Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 30

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d’un uomo che avea di presenza vissuto in tempi nei quali tuttora
i Nobili erano dominanti, ch’avea parlato il loro linguaggio e che
l’esprimeva. Cotesto linguaggio non era più vivo, ed anzi il contrario
mi pare che fosse proprio nel sangue di Giovanni, il quale teneva il
suo spennacchio dalla mercatura e adolescente si era goduto le allegre
feste di Campaldino. Aggiungo per ultimo, la lingua pure vale qualcosa,
ed il signor Scheffer lo afferma con pari saviezza e modestia. Parve
a tutti gl’Italiani e parrà sempre come cosa a tutti evidente, che
il dettato del Malespini sia di un altro tempo antico al confronto
di quello del Villani; è in questo maggiore la cultura e l’arte nei
luoghi che trasse dal primo. Tutte le cose fin qui dette, ripeto che
vane riescirebbero nel cospetto di una dimostrazione, la quale avesse
fondamento sufficiente di fatti sicuri; saremmo allora noi primi ad
accogliere la nuova certezza.
Che il preteso Malespini scrivendo avesse dinanzi il Villani,
si cercò provare mettendo a confronto alcuni luoghi dell’uno e
dell’altro, e intorno a questi molto sottilmente argomentando. In
via d’esempio, avendo per fermo che di quei luoghi, molti dovessero
testualmente derivare dalla Cronaca di Martino Polono, si mostrò
essere nella redazione a lui più vicino il testo del Villani di quello
del Malespini, e questi dovere nella giacitura del discorso avere
seguíto il Villani prima di giungere al Polono: qui sarebbe lungo
tutti ripetere gli argomenti pei quali sembra al dotto critico il
contrario essere impossibile. A noi dal riandare come abbiamo fatto
col pensiero alcuni almeno di quei raffronti, non uscì fuori tanto
assoluta persuasione: potè il Villani a nostro giudizio avere corretto
quei luoghi o aggiunto ad essi o tolto qualcosa, potè inserirvi in
mezzo qualcosa di sua fattura e di altra origine; certi segreti della
composizione pare a noi che sia difficile afferrare così da cavarne
sicura una prova tutta da sè sola: inoltre, del testo del Villani
non abbiamo fin qui una edizione di sufficiente autorità. Ma fuori
ancora di tutto questo, è da pensare che il Polono scrisse in Italia
ed anzi in Roma, compilando le notizie tratte da fonti diverse: perchè
non potevano i due Toscani molte cose almeno avere attinte a quelle
scritture medesime e da esse trascriverle ognuno a suo modo? Ci dà
egli il novero degli Autori da lui seguíti, ma più altre cose dovette
avere udite in Italia. Trovo, per esempio, l’industria medesima essere
adoprata dal signor Scheffer sulle parole colle quali i tre scrittori
narrano il fatto già troppo celebre di Canossa, che molti dovevano
avere saputo in Roma e in Firenze prima che uscisse la _Cronaca_
Martiniana.
Ciò in quanto all’essere il Malespini figliuolo del Villani, non questo
di quello. Ma si badi bene che io mi tengo lontano da tanto cieca
fede al testo Malespini, da credere all’ordine cronologico di quei
racconti, da supporre antica nel modo che a prima vista apparirebbe
l’autorità personale di quello scrittore, da fare un gran conto delle
belle cose che avrebbe imparate in Casa i Capocci, da credere al
nome incerto assai di Ricordano, da non vedere che l’essere questo
nome registrato in prima persona, che diventa nella continuazione
del discorso poi subito terza, toglie ogni fede a quel pasticcio
messo insieme male, talvolta per ignoranza o negligenza, ed anche
talvolta per frode, in qualunque tempo ciò fosse avvenuto. Mostrò il
signor Scheffer con evidenza le interpolazioni le quali in più luoghi
rivengono a fine di ornare di splendida aureola il nome dei Buonaguisi
che furono parenti ai Malespini. Cotesto e forse qualche altra minuta
bricconeria di quella risma, bene è possibile che avvenisse quando il
Villani aveva scritto, e forse in quella copia medesima che fu testo
alla prima edizione del Malespini fatta dai Giunti in Firenze l’anno
1568. In queste cose io volentieri sieguo i due benemeriti Scrittori
che aprirono un campo nuovo alla critica intorno al testo di quelle
Istorie.
