Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 11

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del quale sovente la città era mal soddisfatta; perchè oltre
all’essere forestieri, come signori di gran lignaggio male col popolo
s’intendevano, e poco amavano quelle leggi ch’essi dovevano eseguire:
uno di loro, per sottrarsi al sindacato, portava seco come in pegno il
suggello del Comune, nel quale era inciso un Ercole. E prima essendo
per maleficii sostenuto in Palagio un Talano degli Adimari Cavicciuli,
i consorti suoi avendo percossi gli armati del Potestà che erano fuori,
e così entrando nel Palagio vuoto, ne trassero quel Talano, senza che
poi di tanto eccesso fosse giustizia o punizione. Del che sdegnato
il Potestà, si partiva senza avere finito l’anno; e perchè la città
non poteva rimanere senza rettore, divisero per i mesi che avanzavano
l’ufficio tra dodici cittadini, due per sesto, che uno grande e
uno popolano; e si chiamarono le dodici potestà. Quindi volendo i
Fiorentini trasferire la potenza ognora più in quei magistrati ch’erano
a guardia della libertà; al Capitano del popolo creato, siccome abbiamo
detto, molti anni innanzi, ma che doveva essere nobile, aggiunsero un
Esecutore degli ordini di Giustizia, che fosse pure egli forestiero:
a lui spettasse fare inchiesta e procedere contro a’ grandi che
offendessero i popolani; ma questi, che non esercitava giurisdizione,
poteva essere anche di popolo.[126] Di queste riforme si tennero i
grandi più che mai gravati.
Il cardinale Napoleone degli Orsini, dopo la caduta di Pistoia, s’era
condotto a Bologna, e quivi raccolte molte genti dalle terre della
Chiesa, e gli usciti di Firenze, e da Roma quelli i quali stavano per
il Papa, andò con oltre 2000 cavalli a porsi in Arezzo, quivi molto
bene ricevuto. I Fiorentini, senza aspettare d’essere aggrediti, per
la via di Val d’Ambra si accostavano con forte esercito ad Arezzo;
ed allora il Cardinale, fatto altro consiglio, venne per il Casentino
fin presso a Firenze, avendo speranza d’esservi introdotto. Ma poichè
seppe dietro sè avere perduto Arezzo, vedendosi chiuse le vie della
guerra, si diede a trattare con Geri Spini e Betto Brunelleschi, a
lui mandati dalla Repubblica. Voleva egli con minaccie il ritorno
degli usciti, ma quei due tanto lo menarono in parole, che egli senza
nulla fare, ed anche essendogli poi tolta dal Papa la legazione, si
partiva. I Fiorentini per quelle mosse aveano posta forte gravezza
sopra i chierici; i quali facendo difficoltà al pagare, e i monaci di
Badia avendo chiuse le porte e suonate le campane, alcuni malandrini
di plebe minuta, sospinti da altri, per forza entrarono nel convento
che fu rubato; ed il Comune, perchè avevano suonato, voleva tagliare il
campanile fino da piede, ma fu invece dimezzato per altezza, con furia
da molti discreti uomini biasimata.[127]
Fu detto la mossa del Cardinale contro a Firenze fosse con intesa di
Corso Donati, il quale aspirasse con tale aiuto alla signoria. Teneva
lo Stato allora una mano di grossi popolani, che tra sè e gli aderenti
loro gelosamente ne dividevano l’autorità e i profitti. Ma Corso
Donati nè voleva nè sapeva usare quei modi; sempre ambizioso di cose
grandi, alle minute non attendeva, nè a lui piaceva di avere grado
cui altri seco partecipasse. Male col popolo se la intendeva; ma pare
avesse egli aderenze nella Toscana fra i collegati e presso i popoli
delle terre e dei piccoli Comuni, i quali vivevano in dependenza dai
Fiorentini e spesso erano angariati dagli ufficiali che la Repubblica
vi mandava. Amico e pratico dei Signori in Toscana e fuori, aveva egli
tolta di recente per isposa la figlia di Uguccione della Faggiuola,
di già il più forte ed il più temuto dei capi ghibellini. Questo era
scoprirsi come aderente a quella parte: e Corso tirava a sè i grandi,
e prometteva di annullare gli ordinamenti ch’erano fatti contro a
loro; ond’essi più arditi, nelle piazze e ne’ Consigli superbamente
parlavano: e i nobili di oltrarno diceasi che stessero parati a
una mossa per la mutazione dello Stato. Di già offese e ferimenti
avvenivano tra le due parti: armava Corso gli amici suoi, tra’ quali
era di popolani la casa Medici: avea richiesto un forte aiuto da
Uguccione, e già le masnade ghibelline di questo cominciavano a
mostrarsi infino a Remole presso alla città.
