Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 03

il luogo assai forte e che la strada vi correva a piedi, toglieano
pedaggio, con molto incomodo della vicina città di Firenze. I
Buondelmonti furono costretti farsi cittadini; ed è il primo esempio
che noi troviamo d’un fatto comune ai vinti signori: a questi alle
volte era imposto rimanervi il tempo prescritto d’uno o due mesi
all’anno, o più a lungo, quando la città fosse in guerra. Coteste
imprese erano dentro alle dieci miglia, termine assegnato dalla
contessa Matilde, o forse anche prima, al contado di Firenze; la
quale oltre quello non credo allora che si arrischiasse. Certo è che
si trova nel 1134 un Ingelberto fatto marchese di Toscana; il quale
cacciato dai conti Guidi, fu tre anni dopo rimesso in istato da un duca
Arrigo di Baviera venuto in Italia con Lotario imperatore: il Duca e
il Conte riconciliati assediarono Firenze, e presala, vi riposero il
Vescovo che n’era stato prima ingiustamente cacciato. Di queste cose
gli autori nostri non fanno parola.[14] Era l’anno 1144 marchese di
Toscana Ulrico, sotto al quale i Fiorentini congiunti ai Pisani ebbero
guerra contro ai Lucchesi ed ai Senesi, crudelmente combattuta, e indi
composta dallo stesso Ulrico; il quale, per torne via le cagioni,
dava in pegno Poggibonsi al Vescovo e ai Consoli della città di
Volterra.[15] Continuava però la guerra dei Fiorentini contro ai conti
Guidi, ai quali, tolsero nel 1154 il castello di Monte Croce dietro
a Fiesole, da essi tentato con mala prova otto anni prima. Nel 1147
cavalieri fiorentini aveano seguito l’Imperatore Corrado alla Crociata
in Terra Santa; uno dei quali fu Cacciaguida bisavo al nostro grande
Poeta: questi descriveva i nomi delle famiglie che allora dominavano la
città, dove in quelli anni l’autorità imperiale pare essere stata oltre
al solito prevalente.
Venuto all’impero Federigo I svevo, da noi chiamato il Barbarossa,
investiva del marchesato di Toscana e del ducato di Spoleto e dei
castelli e beni spettanti all’eredità di Matilde il duca Guelfo suo
zio, discendente dal marito di questa, e congiunto di sangue agli
Estensi: a lui prestavano ubbidienza i nuovi vassalli l’anno 1154.
Teneva nel 1160 un parlamento in San Genesio, terra che giaceva ai
piedi del colle dov’è San Miniato; ivi dando investiture a conti
rurali e ordine alle immunità cittadine: donde recatosi in Germania,
cedeva il ducato a un figlio del suo nome stesso; il quale, per essere
ai popoli troppo benigno, parve a Federigo che egli contrariasse
l’autorità dell’Impero. Di già il nome guelfo pigliava la parte che
a lui rimase nella storia; e già era un insorgere di molte città di
Lombardia; Genova e Lucca e Siena tenevano contro a Pisa le parti
imperiali. Questa città molto negli anni precedenti si era mostrata
devota ai Pontefici, e noi la vedemmo avere amicizia con Firenze che
sempre osteggiava nei signori dei castelli le genti e la dominazione
forestiera. Stringevano pertanto i Pisani e i Fiorentini insieme
una lega l’anno 1171, per la quale si obbligarono quelli a condurre
e ricondurre per mare le robe e mercanzie dei Fiorentini i quali
pagassero le stesse gabelle dei Pisani, e ad essi diedero una casa o
fondaco in Pisa a piè del Ponte: era la lega per quarant’anni, e da
rinnovarsi ogni dieci anni; ma salva sempre la fedeltà all’Imperatore,
il quale però non vollero che gli potesse liberare dai patti allora
stretti e giurati.[16] Ma l’anno dipoi, venuto in Pisa Cristiano
arcivescovo di Magonza e arcicancelliere dell’Impero, teneva nel
borgo di San Genesio grande parlamento contro alle città renitenti;
le quali negandosi venire ad accordi, egli in altro parlamento presso
Siena, presenti i Signori ed i Valvassori e i Consoli delle città
che erano tra Lucca e Roma, metteva i Pisani al bando dell’Impero,
privandoli delle regalie loro e della Sardegna: faceva lo stesso
contro a’ Fiorentini che aveano tentato cacciare i soldati tedeschi
da San Miniato. Si venne agli accordi, e l’Arcivescovo tolse i
bandi; ma perchè radunati in San Genesio i Consoli pisani e gli
Ambasciatori fiorentini rifiutavano alcuni patti, furono presi e messi
in catene.[17] Quindi la guerra si raccendeva tra le città, essendosi
l’Arcivescovo partito allora dalla Toscana.