Ma sia qui lecito a noi dire qualcosa di quello che ci apparve tenendo
a confronto i due Scrittori. Non i soli Buonaguisi troviamo a quel modo
bugiardamente favoriti; ma le principali famiglie nobili fiorentine
sono in più modi magnificate, e sopra tutto la famiglia degli Uberti
fatta segno a una adulazione appetto alla quale il fare discendere i
Giulii da Venere pare che fosse meno assurda cosa. Venendo dunque al
testo che va col nome dei Malespini, e per brevità lasciando stare
Nino e Atalante e il re Fiorino e la regina Belisea di dubbio contegno
ai tempi di Catilina; troviamo che avesse questi un figlio per nome
Uberto Cesare, il quale dopo espugnata Fiesole, andato a Roma fosse per
gelosia di Giulio Cesare mandato a Firenze, dove egli ornava la città
de’ suoi più belli edifizi. Ma poi destava qui pure invidia al nuovo
imperatore Ottaviano Augusto che lo mandò a riconquistare l’Allemagna,
dov’egli fu stipite alla famiglia degli Ottoni di Sassonia; seco ebbe
nel viaggio figli e mariti delle figlie, dai quali uscirono le famiglie
più nobili di Firenze: in quanto ai Lamberti discendono essi da
Sarpedonte re in Dardania. Nè qui voglio io continuare tutte le favole
che si protraggono in quel testo per molti capitoli e che non furono
certo inventate a benefizio dei soli Galigai o dei Bonaguisi, i quali
hanno qui luogo anch’essi ma non dei primi. In cima a tutti stanno
gli Uberti, che stavano in cima quando facevano guerra contro alla
Signoria dei Consoli; nè oso credere che tanto fossero adulati quando
vivevano esuli e avevano dimenticata la via del ritorno. Anzi oserei
congetturare quelle ciancie essere di più antico tempo come tra ’l
1177 e il 1215, imperocchè nella divisione delle famiglie che avvenne
in quest’anno tra Ghibelline e Guelfe, trovo «che parte de’ Malespini
si feciono Guelfi, ovvero tutti, per gli oltraggi degli Uberti loro
vicini:» ma Guelfi non rimasero fino all’ultimo come si vedrà orora.
Con gli Uberti andavano le famiglie che Dante annovera e che il
Malespini avrebbe adornato rozzamente di altre grandezze. Costui,
chiunque si fosse, ripete e accresce secondo ogni verosimiglianza di
nuove menzogne o di nuove fantasie quelle che già erano in corso in
certe scritture nella città di Firenze, o quelle che aveva trovate
in Roma in casa i Capocci. Ai suoi Malespini si sarebbe contentato
di un luogo onesto, ma non tra’ primi, più ambizioso nel magnificare
i Buonaguisi. Il nome dunque di Malespini dato agli autori di questo
racconto sarebbe dubbio; su di che non voglio formare giudizio, perchè
sebbene avvezzo a quei nomi e non corrivo a cancellarli se gli trovo
scritti, non sento per essi nè amore nè odio: solamente aggiungo, che
se altri fosse che un Malespini, manca la cagione di porre in alto la
casa dei Buonaguisi. Quello che a me pare mostrarsi aperto agli occhi
di tutti è che lo scrittore dovette amare quei tempi e quelli uomini
e quelle grandezze come le amava Dante: registra i castelli da quelle
famiglie posseduti e scrive con amarezza concentrata: _oggi tutti per
terra_, e poco sotto _ogni cosa guasta_.