A questa novella, una domenica mattina, 6 ottobre 1308,[128] si levò
grande rumore: per ordine della Signoria le campane suonano a martello,
si radunano i Consigli, ed in un’ora Corso Donati viene accusato e
giudicato e condannato come rubello e traditore del Comune. Da casa
i Priori mossero incontanente dietro al gonfalone della giustizia,
il Potestà ed il Capitano e l’Esecutore con le loro famiglie, ed i
gonfaloni delle compagnie col popolo armato, e le masnade catalane col
Maliscalco del re Carlo: aveano chiamato dal contado le compagnie delle
leghe, ma queste poi non abbisognarono. A furore di popolo andarono
contro alle case dei Donati da San Pier Maggiore. Del che subito
avvisato Corso, si asserragliava con forti sbarre a piè di una torre a
cui facevano capo due strade; seco avea molti consorti ed amici e fanti
armati con balestre; i Bordoni erano a lui venuti con gran seguito e
co’ pennoni dell’arme loro. Egli per la gotta non potendo maneggiare
le armi, inanimava e lodava i suoi che francamente combattevano;
aspettava l’aiuto dei soldati d’Uguccione, e sperava quello dei nobili
d’oltrarno e di alcuni altri per la città. Durò la battaglia gran parte
del giorno; si combatteva con lance e con balestre e pietre e fuoco;
gli assalitori di numero soverchiavano, ma tutti non erano dell’animo
stesso, a taluni non piacendo quello che si faceva. Sull’ora di vespro
si udì che le genti di Uguccione tornavano indietro da Remole per un
falso avviso, come poi fu detto, pel quale crederono Corso a quell’ora
essere stato già preso e morto. Allora quelli di dentro al serraglio
si cominciarono a partire; e certi del popolo, avendo rotto il muro
d’un giardino, entrarono dentro. Corso, vedendosi rimasto molto sottile
di gente, deliberò abbandonare la difesa ed uscire dalla città;
gli amici suoi fuggirono per le case, taluni fingendo essere della
contraria parte. Uomini armati andavano intanto a caccia dei fuggenti;
e avendo incontrato sul ponte d’Affrico Gherardo Bordoni l’uccisero,
e un giovane degli Adimari Cavicciuli, tagliatagli barbaramente una
mano, andava a conficcarla nell’uscio d’un altro Adimari suo nemico.
Alla fine Corso, anch’egli fuggendo, presso a Rovezzano fu raggiunto
da certi soldati catalani, i quali volendo menarlo preso a Firenze,
ed egli pregandoli e promettendo molta moneta se lo scampassero, nè
potendo ciò da essi impetrare; come fu presso a San Salvi, per paura
di essere giustiziato, si lasciò cadere dal mulo sul quale l’aveano
posto; ma infermo com’egli era per la gotta, gli rimase un piè nella
staffa, e la bestia più traeva. Accorrevano i villani ed altra gente;
uno dei soldati, temendo non glielo cavassero dalle mani, gli diede
d’una lancia nella gola e lo lasciò per morto. I frati di San Salvi
lo fecero trasportare al loro monastero, chi disse vivo e pentito de’
suoi peccati, chi disse già morto: ivi fu interrato senza pompa, per
timore del Comune.[129] Ma dopo tre anni ammorzati gli odii, ed in
molti ridestandosi l’amore per Corso, ed in più altri l’ammirazione; i
consorti e gli amici di lui, dissotterrato il cadavere, gli celebrarono
in San Salvi esequie solenni, ma non però senza che uomini armati
stessero a guardia della chiesa contro ogni insulto degli avversari.