Negli anni che furono tanto famosi per le guerre contro a Federigo
Barbarossa e per la Lega lombarda, non troviamo che Firenze molto
a quei moti partecipasse: ma con l’invadere i castelli e le terre
de’ signori tanto aveva allargato il suo territorio, che già venne a
riscontrarsi e ad aver guerra con gli Aretini perch’erano collegati a’
conti Guidi, e co’ Senesi per cagione di alcune castella del Chianti
che i due Comuni si disputavano. Allora gli uomini di Poggibonsi, che
prima vivevano con altro nome nel piano, si edificarono un castello
nell’alto del poggio; e perchè stavano contro a’ Fiorentini, questi
rafforzarono a poca distanza la terra di Colle in Val d’Elsa. Per
questi fatti però non è da dire che per ancora le città godessero
formale diritto al governo di sè stesse; ma con l’esercitare
l’indipendenza s’avviavano a possederla. In quel tempo le città di
Lombardia col forte resistere acquistavano a sè stesse e alle altre
d’Italia i nuovi diritti che bentosto ebbero in Costanza solenne
sanzione.
Era l’anno 1177, nel quale in Venezia l’imperatore Federigo rendeva
ubbidienza al pontefice Alessandro III, quando Firenze in quel
passaggio da servitù a libertà cresciuta di gente varia ed irrequieta,
cominciò a fermentare in sè medesima per cittadine discordie. Furono
esse suscitate dalla famiglia potentissima degli Uberti, tedesca
d’origine come dal nome si scorge, ma che aspirando a padroneggiare la
città, gli adulatori dicevano essere della schiatta di Giulio Cesare.
Questi «co’ loro seguaci nobili e popolani si diedero a battagliare
contro a’ Consoli per la invidia della signoria che non era a loro
volere. Fu sì diversa e aspra guerra, che quasi ogni dì, o di due dì
l’uno, si combatteano i cittadini insieme in più parti della città da
vicinanza a vicinanza, com’erano le parti; e aveano armate le torri,
ch’erano in grande numero, alte cento e cento venti braccia. E in
quei tempi per la detta guerra assai torri di nuovo vi si murarono,
dei danari comuni delle vicinanze, che si chiamavano le torri delle
compagnie:» e sopra quelle facevano mangani e manganelle per gittar
l’uno all’altro, ed era asserragliata la terra in più parti. Durò
questa pestilenza più di due anni, onde molta gente ne morì, e molto
pericolo e danno ne seguì alla città: ma tanto venne poi in uso quel
guerreggiare tra’ cittadini, che l’uno dì si combattevano, e l’altro
mangiavano e bevevano insieme, novellando delle virtudi e prodezze
l’uno dell’altro ch’essi facevano a quelle battaglie. Poi, quasi
per istraccamento e rincrescimento, restarono dal combattere, e si
pacificarono, e rimasero i Consoli in loro signoria. Alla fine pur
crearono e partorirono le maledette parti che furono appresso in
Firenze.[18]
Così raccontano questi fatti gli antichi cronisti. Ne accusano essi la
troppa grassezza e riposo in che era vissuta fino allora la città; ma
veramente era il principio di quelle parti che non ancora pigliavano
nome di Ghibellina e di Guelfa. Gli Uberti con altre nobili famiglie
possenti in contado, e in città discese con la speranza di dominarla,
cercavano mantenere con le armi imperiali la grandezza loro, battendo i
Consoli nei quali stava la signoria e che seguivano, a quanto sembra,
la parte che indi si chiamò guelfa: continuava dentro alla città la
guerra che dai castelli si combatteva contro all’insorgere dei Comuni.