Giovanni Villani ha le sue favole, ma dentro ad esse frammista più
storia e un senso di critica a nostro credere più avanzata. Invece
di Attila, qui è Totila, che è sempre un passo verso il vero. Qui
pure si trovano i nomi delle famiglie, e in quanto a queste molte
somiglianze, varietà assai, composizione affatto diversa; gli Uberti
e i Lamberti senz’altro fatti scendere d’Allemagna, com’era in Firenze
comune discorso. La decadenza delle famiglie sta espressa qui pure, ma
non con lamento nè con dispetto, e invece notando come fossero _oggi
di popolo_. Che i Malespini si ascrivessero in alcun tempo mai tra’
popolani a me non consta: invece trovo essere stati tra coloro i quali
vennero con Arrigo VII contro Firenze negli anni 1310 e nel seguente,
_homines occidendo et capiendo et redimi faciendo, et honestas mulieres
violando, et domos comburendo._ (_Delizie degli Eruditi_, tomo XI,
pag. 75 e 82.) Cotesta gente a me non pare che si sarebbero dilettati
di farsi copisti delle Istorie del Villani. Chiunque si fossero,
bene essi piangono in quella Storia i loro castelli abbattuti e le
grandezze _tutte per terra_; il Villani si rallegra scorgendo Firenze
allora essere _nel suo montare_. Qui a mio credere sta la differenza
sostanziale tra quei due Scrittori.
Conclusione. Che del Malespini non sia da usare senza discrezione, che
vi sia dell’intercalato, che di queste intercalazioni ve ne fossero
probabilmente delle molto antiche ed anche poi delle più recenti e
forse alcune delle posteriori alle Storie dei tre Villani; che quale si
sia la più antica e più originaria e più genuina redazione, derivasse
da fonti diverse e male congiunte: tutto ciò io tengo essenzialmente
vero. Che tutta l’istoria da cima a fondo sia un plagio del Villani,
per alcun modo non posso credere: che il nome di Malespini sia da
togliere via, non trovo motivo bastante. L’intero carattere il quale
annunzia un tempo più antico, lo spirito feudale che nei Malespini
domina sempre come nei Villani lo spirito popolare, la lingua più irta
e il fare più incolto: tutti questi motivi mi rendono impossibile a
pensare che un plagiario tornasse indietro a questo modo; e sempre
aggiungo insino all’ultimo, a qual fine?


NOTA
INTORNO AL METODO DELLA CRITICA A PROPOSITO DELLA STORIA DI DINO
COMPAGNI.[345]

Erano in torchio gli ultimi fogli del nostro Libro quando a noi
giunse un nuovo scritto dove il chiarissimo signor Scheffer, dopo
avere combattuto l’autorità dei due Malespini, si è volto a mostrare
col metodo stesso falsa anche la Storia di Dino Compagni. Noi non
conosciamo questo lavoro altrimenti che per l’estratto che ne ha dato
con molta chiarezza il signor Cesare Paoli nell’_Archivio Storico_
(serie 3ª, tomo XX): quindi non possiamo entrare in materia, nè per
alcun modo pigliare in esame gli argomenti del dotto Tedesco. Vogliamo
noi dunque solamente discorrere un poco intorno al metodo da lui
tenuto, e di cui suole fare la critica uso frequente al tempo nostro.
