Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 17

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botteghe, certi ribaldi e fanti in Mercato vecchio, com’era ordinato,
s’azzuffarono insieme gridando All’arme all’arme; e incontanente tutti
i cittadini corsero a sgombrare i cari luoghi, e s’armarono traendo
ciascuno a sua contrada e vicinanza, mettendo fuori le bandiere di
cheto rifatte con le armi del Popolo, e gridando _Muoia il Duca e i
suoi seguaci, Viva il Popolo e il Comune e la Libertà!_ E di presente
fu asserragliata la città a ogni capo di via: e quegli d’oltrarno
grandi e popolani si giurarono insieme e si baciarono in bocca, facendo
sbarre ai capi de’ ponti con intenzione, se tutta l’altra terra di qua
dall’acqua si perdesse, di tenersi francamente nel sesto di là; prima
avevano mandato chiedendo aiuti ai popoli circonvicini. La gente del
Duca, sentendo il romore, montò a cavallo; e chi potè fare in tempo,
corsero alla piazza del popolo in numero di trecento; furono gli
altri presi, o morti o feriti per gli alberghi e per le vie, e rubati
i cavalli e le armi. Uguccione de’ Buondelmonti ed i suoi consorti,
i Cavalcanti ed alcuni altri di case di grandi, con dei beccai e
scardassieri, andavano verso il Palagio gridando _Viva il Signore lo
Duca_; Giannozzo de’ Cavalcanti, montato sopra un desco da tavernai,
gridava al popolo che traeva in piazza: _Non andate, chè voi sarete
tutti morti_: ma visto ch’ebbero come il fatto andava, se ne tornarono
a casa o seguitarono il popolo, eccetto Uguccione rimasto poi nel
Palagio insieme co’ Priori delle arti, che ivi si erano rifuggiti.
Quelli del popolo, occupate le bocche delle vie che vanno in piazza,
e quelle sbarrate, si combatterono lungamente con la gente armata del
Duca, finchè la sera medesima non furono questi costretti a fuggirsi
dentro il compreso del Palagio, lasciando fuori i cavalli. Amerigo
Donati e più altri, co’ loro parenti o amici, assalirono allora le
carceri delle Stinche con tanto vigore che, aiutati dai rinchiusi,
gli ebbero tutti liberati; e con quell’impeto avviatisi al palagio
del Potestà, lo combatterono; insinchè essendosi il Potestà fuggito
con grande paura, fu quel palagio saccheggiato, le carte bruciate, la
prigione aperta: ruppero poi la camera del Comune ed arsero i libri
dov’erano scritti i banditi ed i ribelli; e similmente quelli degli
atti della Mercatanzia: altre violenze non si fecero, se non contro la
gente del Duca. Allora quelli d’oltrarno, avendo aperte le sbarre dei
ponti, valicarono di qua dall’acqua a piedi e a cavallo, e insieme con
gli altri, fatti levare i serragli delle vie maestre, liberamente e da
più lati e con le insegne del popolo alzate, e grida e plausi, mossero
tutti per la città verso il Palagio. Erano più di mille a cavallo, e a
piè diecimila cittadini armati a corazze e barbute come cavalieri; «il
quale popolo fu molto nobile a vedere così possente ed unito.»
Il Duca assalito così fieramente, e non avendo in Palagio che
quattrocento uomini, e quasi altro che biscotto, aceto e acqua, tardi
cercando guadagnarsi la grazia del popolo, la domenica mattina creò
cavaliere Antonio degli Adimari, che non voleva saperne; e poi lasciato
lui e gli altri i quali erano in custodia, fece levare le insegne sue
di sopra il Palagio, e porvi quelle del Popolo; ma non per questo cessò
l’assedio. La domenica notte giunse il soccorso dei Senesi, trecento
cavalieri e quattromila balestrieri, molto bella gente, e con loro sei
grandi popolani Senesi per ambasciatori. San Miniato inviò dugento
fanti ben armati, e Prato cinquecento. Il conte Simone, ch’era dei
Guidi da Battifolle, ne condusse quattrocento; e il dì seguente venne
grandissima quantità di contadini bene armati, di modo che la città
si trovò piena di gente del contado e di cittadini in arme. Da Pisa
venivano cinquecento cavalieri; ma perchè essi erano stati richiesti
dai grandi senza il consenso del Comune, ne fece il popolo grande
mormorio e il Comune gli rimandò; furono assaliti, nel tornarsi, da
quelli d’Empoli e di Montelupo e di Pontormo e di Capraia, e presi e
morti più di cento.