Avevano questi pigliato in quelli anni forza e ardimento per le
vittorie avute nei campi lombardi contro a Federigo, e per l’ampliarsi
dei commerci, che in Firenze massimamente dovette essere grandissimo. I
Papi, cresciuti allora in potenza, facevano a questa grande fondamento
sulla indipendenza delle città, che volea dire del popolo latino ad
essi devoto. Non bene era spenta quanto alla Toscana la lunga contesa
per le donazioni che Matilde aveva fatte alla Chiesa della eredità sua,
ma che non ebbero effetto mai. Nè forse era senza un qualche pensiero
di rivendicarle che i Papi scriveano in quegli anni bolle (come si
trova) dirette _ai popoli_ di alcune città state del patrimonio di
Matilde. Comunque ciò fosse, la pace di Costanza e le franchigie
ivi formalmente decretate (anno 1183) e la istituzione dei Potestà,
sancirono alle città italiane quasi un’intera indipendenza. Quindi noi
troviamo per tutto il secolo XII duchi e marchesi non già propriamente
governare la Toscana, ma sibbene in nome degl’Imperatori tenerne l’alto
dominio: guidavano le masnade, difendevano le parti dei conti e signori
castellani che ubbidivano all’Impero, e da questi riscuotevano le
tasse, e raccoglievano le milizie, proventi della sovranità. La quale
però venendo a scadere, quei duchi e marchesi non furono altrimenti
feudatari che avessero grado e potenza di principi; ma con l’andare
del tempo discesero alla qualità di messi o ministri, i quali col
titolo di vicari dell’Imperatore, esclusi dalle città, risedettero in
San Miniato, luogo alto e munito, cui rimase poi sempre il nome di San
Miniato al Tedesco.
Negli anni dopo i Fiorentini a sè obbligarono gli Empolesi, costretti
a farsi loro censuarii; ed abbatterono il castello di Pogna e quello
di Montegrossoli nel Chianti. Fecero trattati co’ Lucchesi contro a
Pistoia nemica d’entrambi, e con gli Alberti conti di Mangona e Vernio;
i quali promisero da indi in poi fare pace e guerra a volontà del
Comune, offrire una libbra di puro argento e un cero alla chiesa di San
Giovanni Battista, e disfare alcune castella in Val d’Elsa e in Val
d’Arno a scelta dei Consoli di Firenze. Ma non per anche la signoria
libera si potea dire assicurata alla città, ed era un ondeggiare
continuo; perchè l’indipendenza dei Comuni, mantenuta solamente dalla
debolezza degl’Imperatori, pericolava ogni volta che scendessero di
Germania soldatesche a difendere o a rafforzare l’autorità dell’Impero,
e più che mai quando essi medesimi si appresentassero nell’Italia.
Per tale modo nell’anno 1185, essendo la persona di Federigo venuta
in Firenze nell’andare in Puglia, «gli furono attorno i nobili del
contado, dei quali avevano i Fiorentini preso per forza ed occupato
molte castella e fortezze, contro all’onore dell’Impero.[19]» E
Federigo «tolse a Firenze tutto il contado e la signoria di quello
sino alle mura, e per le villate facea stare suoi vicari che rendevano
ragione e facevano giustizia.[20]» Così fece alle altre città di
Toscana, salvo che a Pisa ed a Pistoia, ch’erano state con lui nelle
guerre precedenti. Quando si vede nelle istorie e nei documenti
cessare i Potestà e sottentrare ad essi i Vicari, si può inferirne
con sicurezza che l’indipendenza municipale veniva meno di contro
all’autorità imperiale. Dicono poi gli storici che il contado sino
alle dieci miglia fosse più anni dopo restituito ad istanza del Papa
e in grazia del merito che i Fiorentini s’erano acquistato in Terra
Santa: ma noi crediamo che le città, partito appena l’Imperatore, da sè
medesime lo recuperassero d’accordo col Papa.