Consiste questo metodo nel seguitare l’autore a cui mirano gli studi
del critico, da cima a fondo continuatamente se fosse possibile, e
coglierlo in fallo d’errori o bugie e d’ignoranze o di contradizioni,
sempre a minuto. Dalla somma di questi peccati ha fondamento la
condanna: e in via d’esempio, a Dino istorico si dice sul viso, voi non
siete esistito mai. Siffatto abito ha preso la critica, e in questo
a noi pare che sia un qualche vizio. Cotesti falli dello scrittore,
dovette il critico adoprare non poco studio a trarli fuori: le migliaia
dei lettori gli avranno passati senza avvertirli: ed anche scoperti,
nessuno gli avrebbe fatti argomento di condanna contro a tutto il
libro, massimamente se scritto in secolo tuttora un po’ rozzo, da
uomini i quali non si avevano pensato salire al grado e alla dignità
d’autori, nè farsi a tanti materia di studio. La grande massa fa
ponderosi cotesti argomenti, ma di ciascuno la gravità specifica è
sempre la stessa. Intanto però sfido a trovare un racconto storico
nel quale non siano di queste dubbiezze; vorrei mi fossero indicati
due testimoni e narratori del fatto medesimo, i quali sieno di tutto
punto tra loro d’accordo. Accade ogni giorno che un fatto avvenuto
sugli occhi di mille ci pervenga oscurato dal contradirsi di quelli
stessi che lo hanno veduto, perchè le rapide impressioni che il fatto
ha destate entrando confuse, il prima e il dopo non bene si avverte o
mal si ricorda: chi si è trovato in mezzo alle pubbliche perturbazioni,
sa che egli medesimo non potrebbe essere sempre narratore sicuro,
nemmeno di quelle cose nelle quali ebbe una qualche parte. La storia
discende da queste fonti, e non saprebbe essere altro che un inganno,
chi la guardasse in ciascun fatto separatamente, volta per volta e
ora per ora. Nè tutta intera può mai sapersi; e a bene intenderla è
mestieri formarsene in mente un giusto concetto, il quale rischiari
le cose incerte e spesso mal note a quelli medesimi che primi furono a
narrarle. Così nella storia i piccoli fatti non hanno valore prima che
un pensiero comprensivo sia intervenuto ad accertarli e abbia poi dato
a ciascuno d’essi il proprio suo luogo. Seguire altro metodo sarebbe
traviarla, perchè ogni disciplina ha il proprio suo metodo, e in chi la
professa induce un certo abito che ad altri studi mal si converrebbe.
In via d’esempio, tostochè il chimico ha veduto il suo microscopio
mostrargli un corpo, sa di certo quello essere un corpo, ne determina
i contorni, lo vede muoversi; non potrà dire altro per allora, ma
il fatto rimane e aspetta altri fatti a cui collegarsi; il chimico
ha fatto già una scoperta. Ma imporre a tutte le scienze quel metodo
stesso che alle fisiche s’appartiene, sarebbe un volere (come in simil
caso già disse Bacone) regnare al modo degli Ottomanni strozzando i
fratelli. Vorrei pertanto non si adoprasse in ogni cosa il microscopio,
ma si tenesse a mente quella sentenza del Goethe, che il troppo
guardare nel microscopio o nel telescopio sciupa la vista degli occhi.
Chiunque abbia letto con attenzione la Storia del Compagni ha
sempre dovuto accorgersi come in certi luoghi la narrazione proceda
intralciata, l’ordine dei tempi non sia mantenuto, e in quello dei
fatti si trovino inciampi, quasichè lo specchio lucidissimo in cui si
riflettono sia rotto o guasto o male commesso. Da ciò ad un tratto si
venne a dire, l’Istoria è falsa: ma io discorro in tutt’altro modo.
Se istoria non è, dunque è un romanzo, cioè buona o cattiva un’opera
d’arte. Ma il romanziere o il novellatore non mai commettono di quei
peccati, perchè raccontano una storia della quale sono essi inventori,
dipingono uomini che dicono e fanno puntualmente ogni cosa a modo loro.
Con questi vantaggi, a non procedere ordinati e a discordare con sè
stessi bisognerebbe proprio averne gran voglia; e se la figura che essi
medesimi hanno messo insieme uscisse storpiata, avrebbero i fischi.