Il Vescovo intanto e altri popolani fecero bandire parlamento, e
congregati in Santa Reparata il lunedì seguente, tutti in arme, di
grande accordo elessero quattordici cittadini, sette grandi e sette
popolani, con grande balìa di riformare la città e fare ufficiali e
leggi e statuti; e a far le veci del Potestà deputarono tre cittadini
grandi e tre popolani, i quali tenessero ragione sommaria delle
violenze e ruberie, ma non avessero altro ufficio. Nè in questo mezzo
il popolo si ristava dal combattere il Palagio e andare cercando gli
ufficiali del Duca; e quanti poterono per la città rinvenire, o celati
nelle case o che fuggivano travestiti, erano uccisi a furore, ed i
fanciulli trascinavano i corpi ignudi per la città. I Quattordici ed
il Vescovo e gli ambasciatori senesi e il conte Simone si cercavano
intromettere e fare accordi col Duca, al quale fine alcuni di loro
a parte a parte si vedevano entrare ed uscire dal Palagio, benchè
poco piacesse al popolo; nè assentiva questi alcuna concordia, se non
avesse nelle mani il Conservatore Guglielmo d’Assisi ed il figliuolo,
e Cerrettieri dei Visdomini, per farne vendetta. Ciò il Duca negava,
ma infine minacciato dai Borgognoni i quali erano rinchiusi seco,
si lasciò sforzare. «Appariscono (dice il Machiavelli) gli sdegni
maggiori quando si ricupera una libertà che quando si difende.» Il
primo d’agosto in sull’ora della cena i Borgognoni pinsero fuori
della porta del Palagio, in mano dell’arrabbiato popolo, il figliuolo
del Conservatore, giovinetto di diciotto anni, vestito a bruno
dolorosamente; e quei furiosi lo tagliarono e smembrarono in minuti
pezzi nella presenza del padre; il quale, pinto fuori anch’egli, ebbe
lo stesso governo; e chi ne portava un pezzo in sulla lancia e chi
in sulla spada per la città; e vi ebbero de’ sì crudeli e bestiali
i quali si dissero avere mangiato le carni crude di quei miseri. Il
che fu scampo del Visdomini, che doveva essere il terzo; ma saziati i
suoi nemici non lo addomandarono, e si fuggiva poi di città. Il Duca
si arrese quel giorno medesimo, e cedè il Palagio, salve le persone,
rinunziando ogni signoria o ragione che avesse egli nella città, e
a cautela promettendo ratificare ciò quando fosse fuori del contado
e distretto di Firenze. Rimase però tre altri giorni per paura; e
quando il popolo fu racquetato, uscì di Palagio accompagnato dalla
gente dei Senesi, dal conte Simone e da taluni dei maggiori cittadini
grandi e popolani, datigli a guardia dai reggitori. Giunto a Poppi,
ch’era la principale terra dei conti Guidi, ratificò male a grado la
promessa; quindi per Bologna andò a Venezia, ed ivi noleggiate due
galere, si tornò in Puglia. Partito il Duca, si disfecero i serragli,
s’apersero le botteghe; e i Quattordici cassarono gli atti del Duca,
salvo le paci da lui fatte tra’ cittadini, che fu (come scrivono) la
sola buona cosa ch’egli facesse: anche gli posero taglia addosso, del
che ebbero poi grave dissidio coi re di Francia; e lo fecero dipingere
vituperosamente, lui ed i suoi satelliti, nella Torre del palagio del
Potestà. Ordinarono che il giorno di sant’Anna fosse come pasqua; e
anche oggi si veggono appese in quel dì le bandiere delle Arti in giro
attorno al bell’edificio il quale ha nome di Or San Michele.[190]


CAPITOLO IV.
