Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 16

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essere governata, non da uomini potenti de’ quali il nome ottenesse
fama per grandi geste e grande seguito, bensì da mediocri ed oscuri
cittadini e di famiglie che poi rimasero anche talvolta dimenticate,
sebbene altre pure ne fossero che appunto allora pigliavan luogo tra
le maggiori della città. Quella politica operosità che da più anni si
dispiegava con sufficiente concordia, o almeno senza civili guerre,
non ebbe capi che la guidassero, nè alcuna sorta di continuità ne’
magistrati e nei consigli, che si mutavano ogni tratto; e i divieti
erano molto lunghi; pareva che ognuno da sè facesse la parte sua,
gl’ingegni essendo molto arguti e gli animi eccitati, e questo popolo
mercatante avendo esteso l’azione sua molto al di là della breve
cerchia del suo piccolo territorio. Firenze condusse le cose sue
prosperamente quanto era dato a democrazia, che non è atta alle imprese
grandi; quella di Lucca ebbe mali effetti, come appresso racconteremo.
Il re Giovanni di Boemia nel partirsi che fece d’Italia, negli ultimi
giorni del 1334 aveva impegnato per poca moneta la città di Lucca
ai Rossi di Parma; e questi, inabili a tenerla, l’anno di poi la
rivenderono a Mastino della Scala. Costui, facendo suo grande pro
dell’abbassamento dei Visconti dopo la morte di Matteo e la discesa
del Bavaro, potè accrescere la potenza di casa Scaligera così da essere
egli divenuto a tutta Italia formidabile più che altro principe fosse
stato mai dopo la dissoluzione dell’Impero, per le ricchezze e per il
numero delle città che gli ubbidivano: dicevano ch’egli si avesse di
già fatto fare una corona d’oro per coronarsi in re d’Italia: Verona
credè tornati i tempi di Berengario. Quindi subito contro a lui si
collegarono i signori di Lombardia e di Romagna e le città di Toscana;
il re Roberto, impacciato nelle cose di Sicilia, prestava aiuto poco
valevole. Ma i Fiorentini all’impedire la formazione di uno Stato che
minacciasse le città libere, sempre andavano di grande animo;[182] e
avuta la meglio in un primo fatto d’arme sul colle più volte combattuto
del Cerruglio, allontanarono facilmente dalla Toscana la guerra. Nella
quale erano già entrati i Veneziani gelosi molto di quella potenza di
Mastino che già da più parti si avvicinava all’estuario, avendo Padova
e Treviso e altri luoghi circostanti: quella fu la prima volta che la
Repubblica di Venezia pigliasse parte molto attiva ne’ fatti d’Italia,
ogni suo studio essendo volto alle cose dell’Oriente. Cosicchè dopo
una lunga guerra, benchè di gran mole quanto il secolo concedesse,
non prima ebbe Piero dei Rossi capitano della Lega tolto a Mastino la
signoria di Padova, e questi anche perduto Brescia; i Veneziani, cui
bastava l’avere frenate le ambizioni dello Scaligero, fecero pace, ed
i Fiorentini bentosto poi gli seguitarono, anch’essi paghi di aversi
meglio assicurata la possessione delle castella di Valdinievole e di
quelle del Valdarno, che per l’addietro erano parte così dello Stato
come della diocesi di Lucca, allorchè era questa città, insin dai
tempi de’ Longobardi e sotto i primi Imperatori, quasichè a capo della
Toscana.
D’allora in poi conseguitarono alla Repubblica giorni tristi.