Innanzi però che ciò avvenisse, Arrigo svevo, dal padre associato
all’impero nel 1187, teneva in quell’anno corte in Fucecchio. Nella
Crociata moriva l’imperatore Federigo Barbarossa (1190), e il di lui
figlio Arrigo VI creava duca di Toscana Filippo suo fratello: costui
fu l’ultimo dei Duchi o Marchesi in questa provincia. Imperocchè
morto l’anno 1197 Arrigo VI in Sicilia, della quale si era fatto
signore per maritaggio con la erede dei Re Normanni; Filippo tornava
frettolosamente in Allemagna. Ebbe l’Impero due competitori, e si
trovò in Italia irreparabilmente affievolito: dal che le città presero
sicurezza, e la potenza della Romana Chiesa di molto s’accrebbe.
L’anno stesso Celestino III mandava in Toscana suoi legati il cardinal
Pandolfo e il cardinal Bernardo; alla presenza dei quali nel mese di
novembre 1197 fu in San Genesio conchiusa una compagnia o lega tra
le città di Firenze, di Lucca e di Siena ed il Vescovo di Volterra
come signore temporale di quella città, e le terre di Prato e di San
Miniato, con riserbarvi luogo per Pisa, Pistoia, Poggibonsi, conti
Guidi, conti Alberti e altri signori di Toscana. Venne pattuito che
in ciascuno degli Stati uniti in lega fosse un capo chiamato Rettore
o Capitano, che avesse arbitrio per le cose della lega, ma senza
autorità nel governo della città sua; si radunassero questi ogni
quattro mesi in una dieta o parlamento a comporre le discordie, e pei
negozi che occorressero eleggendo uno di loro che avesse nome di Priore
della compagnia. Nessuno dei collegati potesse conoscere alcuno per
imperatore, re, principe, duca o marchese, senza speciale ed espresso
comandamento della romana Chiesa; la quale dovesse, col richiederne
le compagnie, ricevere aiuto per la difensione di sè stessa; come
anche per ricuperare i luoghi perduti, eccetto quelli i quali fossero
tenuti da alcuno de’ collegati.[21] Nel seguente anno 1198 asceso alla
sedia pontificale Innocenzio III, scriveva una lettera al Priore ed
ai Rettori della Toscana e del ducato di Spoleto, nella quale dopo
avere affermata risolutamente l’autorità dei pontefici sopra quella
degl’imperatori non che d’ogni altra potestà civile, dichiara in Italia
stare il principato su tutti gli altri paesi cristiani per essere ivi
divinamente posta la Sedia apostolica, cui s’appartiene la potestà
del sacerdozio insieme e del regno. Promette a quella università
di Stati il patrocinio della romana Chiesa, tenendosi certo della
ossequiosa devozione che a lei presterebbero in ogni cosa, procurando
l’onore di essa e l’avanzamento.[22] Per Innocenzio III la potenza del
papato pervenne al suo colmo; e ch’egli intendesse, e che taluno dei
successori suoi cercasse comporre in fascio le città italiche, o quelle
almeno della Toscana, legate insieme da una supremazia che i papi sovra
esse esercitassero, non crediamo noi che sia cosa da porre in dubbio.
