro gentiluomo per Capitano del
popolo. Richiamavano al tempo stesso non solamente i Guelfi cacciati
sei anni prima dalla città, ma gli stessi Ghibellini di breve fuggiti,
uomini grandi e potenti, dei quali credevano i popolani tuttavia di non
potere far senza, ma si adopravano a riconciliarli tra loro insieme ed
a parte guelfa. Ordinarono pertanto che fosse pace tra le casate insino
allora nemiche; ed a confermare questa pace Buonaccorso degli Adimari
diede per moglie al figlio suo la figlia del conte Guido Novello;
Bindo suo fratello si sposò ad una degli Ubaldini, e Cavalcante dei
Cavalcanti facea sposare suo figlio Guido, poeta insigne, ad una
figlia di Farinata degli Uberti. Altri maritaggi men chiari si fecero,
ma sempre invano, perchè la memoria delle antiche offese poteva più
del recente vincolo, e i popolani tosto pigliarono in sospetto quella
concordia de’ grandi. La pace fu rotta, ed i Guelfi imbaldanziti per le
vittorie di Carlo, inviarono segretamente ambasciatori a quel principe
richiedendolo di gente. Mandava egli il conte Guido di Monforte con
ottocento cavalieri francesi, i quali però al loro giungere in Firenze
il giorno di Pasqua del 1267, non vi trovarono i Ghibellini, che ne
erano usciti la notte precedente senza contrasto, rifugiandosi a Siena
ed a Pisa o nelle proprie loro castella. I Fiorentini allora diedero
la signoria della terra al re Carlo per dieci anni; e mandatagli
per solenni ambasciatori la elezione libera e piena con mero e misto
imperio, l’astuto Re rispose, che de’ Fiorentini voleva il cuore e
la buona volontà senza altra giurisdizione. Ma pure ai preghi del
Comune la prese indi a poco semplicemente, e d’allora in poi mandovvi
annualmente suoi vicari, i quali avessero il reggimento della città,
con l’assistenza di dodici buonuomini cittadini.[62] Era una sorta di
dedizione, ma non portava o non pareva seco portare la servitù, perchè
non era un dare al principe protettore tutto il governo, ma solamente
la sicurezza di sempre andare con quella bandiera, che era di popolo,
ma non si credeva per anche valesse da sè a reggersi e stare in alto:
re Carlo era la spada di parte guelfa, come il Papa n’era l’anima;
cosicchè dunque la suggezione al Papa ed al Re null’altro importava
che una promessa al certo molto volonterosa di tenere quella parte,
e difenderla sotto quei capi che allora il popolo riconosceva: ed a
quell’ombra la libertà cresceva intanto e si consolidava per via di
popolari istituzioni.
Troviamo il Papa bensì pretendere nel reggimento della città più
ingerenza che gli storici a lui non sembrino consentire, ma la
traccia ne rimane in quelle lettere di Clemente IV che dipoi furono
pubblicate.[63] Da queste appare come venissero i frati Gaudenti
per eccitamento del Pontefice: il quale irato co’ Fiorentini, che
a lui sembravano troppo lenti alla cacciata dei Tedeschi e alla
oppressione dei Ghibellini, inviava quivi un cappellano suo, che
intervenisse nel governo, uniformandolo ai disegni che egli aveva
conceputi, con minaccia di censure e di pene temporali a chiunque
osasse contravvenire. Aveva anche nominato nel primo tempo della
emancipazione di proprio moto un Potestà e intendeva designare un
Capitano del popolo, che governassero la città, i quali fossero di
provata fede e in devozione a santa Chiesa. Ma costoro non troviamo
che ottenessero giurisdizione; e pare a me che i Fiorentini molto
bene si schermissero pigliando altrove il Potestà (come fecero quel
d’Orvieto), e poi mettendo, come vedremo, sè stessi in cima alla parte
guelfa per via d’un ordine tutto nuovo, che fu accertarsi con un solo
atto la protezione del Pontefice e porre in salvo nel tempo stesso la
loro propria indipendenza. Questa munivano contro ai Papi, come Pisa
ghibellina sempre fu intesa a mantenerla contro agli Imperatori; e
convien dire che fosse grande la forza allora delle città, le quali,
sebbene divise tra loro, stavano in mezzo come sostegno all’uno o
all’altro dei contendenti e insieme argine ad entrambi: allora i
Papi erano più forti dopo all’eccidio di casa Sveva e per la vacanza
dell’Impero.