CACCIATA DEI GRANDI. — PESTE IN FIRENZE. [AN. 1343-1348.]

Caduto il tiranno, le terre o città a lui soggette si ribellarono;
Arezzo e Pistoia si ridussero a libertà e disfecero i castelli che
i Fiorentini aveano fatti, Volterra tornò in signoria dei Belforti,
e Castiglione Aretino di nuovo diedesi ai Tarlati: seguitarono
l’esempio presso che tutte le altre maggiori terre del dominio della
città di Firenze. E come agli oppressi di fuori era stata l’occasione
buona, così anche parve essere a quelli di dentro: chiedeano i
grandi avere parte negli uffici, poichè erano stati insieme con
gli altri a racquistare la libertà; al che assentivano certi grossi
popolani, o, come dicevano in Firenze, le _Famiglie_, alcune delle
quali avevano tenuto in mano lo Stato e si credevano ripigliarlo con
l’appoggio allora dei grandi, coi quali avevano molte parentele: gli
altri artefici ed il popolo minuto sarebbero stati contenti che i
grandi avessero parte negli uffici, salvo quello del Priorato e dei
Gonfalonieri delle compagnie. Si tennero molti ragionamenti «che
parvero trattati;» perchè ogni qualità di cittadini faceva parte
da sè: ma infine per mezzo del Vescovo e degli ambasciatori Senesi
ottennero i grandi d’entrare anch’essi nel priorato. E perchè il numero
dei priori pareva scarso a mettervi i grandi, e i Sesti erano mal
divisi; quelli d’Oltrarno e di San Piero Scheraggio tra loro due soli
pagando oltre alla metà delle gravezze; per queste ragioni divisero
la città in Quartieri, e insieme il contado che si partiva, come
sappiamo, anch’esso per sesti; aggregando ciascun Piviere o Comune al
quartiere che guardava a quella parte della campagna, e facendo nuova
descrizione delle poste e delle lire a pagamento, secondo portava
la novella partizione.[191] Dopo di che il Vescovo ed i Quattordici
elessero diciassette cittadini popolani e otto grandi per quartiere,
che insieme con loro furono centoquindici a fare lo squittinio: i quali
cessando dal fare per allora nuovo Gonfaloniere, ordinarono fossero
dodici Priori; chè tre per quartiere, uno dei grandi e due popolani;
e otto Consiglieri, metà grandi e metà popolani, che deliberassero le
cose gravi con i Priori, invece di dodici, com’erano prima; e gli altri
uffici a mezzo co’ grandi.[192]
Compiuto che fu lo squittinio, andò voce per la terra che Manno Donati
uomo armigero, ed altri caporali di case possenti, doveano essere dei
Priori: onde il popolo si turbò forte e pigliava le armi; se non che
udendo gli eletti essere uomini pacifici, si acquetava per allora.