I Pisani a quella lega, come già divenuti imperiali, si rifiutarono;
ma in essa entrarono l’anno dopo i conti Guidi e i conti Alberti, e poi
gli uomini di Certaldo i quali aveano ai Fiorentini giurato fede, dalla
quale non potesse nemmeno il Papa fargli prosciolti. Assai più ampia
dedizione fecero gli uomini di Figline, che si obbligarono a pagare
ventisei danari per focolare; tributo consueto dei vassalli al signore
loro; ed oltre ciò, la metà dei pedaggi e dei mercati; a fare guerra e
pace ad arbitrio del Comune di Firenze, ed ubbidire a ogni comandamento
dei Consoli di questo, eccetto nel caso che a loro fosse comandato di
abbattere in tutto o in parte la terra loro, cioè diroccarla cosicchè
divenisse terra aperta.[23] Già era nata la lunga e difficil guerra
ch’ebbe il Comune contro a Semifonte, forte castello nella Val d’Elsa e
ostinatamente difeso dagli abitatori.[24] Cercarono i Fiorentini tôrre
a Semifonte l’aiuto del Vescovo di Volterra, e dei conti Alberti, e dei
Comuni di Colle e di San Gemignano; e molto e variamente si faticarono,
sinchè l’anno 1202 (se pure ciò non fosse più tardi) per tradimento di
chi n’avea la guardia entrativi dentro, lo abbatterono con divieto che
mai più fosse riedificato. Sull’uscita dello stretto della Golfolina
dove comincia la valle inferiore dell’Arno è Capraia, dov’erano conti
della famiglia degli Alberti, e che ai Fiorentini pareva essere un
pruno negli occhi; ma poichè prenderlo non potevano, gli edificarono
all’incontro un altro castello, che a scherno del nome di Capraia
appellarono Montelupo. I conti Guidi, che dall’appennino sovrastavano
a Pistoia ed a Firenze, avevano spesse brighe e trattati e mutabili
nimicizie con l’una o coll’altra di queste città. Male potevano a quel
tempo difendere Montemurlo contro ai Pistoiesi, che a petto a quello
aveano posto il castello del Montale: ma i Fiorentini prima difesero i
conti Guidi, e poi da essi comprarono Montemurlo. Nel Mugello intanto
avean disfatto Combiata, dov’erano certi Cattani o Castellani signori
del luogo. Più altre fortezze abbatterono all’intorno, e già la potenza
del Comune si allargava fino alla valle di Chiana, dove ebbero in
accomandigia Montepulciano,[25] e in protezione tenevano gli uomini
di Montalcino. Il che fu causa che nei primi anni del nuovo secolo
più volte si affrontassero co’ Senesi; i quali vinti in più scontri,
prometteano di lasciare liberi quei luoghi che fossero in protezione o
in possesso del Comune di Firenze. Le città sorte nel tempo stesso e
con istituzioni somiglianti, ma senza comun freno nè vincolo (perchè
il principio dell’unità era straniero e nemico), si combattevano tra
di loro per ampliarsi ciascuna il contado, ovvero secondo volevano le
sètte, che già dividevano le membra lacere dell’Impero.


CAPITOLO III.
GOVERNO DI FIRENZE. — GUELFI E GHIBELLINI, BUONDELMONTI E UBERTI.
— AFFRANCAZIONE DEI CONTADINI. — GUERRE IN TOSCANA. — CACCIATA DEI
GUELFI. [AN. 1215-1219.]

Da tempo antico le città italiche generalmente si reggevano per
Consoli; il quale nome derivava ed era forse continuato dai magistrati
di Roma antica. Già intorno al mille Firenze viveva «sotto la signoria
di due Consoli cittadini col consiglio de’ Senatori, ch’erano cento
uomini de’ migliori della città, com’era l’usanza data da’ Romani.[26]»
Ravvisa ognuno qui i duumviri e il collegio de’ decurioni. So che
era boria cittadinesca l’annestarsi a Roma per via di leggenda, ma
qui è un fatto; e i Consoli si rinvengono per le città dell’Italia
meridionale qua e là senza lunghe intermissioni, dai tempi romani fino
al risorgimento dei Comuni. I quali che siano d’istituzione germanica
lo creda poi chi ne ha voglia.