CAPITOLO VII.
ARRIGO VII. — UGUCCIONE DELLA FAGGIUOLA. SIGNORIA DEL RE ROBERTO. [AN.
1309-1321.]

Per la morte del re Carlo II d’Angiò, Roberto suo figlio, e già duca
di Calabria, era succeduto alla corona del regno di Puglia nel mese di
maggio dell’anno 1309, essendo rimasta quella di Sicilia in potestà
di Federigo Aragonese. Ma il re Iacopo d’Aragona, che dimorava in
Ispagna, era venuto in grande concordia con gli Angiovini di Napoli, e
quindi co’ Guelfi di tutta Italia. Firenze aveva nimicizia permanente
co’ Pisani che in Toscana erano sempre capi della parte ghibellina,
cacciato avendo di signoria Nino di Gallura, che insieme al conte
Ugolino della Gherardesca l’aveva tirata per brevi anni a parte guelfa.
Di questo Nino rimaneva la figlia unica Giovanna (che Dante ricorda con
tanto dolci parole), erede ai possessi ed ai titoli sovrani del padre
in Sardegna. Ma perchè Iacopo d’Aragona si stringesse agli Angiovini
contro al fratello di Sicilia e rinunziasse ai suoi diritti sopra a
quell’isola, Bonifazio VIII gli aveva largita una papale investitura
sulla Sardegna; e i Fiorentini, mentre diceano loro fine essere
l’insediare la figlia innocente del Giudice di Gallura, null’altro
cercavano che indebolire i Pisani chiamando in Sardegna il re
d’Aragona. Con essi era pace in quegli anni, e tra le due Repubbliche
passavano lettere bugiardamente affettuose: mentre da quella di Firenze
si offriva danaro all’Aragonese perch’egli scendesse a occupare la
Sardegna, mandandogli a questo fine ambasciatori. A nulla riuscirono
coteste pratiche per allora, perchè il re Iacopo avendo in casa guerra
migliore contro ai Mori di Granata, preferì all’oro dei Fiorentini
l’aiuto di navi offertogli da Pisa, e questa mantenne per altri pochi
anni il possesso di Sardegna a malgrado i Fiorentini, cui non parevano
stranieri all’Italia altri essere che i Ghibellini, e senza scrupolo
si aiutavano di chiunque mostrasse favorire parte guelfa. Cercavano
insieme per via di trattati estendere i commerci loro di molto ampliati
negli ultimi anni, e massimamente in quei paesi i quali restavano
tuttora più addietro nello svolgimento delle industrie. Di quei
maneggi abbiamo un cenno, ma insufficente, dal Villani, e la notizia
ne rimaneva chiusa negli archivi, finchè ai dì nostri non venne in luce
tratta dai registri della Signoria.[130]
Dacchè fu eletto Clemente V, prima arcivescovo di Bordeaux, era
il papato tenuto in Francia sotto la dura custodia del malvagio re
Filippo il Bello. A questo andarono le ambizioni fatte allegre nei
pontefici dopo alla caduta di Casa Sveva; ma quella caduta, e poi
la lunga vacanza e l’abbassamento dell’Impero, non che rialzare la
Chiesa di Roma, sembravano piuttosto avere invilite le braccia di lei,
come si esprime il Compagni. Dappoichè nacquero come ad un portato il
nuovo Impero occidentale e la potenza civile dei Papi, le due supreme
potestà, che il mondo cristiano invocava, si sostenevano l’una l’altra
in mezzo alla stessa perpetua lotta che era tra loro, così fattamente
da essere l’una all’altra necessarie; entrambe avendo comune ragione
nella universalità di quel principio che in due non mai bene poteva
dividersi, e che ambo insieme rappresentavano. Bene gli antichi
imperatori volevano imporsi patroni alla Chiesa, ma grande ed alta
sempre la volevano; invece i due primi re Angiovini, chiamati e nutriti
da Papi francesi, la tennero sotto a odiosa tutela, e parte guelfa
mutò sembianza poichè ebbe a capo un re forestiero. Poi la violenza
che tirò in Francia la sedia istessa pontificale, prostrava in Italia
ogni principio d’autorità; gli Stati della Chiesa vedeano alternarsi
tirannie prelatizie e cittadine, e Roma lacera e impotente non sapea
portare nè il peso istesso del nome suo, nè il beneficio della libertà.