Venuto il primo dei vicari mandati dal re Carlo, furono eletti dodici
buoni uomini perchè insieme con lui avessero il reggimento dello Stato,
come anticamente gli Anziani; ai quali aggiunsero un Consiglio segreto
di popolo, che ebbe nome di Consiglio del Capitano detto anche di
Credenza della Massa de’ Guelfi, senza del quale non si facesse alcuna
grande spesa o deliberazione. A questo modo la somma del governo era
nel popolo, perchè agli ufficiali eletti da lui spettava iniziare
e consultare da prima quel che importasse alla Repubblica. Ma ogni
cosa deliberata nei Consigli popolari, doveva essere confermata nel
Consiglio generale dei Trecento e in quello speciale dei Novanta e
delle Capitudini delle sette maggiori Arti e dei dodici Buonuomini
che era convocato dal regio Vicario, questi ultimi essendo i Consigli
del Comune, che dal Popolo si distingueva, perchè era di tutti
indistintamente i cittadini, e ad esso veramente appartenevasi la
sovranità come al popolo il governo: gli chiamarono tutti insieme
i Consigli opportuni; a quelli del popolo spettava dare gli uffici
dei castellani, e tutti gli altri piccoli e grandi.[64] Fecero anche
arbitri che ogni anno avessero a correggere gli statuti e ordinamenti
del Popolo e del Comune. A camarlinghi del Comune furono eletti i frati
della Badia a Settimo e quelli di Ognissanti, ogni semestre a vicenda.
Nata questione tra i Guelfi circa i beni dei Ghibellini ribelli, papa
Clemente IV e re Carlo ordinarono che ne fossero fatte tre parti: la
prima fosse del Comune; la seconda dei Guelfi, per ammenda dei sofferti
danni;[65] la terza per certo tempo fosse a parte guelfa. Alla quale
poi rimasero i detti beni, e se ne fece cassa, e si attendeva sempre
dipoi ad accrescerla, per dare forza a quella parte. Il che udendo il
cardinale Ottaviano degli Ubaldini, disse: Poichè i Guelfi fanno mobile
(vendono cioè i beni confiscati), i Ghibellini non vi ritorneranno mai
più. La predizione si avverava.
I Ghibellini o sospetti Ghibellini, per sentenza del vicario del re
Carlo e del Comune di Firenze, furono parte fatti ribelli e sbanditi,
parte confinati fuori della città e del contado e del distretto o
solamente della città e del contado; alcuni potevano dimorare in
Firenze sinchè il bando non fosse pronunziato contro loro in nome del
vicario del detto Re. Abbiamo il registro di forse tre migliaia di
cittadini condannati per successive provvigioni e riformagioni negli
anni 1268 e 69.[66] E chi legga questo numero faccia misura delle
passioni che agitavano quell’età, se a noi sia dato immaginarle. Molti
fin d’allora abbandonarono non che Firenze l’Italia, dando principio
alla numerosa colonia fiorentina che per esigli o per commerci si
fondava nel mezzodì della Francia. Tra’ primi esuli che si fermarono in
quella provincia, merita essere ricordato un Azzo Arrighetti, dal quale
in Provenza derivava la famiglia poi tanto celebre dei Mirabeau.
Ma soprattutto di gran rilievo fu la creazione di un nuovo magistrato
col nome da prima di Consoli de’ cavalieri, poi di Capitani di
parte guelfa, al quale spettava in ogni cosa la difensione di essa
parte e la custodia dei beni e i provvedimenti da pigliare contro a’
Ghibellini. Per via di quella istituzione Firenze venne a farsi capo
del nome guelfo in Toscana e fuori, dando la mano intorno a sè ad una
grande e possente lega che da Bologna fino a Perugia si distendeva;
spesso mutabile come gli eventi, ma sempre viva negli interessi e
negli affetti di tutto quanto il guelfo popolo, che in questa parte
dell’Italia ebbe la sua principal forza, ed in Firenze la rôcca sua.