In Firenze il numero dei Consoli variava più tardi secondo i tempi,
e se ne trovano sino a dodici; ma però sempre delle famiglie nobili,
perchè il governo della città rimaneva tuttora in mano degli ottimati:
e nobili sempre si mantennero anche dopo il 1200 quando essi, o alcuni
almeno di loro, si veggono pigliar nome di Consoli delle Arti. Un
documento,[27] a cui però non osiamo dare intera fede, noterebbe l’anno
1204 Consoli dei Giudici e Notai, de’ Cambiatori, delle Arti della Lana
e della Seta e di Calimala; uno preposto alle cose della giustizia,
e due i Consoli dei soldati. Vi è pure il nome di un Senatore. Le
Arti avrebbero avuto Consoli e Priori; vi sarebbe stato un Consiglio
generale ed uno speciale, e dieci Buoni uomini per Sesto. Certo è che
le Arti ogni dì più prevalendo, fu necessario con l’andare del tempo
che gli artigiani man mano ottenessero una più larga partecipazione
alle cose dello Stato. Già i Consigli si moltiplicano, ed i magistrati
rappresentano i sestieri o i quartieri o secondo che fosse la città
divisa. Il nome di _boni uomini_, che da principio significava gli
uomini per nascita ragguardevoli, si trova dato poi agli eletti
popolarmente dai collegi delle Arti o dai cittadini de’ sestieri. Nel
popolo insomma era la vita della città innanzi ancora ch’egli venisse
ad acquistarne la signoria.
Ma il supremo diritto appartenente all’Imperatore (diritto non
impugnato mai dalle città italiane) dovea pure soprastare al fatto
cittadino; e quando per la Lega lombarda le città s’attribuirono
un governo loro proprio e formalmente riconosciuto nella pace di
Costanza, ebbero esse un magistrato di natura mista, giudice insieme
ed ufiziale, in cui risedeva col nome di Potestà il diritto della
spada, e che si trova chiamato alle volte Signore del luogo. Questo da
principio l’Imperatore intendeva fosse da lui nominato ed investito,
ma raramente gli accadde di esercitare tale prerogativa; e le città
lo eleggevano a tempo di un anno o di sei mesi, avendo in sospetto
quell’autorità che stava in luogo della suprema: sempre però di
famiglia nobile anche nelle democrazie più gelose, e di schiatta
forestiera perchè la rettitudine dei giudizi non fosse travolta dalle
fazioni o dalle parentele. Teneva in Firenze egli da principio sua
residenza nel Vescovado, poi nel Palagio da lui chiamato: veniva con
molto accompagnamento; e sovrastando a ogni magistrato, aveva grandi
onorificenze, in nome suo intitolandosi gli atti pubblici: il suo
vestito era una lunga roba o bianca o gialla o di broccato d’oro, con
in testa una berretta rossa. Nell’anno 1184, che seguì a quello della
pace di Costanza, troviamo l’ufizio del Potestà ricordato la prima
volta in un atto pel quale i Lucchesi prometteano fare certe cose a
richiesta dei Consoli, del Potestà o d’altro Rettore della città di
Firenze. Ma chi tenesse quell’ufizio noi non troviamo allora, nè per
alcuni altri anni poi, che saltuariamente. Scrive il Malespini che
i Potestà cominciarono in Firenze l’anno 1207 per torre ai Consoli
la briga dei giudizi e questi fidare a uomini forestieri. Ma già nel
1193 si trova un potestà Caponsacchi stipulare in nome della città,
insieme co’ suoi consiglieri e sette rettori delle Arti. Costui sarebbe
stato di famiglia tra le più nobili di Firenze:[28] gli altri poi
furono sempre forestieri; ed un Porcari si trova insieme ai Consoli
dei mercanti pattuire in nome della città l’anno 1200, e continuare
nell’ufizio il seguente anno; quindi nel 1207 quel Grasselli milanese
che è nominato dal Malespini, confermato anch’egli per un altro anno:
poi nell’anno 1209 un atto simile a quello del 1193 avere il nome di
quell’ufizio non la persona; un Potestà essere in Firenze nel 1215,