Ora Filippo avea teso ogni arco per fare avere il seggio imperiale
a suo fratello Carlo di Valois, che ai papi sarebbe stata servitù
peggiore di quella temuta sotto Casa Sveva dalla unione all’Impero dei
reami di Sicilia. Clemente V allora ebbe un forte pensiero; e lungi
dal cedere al re Filippo su questo punto, faceva eleggere il conte
Arrigo di Lucemburgo: i nostri cronisti di ciò fanno onore al cardinale
Niccolò da Prato.
Il nuovo eletto era signore di piccolo Stato, ma savio e prode; la
dignità imperiale scaduta di forza, avendo percorso anch’essa il
tempo delle esorbitanze sue, parea volersi con Arrigo VII ritrarre
alla fonte e alla purezza del suo principio. In quanto all’Italia,
intendeva egli esercitarvi d’accordo col Papa quell’alto ufficio
di moderatore che dalle congiunte due potestà il mondo aveva più
secoli invocato vanamente. Era una splendida astrazione, e sembra
invero che Arrigo VII l’avesse nell’animo franco e leale: i migliori
uomini d’Italia aspettavano lui sanatore di quelle piaghe che a
tutti dolevano. Dante, all’udire non falsamente predicare il senno
e la moderazione di lui, credette in lui scorgere quell’uomo del suo
pensiero, che uniti in concordia l’Impero e la Chiesa, e dato ordine
all’Italia, sotto di sè agguagliasse, arbitro supremo, le sorti del
mondo composte a giustizia ed a temperata libertà: quindi egli serbava
a lui nel poema un seggio tra’ sommi nel più alto Paradiso. Un altro
virtuoso ed illustre fiorentino, guelfo e popolano, di mite ingegno
e di natura poco ambizioso, Dino Compagni, anch’egli aveva chiamato
co’ voti Arrigo, e aveva in lui sperato. In quella vacanza che il
nostro Dino faceva principiare dalla morte di Federigo II (quegli non
tenendo veri imperatori i quali non erano discesi in Italia a pigliar
la corona) _l’Imperatore del Cielo, scrive egli, provvide e mandò
nella mente del Papa e dei Cardinali di eleggere il savio Arrigo di
Lucemburgo_. Il Compagni, guelfo al modo stesso dell’Alighieri, voleva
però che nell’Italia non fosse spenta l’autorità dell’Impero, la cui
potenza sognavano ordinatrice sovrana, bastante a frenare con armi
legittime le tirannie d’ogni sorta; e così quella dei re di Francia,
che angariavano i pontefici, come in Italia quella dei tiranni lombardi
o toscani, ghibellini o guelfi, signori feroci in chiuse castella, o
falsi o invidi popolani. E Dino condanna le città e i signori che ad
Arrigo resistevano, e soprattutto l’ardimento dei Fiorentini o dei
capi della parte nera, che per danari o per ogni maniera di pratiche
destavano contro al Signore giusto ribellione. Giovanni Villani,
benchè si tenesse coi Guelfi più stretti, applaudiva anch’egli ad
Arrigo, chiamando lui «savio e giusto e magnanimo, disceso per farsi
pacificatore dell’Italia.»