Quel magistrato si rinnovava ogni due mesi: v’era un consiglio segreto
composto di quattordici, e il maggior consiglio ne avea sessanta grandi
e popolani, per lo cui scrutinio si eleggevano i capitani di parte e
gli altri ufficiali. Similmente si crearono tre grandi e tre popolani
Priori di parte, i quali soprintendessero alla custodia della moneta,
uno di loro tenesse il suggello, un altro fosse sindaco e accusatore
dei Ghibellini. Radunavansi nella chiesa nuova di Santa Maria sopra
Porta, per lo più comune luogo della città e posto in mezzo a case
guelfe; e tutte loro segrete cose deponevano nella chiesa de’ Servi
di Santa Maria.[67] La parte guelfa aveva in sè tutta la forza del
nuovo Stato, e ad esso era come il principio della vita; per il che
noi vedremo quel magistrato divenire formidabile, siccome quello
che aveva in mano la libertà dei cittadini, i quali poteva mandare
in esiglio o privare degli uffici come sospetti d’inclinazione alla
parte ghibellina. Dal che avvenne che più tardi fosse abbattuto come
tirannico, e infine tutte le antiche ingerenze di quel magistrato
cessarono affatto; il nome però durava infino al passato secolo.
I Fiorentini ed il maliscalco del re Carlo co’ suoi cavalieri francesi
ebbero nuova vittoria sui primi illustri capi dei Ghibellini rifugiati
nel castello di Sant’Ellero, donde avevano ricominciato la guerra.
Essi erano in numero di ottocento, che tutti furono o morti o presi,
e tra essi alcuni degli Uberti, dei Fifanti e di più altre famiglie
ghibelline; colpo fatale alla loro parte. Un giovine degli Uberti,
salito in cima a un campanile, vedendo non potere scampare, per
non venire a mano dei Buondelmonti si precipitò abbasso. Gli altri
prigionieri più ragguardevoli furono condotti a Firenze e messi nella
torre del Palagio. Molte terre di Toscana allora tornarono a parte
guelfa e cacciarono i Ghibellini, talchè Lucca, Pistoia, Volterra,
Prato, San Gimignano e Colle fecero lega coi Fiorentini; e sole
rimasero salde alla parte contraria Pisa e Siena: la forza dei Guelfi
bentosto si distese in Lombardia. In questo tempo il re Carlo fatto dal
Papa vicario imperiale in Toscana, dopo avere con lungo assedio avuto
il castello di Poggibonsi, che si teneva per gli imperiali, venne con
la sua baronia in Firenze, dove fu ricevuto come signore, andandogli
incontro il Carroccio e molti armeggiatori. Gran lusso di vesti
portavano i Francesi nelle città italiane, prese da stupore di tanto
sfoggio e di quell’orpello cortigianesco. Negli otto giorni che passò
in Firenze re Carlo, prima di proseguire la lenta e difficile guerra
contro i castelli, fece cavalieri parecchi gentili uomini fiorentini;
fu onorato con grandi feste, che già s’adornavano del bello delle
arti: queste in Firenze pigliavano sede, insieme con la lingua e con la
libertà.


LIBRO SECONDO.


CAPITOLO I.
GREGORIO X IN FIRENZE. — PACE DEL CARDINALE LATINO. ISTITUZIONE DEL
MAGISTRATO DEI PRIORI. [AN. 1268-1282.]

In quest’anno 1268 la stirpe di quei possenti e molto famosi imperatori
Svevi di Hohenstaufen finiva nel prode giovinetto Corradino, speranza
de’ Ghibellini e da essi chiamato a scendere d’Allemagna; accolto con
regi onori a Pisa, vincitore per brevi istanti nel piano dell’Arno
sotto Laterina di ottocento cavalieri che il re Carlo teneva a guardia
nella Toscana:[68] poi vinto appena che egli ebbe tocchi i confini
del Reame, imprigionato e decollato per comando dello stesso Carlo,
cui non pareva essere ben re finchè in vita rimanesse questo rampollo
di Casa Sveva. Estinta la quale, veniva a termine la grandezza di
quella contesa tra ’l sacerdozio e l’impero, ch’era durata oltre
due secoli: le fazioni guelfa e ghibellina continuavano però sempre,
ma senza intendere ad alto scopo e immiserite e sminuzzate. Noi non
sapremmo essere in Italia equi giudici di Casa Sveva, segno agli odii
contemporanei e a molti postumi desiderii. Firenze a ogni modo, e
certo con essa la miglior parte d’Italia, si rallegrava alla caduta
di quell’infelice giovinetto, il quale veniva straniero a dar mano per
tutta Italia agli stranieri, ai grandi nemici del nome latino, a coloro
che impedivano, quale si fosse, la nuova vita di questo popolo che,
disciolto dalla imperiale soggezione, tornava libero di sè stesso.