Ma gli Ordini della giustizia non essendo riformati, e per l’appoggio
che avevano i grandi in Palagio, cominciarono questi a fare violenze
ed omicidi ed estorsioni nella città e nel contado; nè bastava loro
avere mezzi gli uffici sebbene fossero mille soli ed i popolani venti
mila, e mal sostenevano la compagnia degli artefici: dall’altra banda
ai popolani grassi piaceva meglio avere colleghi da meno di loro, che
non da più e di maggior grado. La città si commoveva di bel nuovo col
favore di quell’Antonio degli Adimari chè primo insorse contro il Duca,
e di Giovanni della Tosa e di Geri dei Pazzi, i quali erano dal popolo
stati fatti cavalieri. Per il che furono essi col Vescovo, il quale
era buono uomo ma di poca fermezza, e lo persuasero s’accordasse a che
i grandi fossero privati dell’ufficio di Priorato; ma questi udendo il
partito che si voleva porre innanzi, e chiamando il Vescovo traditore,
si cominciarono a fornire d’armi e di genti e a mandare fuori per
aiuti. Sentendosi ciò per la città, molti popolani armati vennero in
piazza gridando ai Priori popolani: _gittate dalle finestre, gittate
dalle finestre i Priori de’ grandi, o noi vi arderemo in Palagio con
loro insieme_. E recata la stipa, mettevano fuoco alla porta, nè a’
Priori popolani bastava l’animo di scusare i loro compagni; talchè
alla fine, crescendo la forza e il furore del popolo, convenne a’
Priori grandi uscir di Palagio accompagnati alle case loro sotto
scorta con grande paura. Partiti i quali, i Priori rimasti in numero
di otto, condussero a dodici come erano prima i Buonomini; rifecero
il Gonfaloniere di giustizia, alzando a quel grado uno dei Priori
popolani, ed il Consiglio del popolo formarono da settantacinque uomini
per quartiere, con gli altri uffici poco mutati da quel che solevano
essere innanzi alla signoria del Duca.
In quei giorni la Repubblica essendo mal ferma e la plebe sollevata,
cadde in pensiero ad un Andrea Strozzi, grosso popolano di molta
ricchezza, farsi padrone della città. Vendeva egli il grano alle case
sue a minor prezzo degli altri, essendo tempi di carestia; forse da
principio a solo studio di popolarità; ma poi cresciutogli il favore,
e come era egli naturalmente vano, gli si alzò l’animo a maggiori cose.
Tantochè un giorno, che fu agli ultimi del settembre, montò a cavallo e
andò per la città raunando intorno a sè ribaldi e scardassieri e minuta
gente; nè prima fu in piazza, ch’erano forse quattro mila gridando:
_Viva il popolo minuto, e muoiano le gabelle e il popolo grasso_;
facendo mostra di volere sforzare il Palagio. Nè si ristavano, benchè
molti buonuomini e gli stessi consorti d’Andrea gli ammonissero andarsi
con Dio, se dal Palagio non erano cacciati con pietre e balestre, onde
alcuno fu morto e molti feriti. E di qui usciti, fecero la stessa
prova al palagio del Potestà, sinchè alla fine tra per le preghiere
dei vicini e tra per la forza, e dicendo: Noi andiamo dietro ad un
pazzo, cominciò la folla a diradare; ed egli sottrattosi con l’aiuto
dei parenti, ebbe bando di rubello: sorte men dura di quella che
nella Repubblica di Roma era toccata a Spurio Melio in quel conato
di signoria, che pare somigli di tutto punto questo d’Andrea Strozzi,
essendo anche presso che eguali le condizioni delle due città.