La massa intanto di parte guelfa tutta era in arme ed in sospetti
per la prossima venuta del nuovo eletto Imperatore. Il re Roberto,
che n’era capo, aveva mandato in Firenze un suo maliscalco con 300
cavalieri catalani, i quali andarono coi Fiorentini verso Arezzo, ed
ivi ebbero buon successo contro agli Aretini condotti da Uguccione
della Faggiuola. Poi nel giugno del 1310, quando si appressavano ad
un’altra spedizione contro di quella città, una lettera imperiale
comandava loro di abbandonare la impresa, Arrigo intendendo scendere in
Italia a comporre le discordie. Mandava poi questi in Firenze Luigi di
Savoia, eletto da lui senatore in Roma, con altri a richiedere la città
di fargli omaggio nella coronazione sua, e che frattanto gli inviassero
ambasciatori a Losanna; innanzi tutto richiamassero le genti loro da
Arezzo. Molti dispareri sorsero in Firenze per tale ambasciata, e assai
fu discusso circa l’ubbidire o no: rispondeva prima nel Consiglio Betto
Brunelleschi, che mai per niuno Signore i Fiorentini inchinarono le
corna: ma più onestamente, sebbene allo stesso effetto, rispose Ugolino
Tornaquinci in nome della Signoria. Gli uomini savi ripresero Betto, nè
il popolo lo commendò. Gli ambasciatori continuando recarono alle genti
sotto Arezzo il comandamento di partirsi; ma non avendo ciò ottenuto,
andarono a porsi in Arezzo molto indignati contro a’ Fiorentini.[131]
Aveano molte città italiane mandato ad Arrigo ambasciatori in Losanna:
e già quelli dei Fiorentini erano eletti, ed avevano apparecchiato i
panni per le robe da comparire onorevoli, e fatti altri apprestamenti;
allorchè per certi grandi guelfi di Firenze si sturbò l’andata. Ora
appresentandosi al Signore le varie ambascerie delle città di Toscana,
domandò perchè non vi fosse quella di Firenze. Rispostogli essere per
il sospetto che ivi si aveva di lui, ripigliò: «Male hanno fatto, chè
nostro intendimento era di volere i Fiorentini tutti, e non partiti,
a buoni fedeli; e di quella città fare nostra camera e la migliore di
nostro imperio.[132]» Altre difficoltà sorsero fra lui ed i Fiorentini,
i quali nel seguente agosto maggiormente insospettiti, fecero mille
cavalieri cittadini, si cominciarono a guernire di soldati e di
moneta, e strinsero lega col re Roberto e con più città di Toscana e di
Lombardia, all’intento d’impedire la passata d’Arrigo in Italia: mentre
al contrario i Pisani, che la bramavano, mandarono a questo 60 mila
fiorini d’oro, ed altrettanti gliene promettevano quando fosse giunto
nella città loro. Con questo aiuto si mosse Arrigo da Losanna per
passare le Alpi. Ed in quel tempo il re Roberto tornando da ricevere la
corona in Avignone venne in Firenze: intimorito al pari dei Fiorentini
per la passata dell’Imperatore, si sforzò di conciliare i Guelfi tra
loro, ma con poco frutto. Albergato nella casa dei Peruzzi, ebbe dalla
Repubblica onoranze e molto danaro, tantochè ogni dì più si andava
rafforzando con lui l’amicizia.