Nell’anno 1340 la peste orientale, venuta in Europa per le Crociate
e pe’ commerci, entrò in Firenze la prima volta. E fu scritto vi
perissero quindici mila persone; preludio a quello tanto maggiore e
assai più celebre esterminio il quale avvenne otto anni dopo. Alla
peste tenne dietro la carestia; ed in quel terrore volti gli animi
a pietà, decretarono il richiamo d’alcuni sbanditi, e parte dei beni
posti in comune restituirono alle vedove ed ai pupilli che rimanevano
dei ribelli morti: ammenda scarsa alle ingiustizie.[183] E in quello
stesso anno Mastino avendo perduto Parma, la quale venne in potestà
dei signori da Correggio, fece mercato co’ Fiorentini per la vendita
di Lucca, poichè vedeva essergli chiusa a soccorrere questa città la
via solita della Lunigiana. Più volte aveano i Fiorentini rifiutato
quella compra per poca moneta; ora accettarono il trattato per
dugentocinquanta mila fiorini d’oro: ma i Pisani, che temevano sopra
ogni cosa vedere Lucca in mano ai troppo già prepotenti rivali loro,
strinsero lega co’ Visconti di Milano e altri signori di Lombardia; e
insieme con essi rotta la guerra, si afforzarono presso alla stessa
città di Lucca. Questa riuscirono ad occupare i Fiorentini con poca
gente; ma tosto dipoi avuta la peggio in un grande fatto d’arme, e
inferiori per la qualità e per il numero dei soldati e mal serviti di
capitano, si trovavano a mal partito. Chiesero aiuto al re Roberto; ma
essendo da lui menati in parole senza cavarne alcun soccorso, tuttochè
Guelfi, non dubitarono, a suggerimento di Mastino, volgersi al Bavaro
il quale era in quei giorni venuto a Trento. Si vidde allora ciò che
importasse quel nudo nome d’Imperatore: mandava egli poche diecine (chè
altro non aveva) di cavalieri tedeschi: voleva però fosse in Toscana
riconosciuto un vicario dell’Impero, il che era disfare e capovolgere
ogni cosa; e parte guelfa si risentì, e molti baroni e prelati e
ricchi uomini napoletani, a un tratto rivollero il danaro che tenevano
depositato nei banchi di Firenze, talchè fallirono molte case, ed ai
mercanti fiorentini mancò la credenza, ch’era il nerbo dello Stato.
Radunarono contuttociò intorno a Lucca un grande esercito, ma di nessun
frutto; dal che il nostro maggior cronista piglia occasione a rilevare
come le guerre stieno male alle repubbliche mercatanti, e che i soldati
son da condurre non da mandare al combattimento.[184] Aveva egli alle
prime guerre che si facevano contro a’ Ghibellini veduto accorrere la
città intera; e cavalieri e popolani erano morti in buon numero contro
Uguccione a Montecatini, nè alla sconfitta dell’Altopascio mancò il
sangue cittadino benchè più scarso: piaceva adesso agli uomini delle
botteghe restare a casa e far le spese ai soldati mercenari; del che
avevano facoltà, come vedemmo in altro luogo. Le insegne imperiali
venute nel campo guelfo non bastarono, e ai Fiorentini avvenne
quello che più temevano; i Pisani ebbero al fine di quella guerra la
possessione della città di Lucca, la quale tennero ventisette anni.


CAPITOLO III.
IL DUCA D’ATENE. [AN. 1342-1343.]