I grandi, al vedere questa divisione ch’era tra ’l grasso e il minuto
popolo, si rallegrarono molto, e attizzavano la plebe, più che mai
afforzandosi ne’ serragli, e mettendo dentro sbanditi e contadini
ed altra gente in servigio loro, e più aspettandone di Pisa e di
Lombardia. Intanto ai Signori veniva soccorso molto valido da Siena,
e alcune milizie da Perugia; il popolo si armava e metteva sbarre: il
che alla plebe, che stava pe’ grandi, fu impedimento al radunarsi ed
al dividere così le forze dei popolani: la città era tutta in arme
e in grande terrore gli uni degli altri; ma quelli che stavano per
il Comune erano più forti, avendo il Palagio e la campana e le porte
della città, salvo quella di San Giorgio che i Bardi tenevano: sicchè
la forza dei grandi non era a comparazione di quella del popolo, se
a questo riuscisse di prevenire i soccorsi che i grandi aspettavano
dalla parte ghibellina. Stando così tutti in arme ed in gelosia, il
popolo del quartiere di San Giovanni, del quale si fecero capi i Medici
e i Rondinelli, senza ordine di comune, il dopo desinare del dì 24 di
settembre in numero forse di mille uomini assalirono le torri e case
di quei degli Adimari i quali erano chiamati Cavicciuli; e cominciato
l’assalto e crescendo di continuo la forza del popolo, i Cavicciuli
veggendo che non poteano resistere, in poco d’ora si accordarono, e
patteggiati si arrenderono, consentendo che fossero poste su’ loro
palagi le bandiere dell’arme del Popolo, senza ricevere altro danno per
amore dei loro consorti che tenevano col popolo. I Donati e i Pazzi
ed i Cavalcanti in egual modo assaliti e soverchiati dalla massa dei
popolani che sempre ingrossava, non fecero resistenza venendo a patti;
dimodochè tutta la parte della città ch’era di qua dal fiume in breve
fu libera da ogni serraglio o fortezza che i grandi avessero, e tutta
in mano dei popolani.
Restava la forza d’assai maggiore e la difesa più grossa e compatta
dei grandi d’oltrarno, dei quali erano principali i Bardi ed i Rossi
ed i Mannelli e i Frescobaldi ed i Nerli. Questi ultimi, che avevano
di là dal ponte alla Carraia le case loro tra la frequenza di case del
popolo, e che erano di minor possa, ben tosto cederono: e il popolo
vittorioso, passato il ponte alla Carraia, si volse tutto ad assalire
le case dei Frescobaldi, alle quali era stato loro aperto il passo dai
Capponi e da altri popolani che abitavano di là dall’Arno. Al quale
assalto i Frescobaldi sè conoscendo essere impotenti, si rifuggirono
alle case loro chiedendo con le braccia in croce mercè al popolo,
che gli ricevette senza fare ad essi alcun male; e i Rossi fecero il
somigliante. Al ponte Vecchio ed a Rubaconte più volte erano quei
del popolo stati fieramente ributtati, sì forti erano le torri dei
Mannelli al ponte Vecchio ed altre di là bene armate di bertesche, ma
soprattutte la possa dei Bardi molto valida di gente e di serragli e
di fortezze; insinchè per una via che da pochi anni era stata fatta
non senza disegno, e che per le case dei Pitti girava alla porta di San
Giorgio, non venne fatto al popolo di assalire di sopra e al di dietro
le case dei Bardi. I quali veggendosi da tante parti sì aspramente
combattere, cominciarono ad abbandonare i loro serragli; e questi
essendo dopo contrasto lungo forzati dal popolo sotto alla condotta di
un conestabile tedesco; i Bardi, vinti da ogni lato, raccomandandosi
alla vicinanza dei Quaratesi e dei Mozzi e di quelli da Panzano che per
loro proprio scampo si erano messi col popolo, da essi furono ricevuti,
poi trafugati fuori della città. La feccia allora del popolazzo sino
alle donne ed ai fanciulli entrò nelle case dei Bardi con tale rapina
che era a vedere rabbiosa cosa; dove ciascuno trovò che tôrre, e chi
avesse voluto frenare il popolo, era il primo rubato e morto: grande
fatica fu difendere le case dei vicini popolani. Poi misero fuoco ed
arsero ventidue tra palagi e case grandi e ricche: il danno che i Bardi
ebbero tra rapine ed arsioni fu stimato più di sessanta mila fiorini
d’oro. Il dì seguente si radunarono più di mille malandrini presso
alla chiesa dei Servi, e dicevano volere andare contro alle case dei
Visdomini e quelle rubare per compiere la vendetta contro a messer
Cerrettieri: ma in fatto volevano, come si seppe dipoi, andare alle
case dei ricchi e pigliarsi come poveri la roba loro. Del che informato
il Potestà, andò ad essi incontro con le milizie e buona gente a piè ed
a cavallo, portando ceppi e mannaie per tagliare, come fecero, piedi e
mani ai malfattori; gli altri furono messi in fuga.