Sul cadere di settembre l’Imperatore, passato il Cenisio, calò in
Piemonte ed in Lombardia. Soggiornò in Asti più di due mesi, e di
lì poi giunto ad un bivio che conduceva quindi a Milano e quindi a
Pavia, il vecchio Matteo Visconti caporale dei Ghibellini, alzando
la mano, gli disse: «Signore, questa mano ti può dare e torre
Milano.[133]» Matteo era capitano di quasi tutta la Lombardia, uomo
astuto più che leale. Guidotto della Torre, che dominava in Milano,
capo di parte guelfa e unito in lega co’ Fiorentini, vedeva con timore
avanzarsi l’Imperatore in compagnia dei Visconti: avrebbe voluto fare
resistenza; ma visto non potersi fidare del popolo, accolse con grandi
dimostrazioni di rispetto l’Imperatore; il quale condusse le due
famiglie rivali a forzata riconciliazione, donde usciva quindi con la
caduta dei Torriani la signoria dei Visconti. Era il gennaio 1311: la
venuta dell’Imperatore fu nell’Italia variamente accolta. Lo sperare
dei Ghibellini si ridestava, e invano Arrigo mostrava volere essere
amico a tutti; pigliava in Milano la corona, ed accoglieva del pari
Guelfi e Ghibellini: seco erano tre Cardinali legati del Papa; cosicchè
la prima volta, ma per breve tempo, le due supreme potestà sembravano
congiunte insieme, in un voler solo. Ma di ciò quegli animi sfrenati
non si contentavano; i Ghibellini diceano, e’ non vuole vedere se non
Guelfi; e i Guelfi diceano, e’ non accoglie se non Ghibellini.[134]
Falliva la parte d’arbitro supremo, che Arrigo si aveva assunta con
lo scendere in Italia; costretto accorgersi dove fossero i suoi amici
naturali e dove i nemici, senz’altra forza che dei baroni accorsi a
lui, senza moneta, quando non la spremesse di fondo al popolo; Arrigo,
a malgrado i buoni suoi proponimenti, costretto vessare e costretto
inferocire, bentosto non fu in mezzo ad uomini italiani altro che un
tedesco imperatore. L’avere egli posto vicari imperiali nelle città
invece dei potestà e dei capitani, diceva abbastanza quel ch’egli
volesse. Così era tutta la vita nostra ricacciata un secolo addietro,
e innanzi tempo compressi i vizi nella servitù. Firenze, postasi a
capo della contraria parte, allora si diede a rinforzarsi di mura,
a stringersi maggiormente colle città guelfe toscane e lombarde, ad
esortarle si opponessero per ogni modo all’Imperatore, inviando loro a
questo effetto moneta e soccorso di soldati mercenari.
Dante in Milano avea veduto l’Imperatore, dal quale sperava in
patria il ritorno. Poi dal Casentino, dove era in casa i Conti Guidi,
scriveva due molto famose lettere, che una ai principi ed ai popoli
d’Italia perchè si assoggettassero all’Imperatore, e l’altra a questo,
esortandolo al compimento della impresa; nella prima intitolando
sè stesso «l’umile italiano Dante Alighieri fiorentino indegnamente
sbandito;» e la seconda, oltrechè nel proprio suo nome, in quello di
«tutti universalmente i Toscani che pace desiderano,» degli esuli cioè
che a Dante s’erano accompagnati e di coloro che a lui consentivano.
In questa esortava l’Imperatore a rompere ogni indugio; scendesse
tosto di Lombardia, venisse contro a Firenze sola, dove era il nido e
la forza della ribellione; questa essere «la pecora inferma, la quale
col suo appressamento contamina la gregge del suo signore:... lei
ricondotta, le sparse forze dei contumaci in Lombardia tosto verrebbero
sgominate:... ed allora l’eredità nostra, la quale senza intervallo
piangiamo esserci tolta, incontanente ci sarà restituita.» In questa
lettera è solenne documento dei concetti e dei dolori e delle passioni
che dentro agitavano la fiera anima del Poeta.
L’Italia pareva cedere ad Arrigo. Cremona soccorsa dalle genti e dai
danari dei Fiorentini gli faceva resistenza: tuttavia poco stante
venne in potestà sua, mandando a lui dei suoi cittadini scalzi col capo
nudo, in sola gonnella e colla correggia al collo a domandare mercè:
i Bresciani, dapprima ossequiosi, istigati poi dai Fiorentini, in un
subito gli negarono ubbidienza, e tornarono poscia ad arrenderglisi
nel settembre del 1311. Siccome però Milano e la parte dei Torriani
insorgevano, era evidente come tutte quelle città null’altro
aspettassero che il destro a nuovamente ribellarsi. Ma Genova accolse
poco dipoi tra le sue mura l’Imperatore, che fu onorato con pari
sollecitudine dalle due fazioni, quella dei Doria che vi dominava, e
quella degli Spinola che n’era stata sbandita. Parma ed alcune città
di Romagna erano tenute fortemente da un cavaliere catalano che era a’
servigi del re Roberto; con esso andavano le genti dei Fiorentini e i
fuorusciti di Brescia e quelli che indi a poco rientrarono in Cremona.