Ma la Repubblica fiorentina in questa guerra ebbe poca parte, siccome
quella che era intenta a far vendetta contro a’ Senesi della battaglia
di Montaperti, ognora per lei d’acerba memoria; patirono questi una
totale sconfitta; e Provenzano Salvani, che in Siena era quasi che
principe, fatto prigione, ebbe mozzo il capo. Resisteva Poggibonsi,
nobile castello e molto splendido di edifizi; ma espugnato appena,
mandava il re Carlo comandamento che fosse abbattuto insino a
terra, e gli abitatori scendessero a vivere a modo di borghi giù nel
piano sottoposto. Dipoi l’oste guelfa, avute più altre fortezze dei
Ghibellini, andava sotto le mura di Pisa: e intanto perchè, a tenore
di un accordo coi Senesi, i Ghibellini erano stati cacciati di Siena,
quattro fuorusciti fiorentini, tre degli Uberti ed un Grifone da
Figline, costretti partirsi di quella città, nell’andare in Casentino
furono presi e condotti in Firenze prigionieri. Richiesto il re Carlo
di quel che fare se ne dovesse, mandò al suo Potestà «che siccome
traditori della Corona fossero giudicati.» Tutti furono decapitati,
eccetto il più giovine degli Uberti tratto a morire nella fortezza di
Capua. La mattina quando i due fratelli maggiori Neracozzo e messer
Azzolino andavano al supplizio, il primo chiese all’altro: dove andiamo
noi? Rispose il cavaliere: «a pagare un debito che a noi lasciarono i
nostri padri.[69]»
Nell’anno 1273 papa Gregorio X andando al Concilio di Lione passò
per Firenze in compagnia dei Cardinali e del re Carlo, tornato
allora dall’infelice spedizione in cui perì san Luigi, e di Baldovino
imperatore latino, allora profugo da Costantinopoli. Firenze accolse
a grande onore questi monarchi e la loro numerosa baronia; ed al
Pontefice piacendo il mite soggiorno, ordinò di passarvi l’estate con
la sua Corte. Dolente poi quel buon Pontefice al vedere questa sua cara
città divisa e vedovata di tanti de’ maggiori cittadini, s’adoperava
perchè tornasse in concordia. Fatti pertanto venire sindachi della
parte ghibellina che da sei anni era in esiglio, congregò a’ due di
luglio il popolo fiorentino sul greto d’Arno appiè del ponte Rubaconte,
dove erano stati fatti grandi pergami di legname pei Principi e per
la Signoria. Venutovi il Papa co’ suoi Cardinali ed il re Carlo e
l’imperatore Baldovino con le loro Corti, promulgò il Papa sentenza di
pace sotto pena di scomunica a chi la rompesse, e comandò ai sindachi
di ambedue le parti che si baciassero in bocca. Quindi avuti ostaggi
e mallevadori, fece rendere in mano di Carlo tutte le castella che
restavano ancora ai Ghibellini, e gli ostaggi consegnò pure al re
Carlo, che gli mandò in Maremma sotto la guardia del conte Rosso
dell’Anguillara. Il dì medesimo fondò allato al ponte a Rubaconte la
chiesa di San Gregorio, che facevano edificare i Mozzi mercanti del
Papa e della Chiesa. Questa famiglia in piccolo tempo era venuta in
tanta ricchezza e stato, che potè allora albergare il Pontefice nei
suoi palazzi: ma egli quattro giorni dopo la pace giurata si partiva da
Firenze; il che fu cagione che si tornasse alle discordie. I sindachi
dei Ghibellini che avevano fatto il compromesso, erano rimasti in
Firenze per dare compimento ai trattati; e tornandosene al loro albergo
ebbero avviso che, se tosto non isgombrassero la città, il Maliscalco
del re Carlo a petizione dei grandi guelfi gli farebbe tagliare a
pezzi. O vero o falso che ciò si fosse, i Ghibellini incontanente
essendosi partiti da Firenze, la pace fu rotta: di che il Papa si
turbò forte, e ritiratosi in Mugello molto sdegnato contro al re
Carlo, interdisse la città. Ma poi tornato da Lione e non potendo fare
a meno di passare per Firenze a causa di una grande piena dell’Arno,
all’entrarvi la ribenedisse; e non appena ne fu uscito, la scomunicava
di bel nuovo. La morte lo colse pochi dì poi in Arezzo, dov’ebbe nel
Duomo assai modesto sepolcro che ivi rimane tuttavia.