Vinta così e debellata la parte dei grandi e contenuta la plebe, il
popolo montò in grande stato e baldanza, e specialmente i mediani
ed artefici minuti; chè allora il reggimento della città rimase alle
ventuna Capitudini delle arti. Vennero pertanto a riformare la terra: e
col consiglio degli ambasciatori Senesi e Perugini e del conte Simone
da Battifolle che aveva in quei fatti prestata opera eccellente,
celebrarono in casa i Priori uno squittinio, al quale intervennero
duecentosei de’ maggiori cittadini o che sedevano negli uffici, o
ch’erano stati chiamati a dar voto insieme a questi nella balía col
nome d’aggiunti o, come dicevano, d’arruoti: furono da essi posti a
partito tremila trecento quarantasei uomini, ma non rimasero il decimo
da imborsare per le tratte che si dovevano fare ogni due mesi degli
ufficiali. Ordinarono che fossero otto i Priori, due per quartiere,
e un Gonfaloniere di giustizia; che de’ Priori fossero due popolani
grassi, e tre dei mediani, e tre artefici minuti; e il Gonfaloniere si
mutasse per simile modo dall’una all’altra qualità d’uomini. Si trovò
poi che degli artefici minuti erano più che non fosse l’ordine dato;
il che addivenne perchè i collegi degli artefici erano stati nello
squittinio più forti di voci di quello che fossero il grasso popolo e
il mediano. In poco più d’un anno aveva Firenze veduto mutare quattro
reggimenti: e la breve tirannia del Duca d’Atene e le susseguenti
rivolture questo produssero, che la signoria dal popolo grasso fosse
venuta negli artefici e nel popolo minuto, crescendo via via di molto
il numero dei nuovi uomini, i quali scendevano in Firenze dal contado
e acquistavano cittadinanza, «Piaccia a Dio (scrive il buon Villani)
che sia ciò ad esaltamento ed a salute della nostra Repubblica: mi
fa temere l’essere i cittadini vuoti d’amore e di carità tra loro, e
pieni d’inganni e di tradimenti; ed è rimasta questa maledetta arte
in Firenze, in quelli che ne sono rettori, di promettere bene e fare
il contrario, se non sono provveduti o di grandi prieghi o di grande
utile.[193]» In altro luogo conchiude: «ch’erano male retti dai nobili
e peggio dai popolani.»
Pei nuovi ordini posti allora i grandi rimasero affatto esclusi da
quelli uffici nei quali era il governo dello Stato: sedeano bensì nel
Consiglio del Comune, potevano essere dei Cinque della mercanzia,
siccome più tardi dei Dieci del mare; e quando veniva nominata una
Balía per la condotta d’una guerra o di altro negozio di gran momento,
era costumanza di porvi almeno uno dei grandi, che in certi casi
andavano anche ambasciatori; aveano luogo nel magistrato di Parte
guelfa: tutti cotesti ufficii appartenevano al Comune. Rinnovarono
al tempo stesso anche i penali Ordinamenti della giustizia contro
a’ grandi, i quali erano stati annullati; mitigandone l’acerbità in
questo solo, che dove prima oltre alla pena del malfattore tutta la
casa e schiatta di lui era tenuta pagare al Comune lire tremila, ora
si corresse che i soli parenti fino al terzo grado fossero tenuti,
ma riavendo il danaro quando rendessero preso il malfattore o lo
uccidessero. Poco dipoi, taluni delle famiglie maggiori di grandi
furono per sospetti mandati chi in qua chi in là a confine: a molti,
che avevano pigliato servigi co’ signori di Lombardia o ch’erano andati
cercando fortuna in Puglia o altrove, fu comandato tornassero dentro al
termine di due mesi sotto pena di ribelli. I libri dei ribelli essendo
stati arsi, vennero fatte le nuove liste dove alcuni furono aggiunti,