Le guerre esterne ed i mali pubblici che in città bene ordinata hanno
virtù di unire gli animi, viepiù in Firenze gli dividevano, mancando
quivi l’accumunarsi nella disciplina delle armi o negli uffici dello
Stato; quelle fidate a mercenari, ed una parte dei cittadini essendo
esclusi da ogni ingerenza che desse grado nella Repubblica. I grandi
erano in Firenze anch’essi popolo quanto alle gravezze che più degli
altri pagavano, ma battuti dalle leggi e dai magistrati popolani e
dai giudici o rettori chiamati sempre ai loro danni; potenti però
tuttavia per l’ampiezza delle possessioni o per l’antica autorità
sopra gli uomini del contado, stretti per leghe e parentele co’ signori
de’ castelli e in tutta Italia co’ baroni e co’ principi delle città
che dipendevano dall’Imperatore.[185] Quindi era il popolo sempre
in guardia, e le milizie cittadine bene ordinate e numerose, ognora
pronte a quella guerra che sola amassero, contro a’ nobili; onde il
sospetto cresceva sempre nei danni pubblici e bastava a fare insorgere
questa guerra. In mezzo ai guasti di quel diluvio che fu nell’anno
1333, i grandi avendo in forza loro il sesto d’Oltrarno e il solo
ponte che rimanesse, temette il popolo qualche novità, e in mezzo a
quelle devastazioni per poco stette non si venisse tra le due parti
a civil battaglia. Nell’anno 1340 (e tristo a dire, cessato appena il
flagello della peste), era in Firenze, oltre al Potestà e al Capitano
del popolo e all’Esecutore, un Capitano della guardia o bargello creato
di fresco a fare di quelle che le parti chiamano giustizie: era costui
un malvagio uomo di quella casa dei Gabbrielli da Gubbio, d’onde altri
uscirono a lui consimili strumenti agli odii cittadineschi, lasciando
brutta celebrità. Aveva egli condannato per lievi cagioni uno dei Bardi
e uno dei Frescobaldi, le due maggiori tra le famiglie grandi; le quali
perciò si congiurarono tutte insieme e co’ Tarlati e gli Ubaldini ed i
Pazzi di Valdarno e i Guazzalotri di Prato e i Belforti di Volterra e
quanti erano in Toscana avversi agli ordini popolari. Nascevano Piero
ed il vescovo Tarlati da una donna de’ Frescobaldi, i Pazzi tenevano
case e amistà dentro a Firenze. Al primo annunzio della congiura la
città fu in arme; e a que’ di fuori chiusa la via con la prestezza, ed
avendo già forzata il popolo molta parte del sesto d’Oltrarno, erano
i grandi in cattive strette, allorchè il Potestà, che era Maffeo da
Ponte Carali da Brescia, francamente con sua compagnia passato il ponte
Rubaconte, comunque ciò fosse con pericolo di sua persona, parlò ai
congiurati con savie parole, e con cortesi minaccie gli condusse la
notte sotto la sua sicurtà e guardia a partirsi di città; del che fu
egli assai commendato. Si venne poi alle condanne; e perchè a procedere
contra coloro che aderivano alla congiura ma non si erano scoperti,
sarebbe stato troppo gran fascio, bastò avere condannato negli averi e
nelle persone, oltre a pochi altri, presso che trenta delle maggiori
due casate. Non erano tutti (per quel ch’io mi creda) congiunti di
sangue, ma forse consorti, siccome dicevano allora, per carta, di
cosiffatte consorterie essendo molto grande usanza, talchè mutavano i
casati pigliando quello del più possente. Furono i palazzi di quelle
famiglie messi in puntelli nella città e nel contado, e guasti infino
a’ fondamenti; fu vietato a’ cittadini tenere castello che fosse meno
di venti miglia lungi dai confini del contado o del distretto; posero,
invece d’uno solo che era prima, due Capitani della guardia, che uno
in città, l’altro nel contado: ordinarono che ogni popolano, il quale
potesse, fosse armato di corazza e di barbuta alla fiamminga; furono
in tutto più di seimila, e molte balestre. Ed a viemeglio fortificarsi,
tolsero il bando agli sbanditi, solo che pagassero certa gabella; ma fu
grande male recare in città molti rei uomini e malfattori.[186]
Tuttociò era inteso a conservare lo Stato di quelli i quali teneano
nelle loro mani la Repubblica, venuta allora a duro passo. Dal
principio della guerra una Balìa di venti cittadini popolani fu
istituita ad amministrarla con facoltà di levare tasse in quel
modo che volessero, o fare guerra o pace o leghe, senza sindacato.