Guardiamo invece se agli errori di sopra accennati sieno possibili
altre spiegazioni. Vi sono in primo luogo gli errori dei copisti;
scusa consueta e buona sovente: vi sono poi quelle speciali o personali
incompetenze cui furono esposti i primi scrittori per questo appunto
perchè le cose narrate viddero con passione, e più che mai quando ne
furono attori. Lo dirò a un tratto: Dino Compagni, buon uomo e un po’
corto nei suoi politici pensamenti, ma caldo fautore del buono e del
retto, era impossibile che scrivesse con la pazienza d’un erudito o
con l’accuratezza di uno stenografo, che a volte non basta. Compagno
allegro dei primi fondatori d’un governo popolare, devoto a chi aveva
saziato le ire contro ai nobili, poi male contento dei nuovi uomini
e delle plebi salite in iscanno; guelfo, ma per l’amore dell’ordine
pronto ad accogliere un Imperatore, da ultimo impaurito di questo
stesso Imperatore, a cui gli pareva che si facesse una pazza e inutile
guerra; onesto in ciascuno di questi concetti, ma in tutti accorgendosi
avere sbagliato; immaginoso e appassionato, e sempre rigido moralista:
è un chiedergli troppo, pretendere che egli desse alla storia
l’esattezza d’un registro minuto e impassibile. Si noti poi che le
difficoltà risguardano o piccoli fatti da non badarvi o circostanze
materiali che l’Autore in quella sua concitazione dimenticava: la
sua Storia è tutta composta sopra una serie d’impressioni di cui
l’evidenza, la vivacità, la forza sono argomenti della sincerità: lo
scrittore nel raffigurare sè medesimo dipinge il suo tempo; e in questo
appunto consiste il pregio di Dino Compagni, che ha pochi eguali per
questo rispetto.
Cotesto uomo scrisse una Storia (se pure egli stesso diede quel titolo
al suo lavoro) cioè un racconto delle cose da lui vedute e in parte
fatte da un certo tempo a un certo altro tempo; poi finisce in tronco.
O nulla di quanto si è fin qui discorso ha ombra di ragione, o quanti
siano mancamenti di quel libro (nè sono poi tanti) potranno senza molta
difficoltà gravare le spalle di Dino; ed anzi mi pare che sieno cose
da non poter essere altro che sue, perchè in lui si spiegano, ma in
altri sarebbero falli impossibili a commettere. I primi tempi erano
sereni, la libertà giovane e Dino giovane; quando egli inveisce contro
i vizi dei concittadini suoi è fiero e mordace, e senza paura. I punti
oscuri tutti appartengono a quel periodo agitatissimo di conflitti
tra’ Bianchi e i Neri, e soprattutto alla dimora in Firenze di Carlo di
Valois. Ora in quei giorni, affermo essere impossibile ad uno scrittore
cacciarsi fin dentro alle circostanze più minute, e bene tenere a mente
ogni cosa; poi v’entra il velo delle passioni; le quali turbavano la
vista dei fatti quando accadevano; poi da ultimo il buon Dino, in quel
suo Priorato, può anch’egli avere avuto qualcosa che a lui piacesse più
di nascondere che di confessare. Passati quei tempi, l’Istoria corre
più tranquilla ma con minor vita, perchè l’Autore più non aveva le mani
in pasta, ed era invece tra’ malcontenti e i messi da parte, o aveva
paura. Tuttociò riguarda lui medesimo, e così com’egli cessò ad un
tratto di scrivere prima che gli finisse la vita, potrebbe, chi vuole,
fare congetture non tanto spallate circa le sorti del manoscritto. Il
non aversene copia più antica dell’anno 1514, il silenzio intorno a
Dino degli antichi scrittori; questi che furono i soli motivi capaci a
far nascere qualche dubbio, destarono infine la sottilità dei critici
a dare a quei dubbi la forza intera di una negazione. Chi non valuti
le prove intrinseche e mi chieda quel che avvenisse del manoscritto
in quei dugent’anni, mi stringerò a dire che non ne so nulla. Dino
stesso può avere voluto lasciarlo giacere; poi della famiglia, almeno
una parte andò raminga: di tutte queste cose ciascuno pensi quello
che a lui torna meglio; per me dirò (e, dove osassi, l’affermerei),
che quanto ovvii e naturali sono tutti quelli errori in bocca di Dino,
tanto è impossibile che l’Istoria intera sia stata inventata in qual si
sia tempo dopo a quello cui si riferisce.