Padova si ribellava anch’essa in quei giorni: i Fiorentini, mentre
cercavano suscitare da ogni lato nuovi nemici ad Arrigo, si studiavano
anche di porgli inciampi con l’inviare a questo effetto legati nella
corte Avignonese, dove spesero assai danari e altro non ebbero che
parole. Munivano intanto di forti difese i vari passi dell’Appennino;
e rinnovarono la lega co’ Bolognesi, Lucchesi, Sanesi, Volterrani
e Pratesi, e con tutte le altre terre guelfe di Toscana, mentre
taglieggiavano Pistoia molto aspramente colle imposte. Si dava Siena di
ora in ora a questo o a quello.
Da Genova si erano intanto avviati verso Toscana due messi imperiali,
Pandolfo Savelli notaro pontificio e Niccolò vescovo di Butronto,
autore quest’ultimo di una molto credibile relazione che, intitolata
a Clemente V, è il più autorevole documento che abbiamo sul viaggio
di Arrigo VII in Italia.[135] Avuto mandato di ricevere l’omaggio dai
signori e dalle città di Toscana, chiesero il passo ai Bolognesi,
ai quali scrissero che andavano nunzi di pace con lettere papali e
imperiali: ma l’inviato loro fu messo in carcere; donde poi fuggito,
recò la novella ai due Legati, che immantinente voltati a destra,
per vie orribili cercavano luogo a varcare l’Appennino. Incontrarono
soldati della Repubblica di Firenze, mandati a guardia di quelle
strette; ma che, saputo come l’Imperatore avesse presa la via di
Genova, tornavano indietro: furono da questi lasciati andare senza
contrasto, non senza paura (scrive il nostro dabben Tedesco); e salvi
giunsero alla Lastra vicino a Firenze. Mandarono quivi a chiedere
ospizio per lettere al Potestà e al Capitano, perchè come uomini
imperiali teneano da meno l’autorità del Gonfaloniere. Subito in
Firenze si radunò gran Consiglio; e per la città intanto si diceva
essere venuti messi di quel tiranno che di Germania era disceso in
Italia a distruzione di parte guelfa sotto l’ombra della Chiesa e
avendo prescelto cherici all’inganno, con grande moneta. I due Legati,
aspettando le risposte, avevano la mattina dopo già fatto mettere
all’ordine i cavalli e legare le some; quando, mentre erano a mensa,
udirono la campana suonare a martello e viddero la strada empirsi
d’armati che circondarono la casa; dove uno dei Magalotti tentava
salire con grida, ma il padrone della casa gli stava incontro a capo la
scala. Pur nonostante quelli bentosto salirono su: dei familiari, chi
si celava sotto ai letti, e chi saltando per la finestra fuggiva; un
povero frate moriva nel salto: lo scrittore di questa scena ringrazia
Dio d’avere serbata però sua fermezza. I somieri con le robe furono
tutti menati via: ma dalla città venivano uomini mandati dal Potestà
e dal Capitano, e con essi uno degli Spini che gli esortò a voltare
indietro con la speranza di riavere le robe loro; portavano lettere
pontificie, che i Legati negarono pure di farsi leggere: i sopravvenuti
gli avviarono tosto per la via dei colli di San Gaudenzio, donde
pervennero sulle terre dei Conti Guidi, nel Casentino. Riebbero undici
dei loro cavalli e tre somari; il Vescovo di Butronto perdè la cappella
sua ed ogni cosa che egli avesse al mondo in oro o in argento, salvo
l’anello ch’egli portava in dito e lo stile col quale scriveva sulle
tavolette da ricordi. Pandolfo Savelli, che avea più da perdere, perdè
ogni cosa.[136]