Quest’era un porgli sopra le leggi; e in ciò si mostrava la mala
costituzione della Repubblica fiorentina, ch’essa era ogni tratto
costretta ricorrere a tali balìe o dittature fidate a molti; pessime
sempre perchè in esse, tra gli altri vizi, entra il disordine che
si ha in animo riparare. I Venti erano di quei popolani grassi, ai
quali o ad alcuni tra essi appartenne quasi direi legittimamente
per tutto il tempo della Repubblica il governo dello Stato, ma senza
formare tra sè un ordine che avesse fermezza alcuna nè continuità, nè
a’ grandi casi virtù bastante. Il Comune aveva dugentosessanta mila
fiorini d’oro l’anno di rendita assisa (come la chiamavano), ed essi
lo avevano indebitato verso i cittadini suoi di quattrocento mila
fiorini. Sapevano essere diffamati per mal governo e baratterie, con
l’accostarsi all’Imperatore aveano offeso la parte guelfa; e mercatanti
com’essi erano, cercavan modo a rassicurare que’ loro amici napoletani
che richiedevano i depositi. A queste loro difficoltà parve giungesse
molto opportuno Gualtieri di Brienne duca d’Atene e conte di Lecce
nella Puglia, ch’essendo già stato (come noi vedemmo) luogotenente pel
duca di Calabria nella guerra di Castruccio, aveva lasciato di sè buon
nome nella città: veniva da Napoli, ma non però di commissione del re
Roberto, con bella compagnia di gente d’arme, a cercare sua fortuna.
Era Gualtieri di grande sangue dei reali di Francia, e aveva ragioni
nel regno di Cipro; di molta entrata ma bisognoso, piccolo e brutto
e barbuto, scaltro e disleale, nutrito in Grecia più che in Francia.
Grande favore godeva egli presso ai re della casa di Valois, e quindi
ancora presso a’ pontefici che in Avignone dimoravano assai devoti a
quella corte.
Messi alle strette i Reggitori, e non trovando altro partito, prima
lo elessero Conservatore del popolo e Capitano della guardia, poi
gli diedero per un anno la capitaneria generale della guerra, e che
potesse fare giustizia personale nella città e fuori. Ma egli veggendo
la città divisa, e fatto cupido di maggiori cose, cominciò tosto a
praticare intelligenze co’ grandi che di continuo cercavano rompere
gli ordini del popolo; a’ quali si aggiunsero anche di quei grossi
popolani i cui banchi erano in fallimento, e non potendo del proprio,
si confidavano di quel d’altri pagare i loro debiti. Da costoro era
il Duca visitato segretamente in Santa Croce, dove egli aveva preso
dimora, e da essi molto sollecitato: quindi per darsi riputazione di
severo e di giusto, e per quella via accrescersi grazia nella plebe,
quelli che avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava. Fece
ad un Medici e ad un Altoviti mozzare il capo; condannò a morte uno
dei Ricci e uno degli Oricellai (così chiamati da una tinta gialla di
cui tingevano i loro drappi), a’ quali dipoi fece grazia della vita.
Erano quattro delle maggiori famiglie uscite di mezzo al popolo,
e assai potenti di parentadi e di ricchezze: i falli apposti ai
condannati non avean prove a sufficienza, ed essi chiari per gli alti
uffici esercitati nella Repubblica, tenuto avendo anche più volte il
Gonfalonierato e alcuni essendo stati dei Venti.[187] A questo modo
si rendeva egli nella città molto ridottato; ma i grandi ed il popolo
minuto, soliti essere soverchiati dalla prepotenza dei mezzani, a quei
fatti molto applaudivano; e quando il Duca cavalcava per la città, la
plebe gridava Viva il Signore; quasi in ogni canto e palagio di Firenze
aveano dipinto l’arme sua, gli uni per avere da lui favore, gli altri
per tema. Quindi parendogli ogni cosa poter tentare sicuramente, fece
intendere ai Priori che per il bene della città giudicava necessario
gli fosse data signoria libera: ma essi, co’ Dodici buonuomini, e i
Gonfalonieri delle compagnie e i Consiglieri, in nulla guisa vollero
acconsentire di sottomettere la libertà della Repubblica di Firenze
sotto giogo di signoria a vita; il che non fu mai acconsentito nè ad
imperatore nè al re Carlo nè ad alcuno suo discendente. Il Duca allora,
che si fidava sopra l’aiuto de’ grandi e il favore della plebe, fece
pubblicare per la città che nell’indomani egli farebbe parlamento sulla
piazza di Santa Croce, per il bene del Comune. Al quale annunzio i
Priori ed i principali dei Consigli essendo entrati in grande sospetto,
andarono a sera tarda in Santa Croce, per quivi trattare d’accordi col
Duca. Una parte della notte si consumò in discorsi, ed alla fine rimase
conchiuso che la Signoria sarebbe a lui data per un anno con quella
stessa giurisdizione ch’ebbe il Duca di Calabria; il quale accordo si
fermò per vallati e pubblici strumenti, avendo il Duca sacramentato
conserverebbe il popolo in sua libertà e l’ufficio de’ Priori e gli
Ordini della giustizia.