Il che è tanto vero, ch’io non trovo in quale altro secolo un libro
a quel modo potesse nemmeno venire in capo di fabbricarlo. Innanzi
al 1514 la Repubblica era sempre viva, sotto altri nomi continuavano
gli stessi contrasti, ma non v’era tempo da pensare ai Bianchi ed ai
Neri; chi avesse scritto dei fatti loro, avrebbe mostrato senz’altro il
viso o d’un Piagnone o d’un Arrabbiato. Più tardi e, in via d’esempio,
sotto ai primi Granduchi, il rivangare quelle cose poteva essere
un passatempo di qualche pericolo; nè a chi piangeva la libertà,
sarebbe stato conforto l’usare di quelle rampogne. I libri che sotto
al Principato si sono fatti, non sono che opera d’antiquari; mettere
fuori insino all’ultima tutte le glorie di Firenze, fu negli scrittori
pensiero unico. Gli studi intorno alla vita interiore dei Fiorentini
ed allo stato della Repubblica non cominciarono se non dopo a che
l’istoria vera dell’Italia, inaugurata dal Muratori, ebbe preso vita
dalle idee politiche che, nate allora, crebbero sempre, e che solamente
al tempo nostro può dirsi che siano alquanto mature; perchè il fare
insegna pensare, e i nostri tempi sono un grande specchio capace a
mostrare e a fare intendere gli antichi. Prima d’ora la Storia di Dino
che non si curava se non per amore di stile o di lingua, era difficile
inventarla; ed i Romanzi sopra quei tempi gli abbiamo veduti noi
medesimi cominciare.
E un altro riflesso mostra ciò impossibile. Chi scrive a freddo, o chi
si mette a dipingere sopra una tela le cose antiche o le non vedute,
fa un’opera d’arte. Ma l’arte non deve mai voler essere troppo vera,
in primo luogo perchè non potrebbe, e quindi perchè uscendo fuori
della natura sua e abbassandosi, diverrebbe una materiale imitazione o
piuttosto una copia cui manca la vita, e cui non si prestano se non le
cose che stanno ferme. Il vero dell’arte sta nell’idea la quale deve
compenetrare di sè la rappresentazione che l’arte produce. Non può
quindi l’arte, nè deve, esprimere alcuna figura la quale si scambi con
la realtà: questi (se non vado errato) sono i canoni della critica, dei
quali il Lessing fu maestro solenne. Se dunque il libro del Compagni
fosse un’opera d’arte, potrebbe esser vero, ma vero idealmente: nulla
invece d’ideale è in quei racconti che sono una ripetizione del vero, o
ne sono anzi una espressione viva e attuale come uscita da un affetto
vario, ineguale, intermittente, quali sono gli affetti dell’uomo; ha
qualche cosa in sè di crudo, esce fuori a caso. A questo modo le cose
umane si raccontano ma non s’inventano; e indovinare tutti interi e
tali quali furono gli affetti e i pensieri, la lingua e il linguaggio
di più secoli prima, non fu mai concesso a ingegno nessuno. Fare un
romanzo e scrivere _io Dino_, sono due cose che fanno ai cozzi; non
è più arte ma una bugia, dentro a cui viene a morire l’arte. Questa
ha per campo il verosimile, e si arresta dove le sue ragioni toccano
a quelle del vero. Dove il Compagni non sia vero, e come questo gli
avvenisse, abbiamo già detto; metteva passione in quel che scriveva, e
la passione è negligente sempre d’ogni cosa che non sia lei stessa.