L’Italia tutta era sconvolta per le contese di parte, ed i Fiorentini
s’ingerivano in quelle di Toscana e di Romagna: Bologna vedeva nelle
sue mura combattimenti interminabili fra emule casate. In Pisa il
conte Ugolino della Gherardesca e i Guelfi erano rimessi per l’opera
massimamente dei Fiorentini. Varia sorte ebbero le città lombarde, le
quali dopo essersi con molta gloria emancipate dal giogo imperiale,
vivevano però sempre nella dipendenza di signorie cittadine e
castellane. Era in Milano possente la casa di quei Della Torre, i quali
sconfitti dal marchese di Monferrato a Cortenuova, dove lasciarono
due di loro morti in battaglia e sei prigioni, andarono in bando, e
insieme con essi la parte guelfa. Allora tornò ivi con quelli di sua
famiglia e con gli altri fuorusciti l’arcivescovo Visconti, il cui
fratello Matteo, fatto capitano del popolo milanese, diede principio
alla grandezza di quella casa, durata poi quasi due secoli. La Romagna,
turbata del pari che le altre provincie italiane dal parteggiare
delle sue città, veniva concessa (o, come dicevano, _privilegiata_) da
Rodolfo di Habsburgo re dei Romani a papa Niccolò III degli Orsini,
che cardinale modesto e pontefice ambizioso accumulava ricchezze
e stati nella famiglia. Contuttociò il re Carlo ebbe a schivo
d’imparentarsi con lui dicendo: «perchè egli abbia calzamento rosso,
suo lignaggio non è degno di mischiarsi col nostro, e la sua signoria
non è retaggio.[70]» Così voltavasi contro al Papa, e aduggiava con
la potenza sua la maestà del pontificato, colui medesimo che dai
papi male era stato chiamato perchè fosse scudo alla Chiesa contro
agl’imperatori; e Niccolò abbassando l’animo alle personali cupidigie,
e per amore della famiglia sua forte sdegnato contro al re Carlo,
privava questi del titolo e ufficio di Vicario imperiale nella Toscana,
e quasi fattosi Ghibellino concedeva ritornasse in questa provincia
un luogotenente dell’Impero. Solevano questi dimorare in San Miniato;
di là contrastando, secondo che avevano sussidio d’armi, alla potenza
sempre crescente delle città e ai governi popolari. Questo faceva o
tollerava papa Niccolò nella Toscana e nella Romagna: privava dipoi
l’Angioino del grado onorifico di senatore della città di Roma, e
serbava contro lui maggiore vendetta preparando a’ danni suoi la
ribellione, che poi non vidde, della Sicilia.
Frattanto i grandi guelfi di Firenze riposati delle guerre di fuori e
ingrassati degli averi tolti ai Ghibellini, cominciavano per invidie
e per superbie a nimicarsi fra loro. La maggior briga ferveva tra
gli Adimari e i Tosinghi e tra’ Donati ed i Pazzi: la città n’era
grandemente travagliata. Quindi i Capitani di Parte ed il Comune
di Firenze inviarono ambasciatori a papa Niccolò III, chiedendo
pacificasse i Guelfi tra loro e che non si cacciassero via l’un
l’altro. Nello stesso tempo anche gli esuli ghibellini mandavano al
Pontefice chiedendogli desse esecuzione alla sentenza di pace fatta da
papa Gregorio X fra essi ed i Guelfi. Questa il Pontefice confermava,
e sulla fine del 1279 ingiunse al cardinale Latino dei Malabranca
suo nipote di sorella, ed allora paciaro in Romagna, di trasferirsi a
Firenze con trecento cavalieri per sedare quelle dissensioni. Costui,
uomo destro, riconciliò co’ Buondelmonti gli Uberti; e perchè dei
primi alcuni si negavano, gli scomunicò, e la città gli sbandì. Con
solennità pari a quella ordinata da Gregorio X, esso Cardinale nei
primi giorni del 1280 convocò il popolo a parlamento nella piazza di
Santa Maria Novella: era dell’Ordine dei Predicatori, e poneva egli
la prima pietra di quella chiesa. Fece che i sindachi delle due parti
nemiche si dessero il consueto bacio: i Ghibellini furono richiamati e