La mattina che fu il dì 8 di settembre 1342 il Duca fece armare la
sua gente, circa a centoventi uomini a cavallo, e aveva in Firenze da
trecento de’ suoi fanti, e quasi tutti i grandi gli erano a’ fianchi:
Giovanni Della Tosa ed i suoi consorti erano a cavallo insieme con
gli altri con le armi coperte, e l’accompagnarono da Santa Croce alla
piazza de’ Priori. La Signoria scese di palazzo, ed essendosi posti a
sedere col Duca in sulla ringhiera, uno dei Priori avea cominciato a
parlare, alloraquando la plebe ed alcune masnade di quelle venute co’
grandi l’interruppero gridando: _che sia la Signoria del Duca a vita,
che il Duca sia nostro Signore!_ I grandi allora presolo a un tratto
tra le loro braccia, lo condussero al Palagio; e perchè questo era
serrato, forzando la porta, misero il Duca in Palagio ed in signoria,
cacciando vilmente i Priori nella sala delle Armi. Quindi per alcuni
dei grandi fu tolto via il Gonfalone, e il libro degli Ordini della
giustizia stracciato, e poste le bandiere del Duca in sulla torre, e
suonate le campane a Dio laudiamo: il Potestà e il Capitano del popolo
assentirono al tradimento. Due giorni dopo si fece il Duca confermare
signore a vita per gli opportuni Consigli; e mise i Priori fuori del
Palagio in una casa privata con poca guardia, levando loro ogni ufficio
ed autorità, senza rifare il Gonfaloniere: tolse le armi a tutti
quei cittadini, qualunque si fossero, i quali avevano privilegio di
portarle. Otto dì poi fece il Duca grande festa e solennità a Santa
Croce, ed il vescovo Acciaiuoli sermonando commendava innanzi al
popolo le magnificenze del nuovo signore. Per tale modo il Duca d’Atene
usurpava il principato. Poco dipoi Arezzo, Pistoia, Colle di Valdelsa,
e fuor del dominio della città di Firenze San Gimignano e Volterra, se
gli diedero in potestà. Raccoglieva egli intorno a sè tutti i Francesi
e Borgognoni ch’erano in Italia, dei quali ebbe tosto più di 800, e
molti de’ suoi parenti ed amici vennero di Francia. «Recarono questi
in Firenze nuove foggie di vestire, che anticamente era il più bello e
nobile e onesto che di niuna altra nazione, a modo di togati romani;
ora pigliarono i giovani una cotta ovvero gonnella corta e stretta,
che non si poteano vestire senza l’aiuto altrui, e una correggia come
cigna di cavallo con isfoggiata scarsella alla tedesca dinanzi, e il
becchetto del cappuccio lungo insino in terra per avvolgerlo al capo
per lo freddo, e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri in arme; e
i cavalieri vestiti d’uno sorcotto ovvero guarnacca stretta, e le punte
dei manicottoli lunghe infino a terra, foderati di vaio e ermellini,
come per natura siamo disposti noi vani cittadini a contraffare gli
stranii oltre al modo d’ogni altra nazione, sempre traendo al disonesto
e a vanitade.» Trascrivo parole del vecchio cronista, il quale narra
pure, come i fatti del Duca d’Atene essendo rapportati al re di Francia
Filippo VI di Valois, dicesse questi a’ suoi baroni: _Albergé il est
le pélerin, mais il y a mauvais hostel_.[188] Il re Roberto scrisse al
Duca ammonendolo stesse col popolo e conservasse gli ordini popolari,
senza di che gli vaticinava non manterrebbe lo stato suo a lungo tempo
nella città.