Ma si è poi detto essere falso quel libro suo per l’ignoranza di certe
cose che un uomo presente doveva sapere, come sarebbe delle leggi e
delle usanze che erano proprie della Repubblica Fiorentina. Quanto
a me, di falli di tal sorta confesso e dichiaro non essermi accorto,
nonostantechè quel libro mi sia stato assai tra le mani, e che un po’
di pratica di quelle faccende io pure dovessi avere acquistata. Non
ch’io però creda saperne ogni cosa, il che fa che nei giudizi mi senta
obbligo di andare adagio. Si allegano altri errori di fatto, quello,
per esempio, tanto predicato, della Cappella di San Bernardo in Palazzo
Vecchio, la quale non era al tempo di Dino. Ma bene potevano i Priori
nell’antica residenza averne un’altra sotto quel nome; potè, come
avviene in cento cronache, chi raffazzonò i luoghi oscuri o mal posti
o mal definiti, avere ai Priori di tempo più antico dato la Cappella
la quale avevano al suo tempo, o quella essere una postilla entrata
nel testo. Cotesti falli non si avvertono, perchè nulla importano
l’economia d’un libro; ma che un libro come quello sia d’un uomo del
cinque o seicento, io dico e affermo essere impossibile. Nè uomo vi era
che sapesse farlo, nè che a ciò avesse motivo bastante, nè l’istoria
s’indovina, nè tanto in fondo si conosceva, nè si cercava quando
l’Alfieri del Machiavelli fece un Tacito, nè quando il Giordani (che
non badava altro che allo stile) cominciò a dire che il Compagni era
il nostro Sallustio; e quanta ragione avessero entrambi non voglio io
qui sentenziare. Noterò invece un argomento che per me serve a ribadire
tutti gli altri. La storia finisce con una profezia solenne, che è una
minaccia ai Fiorentini _d’essere presi e rubati dall’Imperatore per
mare e per terra_. Quella profezia riuscì falsa; nè so a qual fine un
romanziere ce l’avrebbe messa: e che egli si divertisse gratuitamente
a regalare al suo autore un falso giudizio e subito smentito a vista
di tutti, il solo pensarlo conduce all’assurdo. Nella Storia ho detto
che Dino cessava perchè egli vide le sue profezie fallite e i tempi
messi per una strada che a lui non piaceva: in questa opinione rimango
tuttora.


NOTA
CIRCA ALL’ATTO DI PROMISSIONE TRA I CONSOLI DI FIRENZE E GLI UOMINI DI
POGNA.
(Vedi pag. 10.)

Nel Capitolo II ho scritto non doversi tener conto di un instrumento
pel quale tra i Consoli di Firenze e gli abitanti del castello di
Pogna in Valdelsa si sarebbero fatte certe promissioni; e in nota ho
accennato alla falsità di quel documento, di cui il giovane Ammirato
si era valso in un’aggiunta alla Storia del vecchio Scipione. Dopo
avere scritto, mi è venuto fatto di sapere come il documento non è
altrimenti falso e che solo per errore di data fu da quello Storico
riferito all’anno 1102. Esso si trova a c. 74 t. del Registro XXVI dei
_Capitoli_ del Comune di Firenze. La Direzione dell’Archivio di Stato,
da cui ebbi la notizia, si è pure occupata di veder bene la cosa; ed
è chiaro per l’esame fatto, che il documento deve riportarsi al 1182,
ossia al marzo del 1181 secondo lo stile fiorentino.
Il notaro che si roga di quell’instrumento è un Bernardo, il cui nome
ricorre parimente in due instrumenti dei Conti Alberti, relativi
a Pogna, Semifonte e Certaldo, e che hanno la data del novembre
1184. L’instrumento è dato il giorno _quarto non. martii, indictione
quintadecima_; ma l’indizione XV corrisponde non al 1102, ma al 1182
stile comune. A queste due evidenti ragioni possiamo aggiungere, che
il notaro Iacopo, cui dobbiamo la copia del documento (fatta senza
dubbio nella seconda metà del secolo XIII), non è stato così diligente
copista da non aver bisogno che nello stesso documento egli medesimo
correggesse i propri errori. Uno dei quali, da lui non avvertito,
fu appunto quello di omettere nella data _millesimo centesimo primo_
la parola _octuagesimo_. — Nel Registro XXIX della stessa serie de’
_Capitoli_, a c. 79 t., è un’altra copia del medesimo instrumento,
fatta sul cadere dello stesso secolo, da un Belcaro, che dice di averla
tratta dalla copia del notaro Iacopo, il cui errore nella data fu
trascritto fedelmente.