ed altri rimessi in patria ad arbitrio di chi reggeva. I beni donati
per antichi servigi ai Pazzi e ad altre famiglie di grandi, furono ad
essi ritolti; il che ebbe biasimo dai migliori. I grandi rimasti si
ritrassero la maggior parte in contado alle loro possessioni, quivi
tenendosi quieti quanto potevano maggiormente. Furono poi levati dal
novero de’ grandi e fatti di popolo da cinquecento nobili, uomini
della città e del contado, o per la grazia che si avessero acquistata
appresso al popolo, o più sovente perchè le case loro fossero venute
in depressione da non temerne;[194] e nel contado non pochi, tuttochè
avessero sempre titolo di Conti, erano scesi alla condizione di
lavoratori della terra. Ma non potevano gli antichi grandi fatti
di popolo essere per cinque anni nè de’ Priori, nè de’ Dodici, nè
Gonfalonieri di compagnie, nè capitani delle Leghe del contado. E se
alcuno dentro dieci anni commettesse maleficio contro ai popolani,
fosse in perpetuo rimesso tra’ grandi. Alcuni di quelli che furon fatti
di popolo, e vollero essere veramente popolani, mutarono i loro casati,
a ciò astretti, o per ingraziarsi; ma poi ripresero gli antichi nomi
quando la Casa dei Medici, venuta a capo della Repubblica, ebbe rimesso
in istato quelli che prima erano abbassati.
Ruinava così dopo cento anni di battaglie la parte dei grandi, scaduta
prima e dimezzata con la oppressione dei Ghibellini, i quali serbavano
con più costanza e sincerità il decoro della parte loro; poi dimezzata
un’altra volta per la cacciata dei Bianchi, e avendo perduto con la
morte di Corso Donati il solo braccio che fosse atto a sorreggerla
tantoch’ella mantenesse il grado suo nella Repubblica. Veramente le
famiglie che ultime furono abbattute, paesane di sangue (quanto è
lecito congetturare) e tutte guelfe se altri mai, si erano aggregate
alla nobiltà quando era prossima a cadere, cresciute essendo pei
commerci:[195] di tali uomini si poteva costituire un patriziato. Ma
gli guastavano le aderenze e le superbie baronali, nè si piegarono ai
costumi del nuovo popolo di Firenze che gli teneva come stranieri; e
dopo averli cacciati via, gli parve essere sollevato, e fatto libero
di trattare le cose sue più alla domestica. Allora però venne a
scoprirsi e si aggravò di molto quell’altro dissidio, che ne’ traffici
è inevitabile, tra’ mercatanti e gli artigiani; o come oggi si direbbe,
tra ’l capitale ed il lavoro: ed il popolo minuto, che aveva in uggia
la sovranità dei suoi capi di bottega senza alcun freno o contrappeso,
andò in traccia di un padrone solo. Inoltre mancò, in città esposta
a continue guerre, l’educazione delle armi che presso i nobili
risedeva, e mancò al popolo quella tempra del corpo e dell’animo,
la quale s’acquista nelle fatiche e nei pericoli, pigliando virtù
dalla prontezza al sacrificio, dove occorra, di noi medesimi, ch’è
il pregio e l’anima e la forza della militare professione. Chi però
guardi alla meschinità ed alla bruttezza delle guerre che nell’Italia
si combattevano, dirà che al popolo di Firenze non fu gran perdita il
tenersi fuori dai costumi soldateschi, i quali in tutta quella età più
aspri erano che generosi. Pure qualcosa venne a mancare a questo popolo
ridotto allora tutto ad essere di artigiani; ma poco apparve sinchè
durarono i tempi floridi della libertà, quando la vita si espandeva in
tanti modi e i cittadini facevano acquisto alla patria loro, per via
delle opere dell’ingegno, d’un altro genere di grandezze.