Il Duca dipoi fece la pace co’ Pisani, i quali dovessero tenere
Lucca per quindici anni, con altri patti che riuscirono poco graditi
ai Fiorentini. A’ 15 ottobre creò in Firenze nuovi Priori, senza
Gonfaloniere; i più, artefici minuti e mischiati di quegli, che i loro
antichi erano stati Ghibellini: ad essi diede un gonfalone tripartito,
dov’era l’arme del Duca in mezzo tra l’insegna del Comune e quella
del Popolo, e sopra il rastrello dell’arme del re. Con che egli venne
a scontentare tutti gli ordini della città; e i grandi, che prima
lo avevano fatto signore perch’egli in tutto annullasse il popolo,
se ne turbarono forte, massime quando egli ebbe fatto condannare uno
dei Bardi, il quale aveva stretto la gola ad un suo vicino popolano
che gli diceva villania. Cassò l’ufficio dei Gonfalonieri delle
compagnie e ogni altro pel quale fosse la plebe sotto l’autorità dei
popolani di maggior conto; il Duca reggendosi co’ beccai, vinattieri
e scardassieri, ad essi dando consoli e rettori al loro volere, e
disfacendo gli ordinamenti delle Arti, pei quali solevano avere regola
i salari; in che era il forte della contesa tra il grasso popolo e il
minuto. Fece torre ai cittadini anche le balestre grosse; ed al Palagio
del popolo fece nuove antiporte, e ferrare le finestre della sala di
sotto, dove si faceva il Consiglio; e volle comprendere intorno al
Palagio un grande circuito di grosse mura e torri e barbacani, per fare
col Palagio insieme un grande e forte castello, il quale egli cominciò
a fondare; lasciando il lavorìo d’edificare il Ponte Vecchio, ch’era di
tanta necessità al Comune di Firenze, togliendo di quello pietre conce
e legname: disfece le case, ed anche volle disfare le chiese ch’erano
dentro a quel compreso per fare piazza, e altre belle case tolse ai
cittadini, mettendovi dentro di suoi baroni e di sua gente. Di donne
e di donzelle de’ cittadini per sè e per sue genti si cominciarono a
fare violenze e molto laide cose; infra le altre, per cagione di donna
tolse Sant’Eusebio a’ poveri di Cristo che era alla guardia dell’Arte
di Calimala, e lo diè altrui illicitamente. Levò a’ cittadini gli
assegnamenti fatti loro sopra le gabelle per i danari ch’essi avevano
dovuto prestare per forza a tempo delle guerre di Lombardia e di Lucca,
ch’erano più di trecentocinquanta mila fiorini d’oro assegnati in più
anni con alcuno guiderdone; e questo fu grande male e rompimento di
fede, e molti ne furono diserti. Fermò le paghe dovute a Mastino della
Scala per la matta compera di Lucca, talchè gli statichi ne rimasero
due anni poi in Verona, e la Repubblica restaurata, per liberarli,
dovette pagare centotto mila fiorini d’oro. Recò a sè tutte le gabelle
che andavano a più di dugento mila fiorini, senza l’altre entrate e
gravezze: fece fare l’estimo in città ed in contado, e fecelo pagare,
che montò a più di ottanta mila fiorini; onde i grandi e popolani e
contadini, che vivevano di loro rendite, se ne teneano forte gravati,
siccome erano i cittadini di continuo con le prestanze; e fece creare
nuove e sformate gabelle. Sicchè in dieci mesi e diciotto dì ch’egli
regnò signore, gli vennero alle mani quattrocento mila fiorini d’oro