FINE DEL TOMO PRIMO.


NOTE:

[1] TACITO, _Annali_, I, 79. — BORGHINI, _Discorsi_.
[2] ZOSIMO. — PAOLO OROSIO. — PAOLINO, _Vita di sant’Ambrogio_.
[3] PROCOPIO. — GIORNANDE. — Continuator Marcellini Comitis _in
Chronico_.
[4] MALESPINI, cap. 42, 56.
[5] Nella Cronaca latina del Giudice Sanzanome, la quale finisce l’anno
1231, dove si racconta la guerra dei Fiorentini contro i Fiesolani
l’anno 1125, sono due lunghe dicerie dei condottieri delle due parti
per animare ciascuno i suoi. Mette innanzi il Fiorentino l’antica
origine _de nobili Romanorum prosapia_; e dice, Firenze essere stata
edificata _ne relevaretur civitas Fesulana_, pronta agli eccessi e ai
malefizi dai primi suoi tempi. Il Fiesolano all’incontro comincia:
_viri fratres qui ab Italo sumpsistis originem a quo tota Italia
esse dicitur derivata, nobilitatem vestram respicite et antiqui loci
constantiam_. Ricorda il sangue versato per mano dei Romani oppressori
e il nobile Catilina co’ suoi, che scelsero morire pugnando piuttosto
che vivere fuggendo. Erano vive in quella età le tradizioni che i nuovi
tempi dipoi mandarono in dimenticanza.
[6] Vedi HÖFLER, _Die Teutschen Päpste_. Ratisbona, 1839.
[7] Il Malespini ed il Villani scrivono che l’Imperatore venisse da
Siena, con errore manifesto, dimostrato anche dall’avere egli assalito
la città da quella parte che guarda Bologna.
[8] VILLANI, lib. IV, cap. 23.
[9] MALESPINI e VILLANI, lib. IV, cap. 25 e seg.
[10] _Fiorentini_, _Memorie della Contessa Matilde_. — REPETTI,
_Dizionario geografico-storico della Toscana_, art. _Prato_.
[11] AMMIRATO, _Stor. Fior_., anno 1102; e sono aggiunte di Scipione
Ammirato il Giovane, che secondo ogni verisimiglianza ebbe sott’occhi
un documento falso.
[12] REPETTI, articoli _Pogna_ e _Semifonte_. Vedi anche la Cronaca
latina del Giudice Sanzanome (_Docum. Stor. Ital. ec._), ove è detto
avere i Fiorentini a quel tempo (1184) fatto guerra contro al conte
Alberto per il castello di Pogna; aggiunge come da quella famiglia,
alla venuta di Federigo I, _eiusdem imperatoris assumpto vexillo_,
fosse stato edificato lì presso un altro castello fortissimo col nome
di Semifonte; distendendosi nel raccontare, ampollosamente come suole,
la guerra fatta contro a quest’ultimo.
[13] G. VILLANI, lib. IV, cap. 31.
[14] Si trovano negli _Annali Pisani, Rerum Ital. Script_., tomo VI; e
in OTTONE DI FRISINGA, lib. VII, cap. 19, il quale conferma l’Annalista
Sassone. Vedi MURATORI, _Annal_., 1134, 1137. Non facciamo troppo caso
di un trattato che i Fiorentini l’anno 1140 avrebbero fatto con certo
conte Ugerio, nome ignoto, e ignoti i luoghi che ivi si leggono, ma
potrebbero essere in Val di Greve. (AMMIRATO, _Storie_.)
[15] Nè di ciò pure è fatto cenno dai cronisti nostri; ma trovasi nella
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