I quattro anni che seguitarono ebbe Firenze tranquillo stato, nè
fatti accaddero d’importanza se non che in ordine ad altre cose che
dipoi vennero a conseguenza, e che in appresso registreremo. Successe
lugubre l’anno 1348 per quella feroce nè mai più udita pestilenza, che
dall’Oriente venuta, percosse in quell’anno e nei primi susseguenti
quasichè tutta l’Europa; distruggendo (come scrivono) tre quinte parti
della popolazione, in Firenze centomila, per testimonianza degli
autori contemporanei, e per il novero che poi ne fecero insieme il
Vescovo e la Signoria. Il che però non si può intendere che fosse
dentro alla città sola, la quale tanti non ne aveva, e molti erano
fuggiti e credo pochi vi accorressero; ma, come parmi sia di necessità
correggere, dentro al contado o al dominio, che era a quel tempo molto
angusto. Lamentano anche il peggioramento dei costumi, per quella certa
stupidità che invade l’uomo nei grandi mali, e perchè egli si avvezza
troppo allo spettacolo della morte, la più comune delle umane cose; e
per le subite ricchezze dalle insperate eredità, e pel disciogliersi
d’ogni vincolo sia di famiglia o sia di leggi, che allora tacevano
abbandonate o insufficienti: non si hanno tratte di Magistrati nei
cinque mesi che infuriò il morbo. Scrivono pure come alla pestilenza
seguitasse carestia pel difetto delle braccia, e perchè il popolo
degli artigiani ridotto a numero molto scarso, e taluni fatti ricchi
e godendosi le suppellettili e le robe degli estinti a vil prezzo
comperate, si rifiutavano al lavoro chiedendo per esso strabocchevoli
mercedi: lo stesso facevano i lavoratori delle terre, gli opranti e i
servi parlavan alto.[196] Che molti vizi e corruttele venisser su da
quel rimescolamento è troppo agevole figurare, e anche solo basterebbe
a dimostrarcelo il Decamerone: ma le migliori virtù passavano tanto
più oscure e men lodate quant’esse erano meno rare; e argomento
di virtù è a me la stessa severità iraconda dei cronisti, privati
uomini e popolani. Narrano essi come per la viltà anche talvolta dei
congiunti, molti perissero derelitti; ma poi raccontano altresì come
cessato il terrore primo, fosse tornata la sicurezza nel servire gli
ammalati, notando che molti degli assistenti campavano, quando i chiusi
nelle ville non isfuggivano il morire. Dicono della moneta estorta
dai falsi medicanti, ma soggiungono che per coscienza molti anche
poi la restituirono. Lasciti grandi ed elemosine vennero fatte co’
testamenti ai poveri di Dio, e la Compagnia di Or San Michele n’ebbe a
sè sola fino a trecento cinquanta mila fiorini d’oro; i quali, perchè
i mendichi erano quasi tutti morti, tentarono poi la cupidità degli
amministratori con brutto esempio e grave scandalo: minori lasciti ma
considerevoli ebbero pure due luoghi pii ch’erano stati operosi molto
in alleviare i presenti guai, la Compagnia della Misericordia e lo
Spedale di Santa Maria Nuova.


CAPITOLO V.
DELLA CITTÀ E STATO DI FIRENZE. ENTRATE E SPESE DEL COMUNE.

Moriva di peste in quell’anno Giovanni Villani statoci guida infino
a qui, nè altra migliore avremo noi tra quanti scrissero delle cose
nostre. Vedemmo già come fosse egli presente in Palagio, quasi sessanta
anni prima, il dì della battaglia di Campaldino; condusse le Istorie
infino al termine della vita sua. Giovane insieme con l’Alighieri,
formava sè stesso alla grande scuola del secolo XIII; quindi l’alta
rettitudine la quale domina i suoi giudizi, e quella compostezza di
pensieri arditi e modesti, ch’è indizio non già di buoni tempi e di
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