solo di Firenze, dei quali mandò tra in Francia e in Puglia più di
fiorini dugento mila; perocchè in tutte le terre signoreggiate da
lui non teneva più di ottocento cavalieri, e quegli pagava male, che
al bisogno della sua ruina se n’avvidde. Costrinse i mallevadori di
quello degli Oricellai o Rucellai, del quale sopra abbiamo detto, a
farlo tornare con sua securtà dal confine dov’egli era stato mandato a
Perugia; ma non serbandogli fede, lo fece impiccare con una catena al
collo, acciocchè non potesse essere spiccato, e tolse ai mallevadori
cinque mila quattrocentoquindici fiorini d’oro, opponendo che il
Rucellai gli avea frodati al Comune in Lucca; i beni di quella famiglia
confiscò a sè. Creò nel contado sei potestà con grande balìa di poter
fare giustizia, e grossi salari: i più furono delle case de’ grandi,
e di quelli che erano stati ribelli e rimessi in Firenze di poco: la
qual nuova potestà molto dispiacque a’ cittadini, e più a’ contadini
che portavano la spesa e la gravezza. Crudeli e sconce giustizie faceva
contro a’ cittadini, e due ne mise a morte barbaramente perchè gli
avevano rivelato trattati o congiure fatte contro lui, ma egli credette
che lo dicessero per inganno.
Potestà era per il Duca messer Baglione dei Baglioni da Perugia, e
Conservatore Guglielmo d’Assisi; Simone da Norcia giudice sopra il
rivedere le ragioni del Comune, ed era più barattiere di coloro che
condannava per baratteria: di suo consiglio erano il Giudice di Lecce
ed il Vescovo d’Assisi fratello del Conservatore, il Vescovo d’Arezzo
degli Ubertini, e un Tarlati da Pietramala, il Vescovo di Pistoia e
quello di Volterra, e messer Ottaviano de’ Belforti; ma questi erano
d’apparenza, tenuti da lui per sicurtà delle loro terre. Co’ cittadini
aveva di rado consiglio; i Priori erano in nome, ma non in fatto;
le sue lettere sottoscriveva _dux et dominus Florentinorum_;[189]
ed egli poi si ristrigneva con messer Baglione, e il Conservatore,
e Cerrettieri de’ Visdomini fiorentino di casa di grandi, uomini
corrotti in ogni vizio a sua maniera. Teneva giostre in sulla piazza
di Santa Croce, ma pochi grandi e popolani vi giostrarono; fece
sei brigate di gente del popolo minuto, del quale cercava recarsi
l’amore, ma poco gli valse. La festa di san Giovanni, fece fare alle
Arti al modo antico, senza gonfaloni; e la mattina della festa, oltre
a’ ceri usati delle castella del Comune ch’erano da venti, ebbe da
venticinque drappi, ovvero palii ad oro, e sparvieri e astori per
omaggio d’Arezzo, Pistoia, Volterra, e da San Gimignano e da Colle, e
da tutti i Conti Guidi e da Mangona e da Cerbaia e da Monte Carelli
e da Pontormo, e dagli Ubertini e dai Pazzi di Valdarno e da ogni
baroncello o conticello d’attorno e dagli Ubaldini. A’ 2 di luglio il
Duca fermò lega e taglia con Mastino della Scala e co’ Marchesi da Este
e col signore di Bologna: e prima l’aveva fatta coi Pisani, la quale
molto dispiacque a’ Fiorentini e a tutti i Toscani guelfi, e poco si
osservò; perchè non era piacevol mischiato nè buona compagnia, dice il
Villani; del quale abbiamo sin qui pigliate in prestito molte parole,
come sovente facciamo, perchè l’istoria di Firenze verrebbe ad essere
conosciuta male quando gli storici non si conoscessero.