I Conti Guidi erano parte Guelfi, parte Ghibellini: tutti giurarono
fedeltà, e promisero di appresentarsi al Signore e fargli omaggio
nella coronazione; i Guelfi si mostravano più caldi, ma chiedeano
indugi, temendo i popoli e le terre circostanti. Di quella famiglia
era il Vescovo d’Arezzo, che volentieri accolse i Legati nella città
sua, e giurò pei beni temporali, avendo quei Vescovi il grado di
Conti palatini. Poi gli condusse a Civitella, sua terra murata sopra
un alto poggio che domina tutta la Valle di Chiana con ampia corona
dei monti appennini: cedeva quel luogo perchè ne facessero come una
camera dell’Impero. Di là mandarono citazione ai Fiorentini ed ai
Senesi, tosto poi dannandoli come contumaci a pene gravissime secondo
il diritto, del quale il buon Vescovo di Butronto capiva poco; ma
il Savelli, dicevano tutti che se ne intendesse molto bene. Citarono
anche le terre circonvicine a comparire per sindachi, dei quali molti
comparvero, pochi si scusarono o chiesero indugio per la paura o per
avere le robe loro in su’ mercati dei non ubbidienti. Quelli di Cortona
per bocca del sindaco aveano giurato, ma popolarmente in piazza non
vollero, dicendo sarebbero stati distrutti dai Perugini, e da quei di
Gubbio e di Città di Castello, e che gli Aretini poco gli amavano:
ottennero anch’essi però dilazione con poca voglia dei due Legati.
Ad essi frattanto mandarono alcuni maggiorenti di Perugia, dicendo
voleano avere pace con l’Imperatore, pagandogli certa somma e un
tributo annuo pei castelli di ragione dell’Impero che essi tenevano,
e per il Lago; le quali cose affermavano di possedere giustamente,
avendone privilegio da un papa e consenso da un imperatore; ma chiesti
mettessero fuori quei titoli, non gli aveano. Parve una truffa ai due
Legati: mandarono un frate per questo a Perugia; ma tosto fu detto
a lui se ne andasse, perchè il popolo era guelfo, e quando sapesse
che si invocavano carte e privilegi, direbbe tradite le libertà sue.
Citarono pure i Conti di Mangona, quei di Montedoglio, Uguccione della
Faggiuola, i Pazzi di Valdarno, i Conti Ubertini e quei da Pietramala,
i Marchesi ch’erano assai dai monti d’Arezzo fino a quelli di Perugia:
e generalmente i Signori di castelli e nobili dei distretti di Firenze,
di Siena, d’Arezzo e di Chiusi; in tutti forse cinquecento Ghibellini
e Guelfi. Giurarono molti, il maggior numero in segreto per salvarsi
ad ogni evento; chi all’appresentarsi ponea condizioni, i Legati
condannavano.[137]
In Genova era venuta a morte l’Imperatrice: dopo di che Arrigo mandò
ai Legati lo raggiungessero in Pisa con quante più genti potessero:
muovevano questi col Vescovo d’Arezzo e altri Signori che da quelle
parti ebbero animo di seguirli: girarono attorno alle terre dei Senesi,
e di castello in castello, da Radicofani vennero a Santa Fiora, da
quei Conti assai bene accolti, ed avviati per mare fino a Castiglione
della Pescaia, dove si distendeva l’ampio dominio dei Pisani. Trovarono
in Pisa l’Imperatore, che per avere deposto gli Anziani e messo al
governo della città un suo Vicario, avea forte turbato gli animi e
discontentati. Aveva da Genova fatto processo ai Fiorentini, dipoi
condannati nelle persone e negli averi; da Pisa mandava soldati nei
confini loro, e facea gran prede in sulle vie: essi che aveano le
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