rintegrati nelle loro possessioni, salvo che a circa sessanta dei più
principali fu ordinato, per più sicurtà della terra, che certo tempo
stessero ai confini tra Orvieto e Roma sotto la guardia del Pontefice:
primi descritti tra gli esclusi sono i figliuoli ed i congiunti del
quondam Farinata degli Uberti. E paci singolari furono fatte, dal
che tornò calma per breve tempo nella terra.[71] Ordinò inoltre il
Cardinale che il Potestà e il Capitano del popolo fossero per due anni
eletti dal Papa, e che gli Anziani o Buonomini, in luogo di dodici,
d’allora in poi fossero quattordici, otto Guelfi e sei Ghibellini,
grandi e popolani; ma il numero di questi prevale nei cataloghi che ne
rimangono. Al Papa giovava col riamicare le parti attribuirsi un’alta
mano nelle cose di Toscana; disegno concetto prima da Celestino e
Innocenzio terzi, e ripigliato poi quando nella vacanza dell’Impero il
Papa eleggeva re Carlo d’Angiò vicario imperiale in questa provincia.
Ad abbreviare le gelosie e le impazienze ed i sospetti, massime ora
che nei magistrati sedevano uomini Ghibellini, il Cardinale ordinava
che l’ufficio degli Anziani avesse durata di soli due mesi; il quale
termine si perpetuava pei maggiori uffici nelle successive mutazioni,
perchè il popolo, una volta che ebbe gustato i magistrati brevi, non fu
possibile che se gli lasciasse togliere di mano fino agli estremi della
Repubblica: e nello spesso variare delle istituzioni cittadine rimase
quest’una, pieghevole sempre al dominio delle fazioni ed all’arbitrio
dei potenti.
Dipoi la parte guelfa risentiva dalla percossa del suo capo agitazioni
novelle: si apprestava Carlo a portare guerra in Oriente, e già sognava
maggiori grandezze, quando l’insolenza dei Francesi fece scoppiare una
tempesta per la quale in un giorno venne egli a perdere la Sicilia.
Giovanni da Procida gentiluomo napoletano preparò quella sollevazione,
che indi scoppiava per grande impeto popolare; i Greci ed il Papa erano
partecipi della trama. Il lunedì dopo la Pasqua di Resurrezione del
1282 a ora di vespro ebbe principio in Palermo la carnificina; tutta
la Sicilia fu in ribellione, ed i Francesi da per tutto spenti. Il re
Pietro d’Aragona intanto s’armava per invadere la Sicilia come ultimo
erede della Casa Sveva: Carlo, avuta la trista novella, francescamente
esclamò: «Sire Iddio, dappoi ti è piaciuto di farmi avversa la fortuna,
piacciati almeno che il mio calare sia a petitti passi.[72]» Volgevasi
intanto con grande sforzo alla recuperazione dell’Isola; al quale
effetto, poichè era scaduto il termine della signoria che i Fiorentini
gli aveano data, mandarongli questi cinquanta cavalieri di corredo e
cinquanta donzelli o valletti, gentili uomini delle principali case di
Firenze, perch’egli desse loro il cingolo militare; e con essi altri
cinquecento bene a cavallo ed in arme, capitanati dal conte Guido
da Battifolle dei conti Guidi, ch’era venuto a parte guelfa: i quali
tutti, ricevuti graziosamente dal Re, passarono in Sicilia seco lui, ed
ebbero parte nelle grandi guerre che ivi con varie e fiere sorti furono
combattute.
In questo mezzo era venuto a morte papa Niccolò III, e il Luogotenente
di Rodolfo si era partito dalla Toscana con le sue poche genti, dopo
avere inutilmente tentato con le minaccie e con le armi le città
guelfe. Erano queste rassicurate viemaggiormente per la creazione del
nuovo papa Martino IV, uomo assai ligio come francese al re Angiovino;
intantochè la lontananza di questo Re per i fatti di Sicilia veniva
a togliere d’in sul capo a quelle città un protettore fatto gravoso
perchè non era più necessario. A sostegno della parte ghibellina non
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