Era in Firenze un antico proverbio, il quale diceva: «Firenze non si
muove se tutta non si duole.» Non ebbe ancora il Duca regnato tre mesi,
e tutti gli ordini della città a lui si erano nimicati; i grandi per
non avere riavuto lo Stato, ed i grossi popolani perchè lo avevano
perduto, ed i mezzani e minuti artefici perchè il mal governo aveva
fatto cessare i guadagni. S’aggiungevano poi le insolenze di signoria
francese, gli oltraggi alle donne, e le rapine e crudeltà; cosicchè ad
un tratto più congiure si formarono contro al Duca, tutti correndo allo
stesso fine celatamente per vie diverse. Dell’una era capo il vescovo
Acciaiuoli, quel medesimo che prima avevalo magnificato nelle sue
prediche; e con lui erano i Bardi e i Frescobaldi e altri de’ grandi
stati rimessi dal Duca, e le famiglie dei popolani i quali, a fine di
racconciare loro private fortune, a lui si erano accostati. Avevano
essi trattato coi Pisani ed altri di fuori per assalirlo in Palagio;
ma egli si provvidde col mutare due volte le guardie e crescere le
difese, talchè il fatto andava in lungo. Una seconda congiura, nella
quale erano i Donati e i Pazzi ed i Cerchi, voleva porgli le mani
addosso quando egli andasse in casa degli Albizzi a veder correre il
Palio; ma per sospetto non vi andò. Nella terza si accoglievano in
maggior numero di quei popolani che più erano stati offesi, tra’ quali
i Medici ed i Rucellai; ma innanzi a tutti un Antonio degli Adimari
di casa i grandi. Era questa la congiura più vasta e possente e pronta
alle opere: se non che un masnadiere senese comunicava la cosa ad uno
de’ Brunelleschi, non per iscoprirla, ma per credere che egli fosse uno
de’ congiurati; ed il Brunelleschi, per non essere incolpato, la rivelò
al Duca, e a lui condusse il masnadiere: onde che altri furono presi e
infine richiesto lo stesso Antonio degli Adimari; il quale, tenendosi
sicuro per la grandezza sua, comparve in Palagio, dove anch’egli fu
ritenuto. Il che saputosi, molti altri dei principali di ogni sètta
o si nascosero o fuggirono, e la città era in tremore. Ma il Duca
trovando la congiura contro a lui sì grande, ed egli essendo uomo di
piccola levatura e poca fermezza, non sapeva che si fare; ed anzichè
correre la terra con la sua gente e col favore del popolazzo minuto,
indugiò aspettando altre masnade di fuori e trecento cavalieri che a
lui mandava da Bologna Taddeo de’ Peppoli signore o tiranno di quella
città. S’appigliò intanto ad un partito, il quale fu a lui cagione
ultima di ruina. Fece richiedere trecento dei principali cittadini,
sotto colore di volersi nei casi presenti consultare seco loro, e mandò
fuori i suoi sergenti per la città con le liste, nelle quali erano
compresi molti ancora dei congiurati. Ma la cattura dell’Adimari, ed
il sapersi delle masnade che il Duca aspettava, posero grande sospetto
negli animi dei cittadini; corse gran voce e dipoi fu scritto che egli
volesse, una volta che tutti fossero in Palagio, assicurarsi di loro
o con la morte o in altro modo, e disertare la città per indi averla
a discrezione. Talchè i richiesti, comunicando gli uni agli altri il
sospetto, tutti negarono ubbidire; e scoprendosi l’una sètta all’altra,
di grande accordo, e diponendo tra loro ogni ingiuria e malevolenza,
deliberarono levarsi in arme contro al Duca.
Venuto dunque il dì seguente, che era sabato 26 luglio 1343, giorno
di sant’Anna, all’ora di nona quando erano usciti i lavoranti dalle
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