ed un altro poi nel 1218; dopo al quale si vedono continuare senza
intermissione. Negli anni intermedi, quando gli atti solenni (come nel
1202 e 1212) non vanno in nome del Potestà, invece di quello abbiamo i
Consoli, o fossero del Comune o della Milizia o dei Mercanti. Volemmo
noi queste cose notare minutamente perchè importano alla storia del
diritto, incerto com’era tuttavia in Firenze; sembrando a noi che
mentre in Toscana le terre minori aveano a capo un Potestà, secondo
appare dagli atti loro, un tale ufizio non avesse per trentacinque anni
continuità in Firenze, dove alcune volte la suprema autorità ritornasse
in mano dei Consoli. Nè a tutti gli atti dai quali traemmo queste
indicazioni, veduti da uomo assai diligente, sapremmo noi negare fede,
tanto più che nell’avvicendarsi in cima agli atti dei nomi dei Consoli
con quello del Potestà, ne parve la sincerità di essi avere conferma.
Dall’anno 1218 in poi, non già che cessassero nella città i Consoli, ma
più non tenevano il supremo magistrato; e la rappresentanza cittadina
risedette d’allora in poi costantemente nel Potestà, che seco aveva
suoi consiglieri.[29]
I Vescovi non esercitarono in Firenze mai giurisdizione politica; e
questo ancora apparisce da tutta l’istoria, che il clero vi si mantenne
in ogni tempo assai cittadino, senza di che non può aversi città
ordinata nè religione pura. Gli Ottoni di Sassonia avevano fatto più
che non volessero a pro dell’Italia, quando, per gelosia dei conti e
de’ baroni, contrapposero alla feudalità i Comuni; e quando allargarono
i privilegi de’ vescovi, così accostandogli alla parte popolana
invece di rimanere tutti feudali e guerrieri, come gli avevano fatti i
successori di Carlo Magno. Nè sono io certo che debba tenersi per vera
quella opinione degli eruditi, la quale in oggi fa derivare il Comune
dalle immunità vescovili e dal collegio degli avvocati delle chiese;
ma è ben certo che nelle provincie meno aderenti all’Impero e che più
sentirono la riforma di Gregorio VII, il clero ed il popolo si trovano
uniti con più salda colleganza e con migliore temperamento. L’opera
di quel Pontefice fu intesa a distruggere il fatto dei Carolingi: e
nella guerra per le investiture si contendeva insomma se i vescovi
s’avessero a eleggere in nome di Dio o in nome del Principe, e se
tenere si dovessero pastori dei popoli o cortigiani dei re e capitani
delle masnade; e nell’Italia importava l’essere i vescovi e gli abati,
o italiani o tedeschi. Ma in Toscana la potenza dei marchesi e la forte
signoria di Matilde fecero che i vescovi e generalmente il clero,
dall’un lato contenuti, dall’altro venissero vie più ad accostarsi
alla civil comunanza. I monasteri ed i conventi anch’essi appartengono
all’istoria del popolo; ma qui non si vogliono descrivere le molte
abazzie fondate verso il mille dal marchese Ugo di Toscana e un secolo
dopo dalla contessa Matilde. Giova dire solamente quale principio
avesse il monastero di Valombrosa, che diede nome a una riforma o nuova
regola dei monaci di san Benedetto. Ciò fu intorno all’anno 1070 per
opera di Giovanni Gualberto dei signori di Petroio in Val di Pesa, il
quale incontrato presso alla chiesa di San Miniato un cavaliere ch’egli
cercava a morte come uccisore d’un suo fratello, e questi chiedendogli
mercè per Dio con le braccia in croce, Giovanni Gualberto punto da
misericordia gli perdonò; e lo menò ad offrire in detta chiesa, quivi
rendendosi monaco: donde poi salito essendo come eremita nell’alpe di
Valombrosa, radunava intorno a sè altri monaci, e fondava il nobile
edifizio che, ampliato dipoi ed abbellito dalle Arti, rendeva in
Toscana molto popolare la memoria di san Giovanni Gualberto.
Il nome di Guelfi e di Ghibellini, infino allora non mai pronunziato
dagli storici, apparve in Firenze l’anno 1215, nato ivi per una privata
contesa. Messer Buondelmonte della nobile casata de’ Buondelmonti,
leggiadro e splendido cavaliere, aveva promesso di tôrre in moglie una
fanciulla degli Amidei. Un giorno mentre egli cavalcava a diporto per
la città, una donna di casa Donati per nome Aldruda lo chiama e, scese
le scale, entra con esso in parole, non senza motteggiarlo perchè egli
sia per isposare l’Amidei, nè bella nè sufficente a lui. Io vi aveva
guardata, soggiunge, questa mia figlia; e gli mostra la donzella che
l’avea seguita. Questa era di rara bellezza, tantochè Buondelmonte
se ne accese, e senza pensare per nulla nè all’Amidei nè alla data
fede nè alla ingiuria che era per fare nè al rischio cui andava
incontro, rispose le cose non essere tanto innanzi che non si potessero
frastornare: non molto dopo la sposò a moglie. Di tale ingiuria gli
Amidei gridarono vendetta, e gli Uberti attizzarono quegli sdegni;
ai quali partecipando più altri parenti, molte delle più antiche e
nobili casate si congiurarono insieme di offendere Buondelmonte; e
disputandosi in che guisa, il Mosca dei Lamberti si levò su e disse la
mala parola: Cosa fatta capo ha; volendo dire, uccidiamolo e così al
fatto sarà dato principio. Nè stettero a perder tempo, perchè raunati
la mattina di pasqua di Resurrezione in casa degli Amidei da San
Stefano, veggendo venire d’oltrarno Buondelmonte in su uno palafreno
bianco, vestito nobilmente di nuovo di una roba bianca, si spinsero
innanzi; ed incontratolo appena ch’egli ebbe sceso il Ponte Vecchio,
appiè d’una statua di Marte che ivi era, avanzo del paganesimo;
Schiatta degli Uberti lo rovesciò da cavallo, Mosca de’ Lamberti e
Lambertuccio degli Amidei precipitandosi addosso a lui lo ferirono;
da Oderigo de’ Fifanti, che gli segò le vene, fu tratto a fine. Per
quella morte Firenze corse alle armi e a rumore; stettero i Guelfi co’
Buondelmonti, i Ghibellini con gli Uberti: e la città, non per anche
lastricata, divenne campo dove si combattevano vicini contro vicini;
secondo che le private nimistà, o l’aderire alla parte della Chiesa
o dell’Impero, divisero le famiglie, sì fattamente che di settantadue
casate nobili annoverate dal Malespini, trentanove divennero guelfe e
il rimanente ghibelline. Qui ebbero principio nella storia di Firenze
le interminate discordie; ed a noi tristo insegnamento viene dai fatti
che si compivano allora presso altre due nazioni oggi potentissime in
Europa. Imperocchè in quell’anno i baroni dell’Inghilterra congiunti
ai borghesi ponevano con la Magna Carta i fondamenti su’ quali
poterono nel corso dei secoli insieme crescere libertà e grandezza;
e in Francia, per contrarie vie, Filippo Augusto con la battaglia di
Bouvines accertava la grande unità che è forza ed anima dei Francesi.
I fatti d’Italia in quegli anni fecondissimi consumavano la libertà e
impedivano la grandezza.
Ma per allora e per trent’anni dopo, mentre che in Italia ardevano
guerre e si esercitavano più che in altro tempo mai atroci violenze,
da tante e sì varie miserie comuni rimaneva offesa meno delle altre