Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 05

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un panno anch’esso vermiglio: tenevano i buoi nello Spedale di Pinti a
questo ufficio ed a niun altro; il guardatore di essi avea franchigia
nel Comune. Quando era guerra, i conti e castellani vicini e gentili
cavalieri della città lo traevano dall’Opera di San Giovanni, e
condotto sulla piazza di Mercato Nuovo, lo posavano sopra un termine
ch’era fatto d’una pietra tonda, raccomandandolo quivi al popolo di
Firenze. All’oste lo guidavano i popolani, e di essi i migliori ed
i più forti e virtuosi erano deputati a guardarlo, a piedi tutti; e
nelle battaglie la forza del popolo intorno a quello si ammassava. E
quando l’oste era bandita, un mese innanzi ponevano sull’arco della
porta Santa Maria, in capo di Mercato Nuovo, una campana chiamata la
Martinella, e quella del continuo suonava. Quando l’oste si moveva, la
detta campana era levata d’in sull’arco e posta in un carro sopra un
castello di legname; al suono di questa si guidava l’oste.[50]» Queste
erano pompe del popolo vecchio e della Repubblica di Firenze.
Andava l’oste contro Siena, e via facendo impadronitasi d’alcune
castella, si accampava presso l’antiporta della città stessa al
Monistero di Santa Petronella, dove su un poggetto rilevato innalzarono
una torre da tenervi la campana. In Siena il disegno che Farinata
aveva fatto sulla bandiera del re Manfredi, ebbe allora compimento:
durando l’assedio, gli usciti di Firenze diedero un giorno mangiare ai
cavalieri tedeschi; e bene avendogli avvinazzati, gli feciono armare e
montare a cavallo per assalire il campo de’ Fiorentini, con la promessa
anche di grandi doni e paga doppia. I Tedeschi forsennati e caldi di
vino uscirono fuori; e perch’erano improvvisi, al primo assalto fecero
grande danno, e molti del popolo e della cavalleria fuggirono, credendo
fossero maggior numero di gente: poi ravveduti, si raccozzarono e
diedero addosso ai pochi Tedeschi, dei quali molti furono uccisi; e la
bandiera del re Manfredi presa e strascinata, fu poi recata a Firenze.
Allora i Senesi e i fuorusciti ghibellini avendo accattato dalla
compagnia de’ Salimbeni di Siena ventimila fiorini d’oro, mandarono
altri ambasciatori annunziando a quel Re come la sua poca gente per
gran valentia essendosi messi ad assalire l’oste dei nemici, prima
l’avessero posta in fuga, e se più fossero stati, avevano la vittoria;
ma per la poca gente, erano poi tutti rimasti morti, e l’insegna
caduta in mano dei Fiorentini e svergognata: a ciò aggiugnendo quelle
parole che seppero meglio ad ismuovere Manfredi.[51] Il quale crucciato
allo intendere la novella, con la moneta dei Senesi mandò in Toscana
il conte Giordano suo maliscalco ed ottocento cavalieri tedeschi;
giungevano questi all’uscita del luglio 1260.
Per questo rinforzo invigoriti i Senesi, bandirono oste sopra a
Montalcino; e avendo richiesto l’aiuto dei Pisani e di tutti i
Ghibellini di Toscana, bentosto raccolsero in Siena un esercito
di molto polso. Ma non si credevano però avere fatto nulla se non
tirassero i Fiorentini fuori a campo, i Tedeschi essendo pagati per
soli tre mesi; e già n’era passato uno e mezzo, nè moneta avevano
da più tenerli, nè mai l’avrebbero ottenuta da Manfredi. Ragionarono
pertanto che al fine loro non perverrebbero senza grande maestria e
inganno di guerra; del che l’industria fu commessa a Farinata degli
Uberti. Sceglieva egli due frati Minori da inviare messaggieri al
popolo di Firenze; e prima gli fece in gran segreto abboccare con
alcuni dei principali di Siena, i quali diedero infintamente loro ad
intendere che, bramando scuotere essi quella sorta di signoria che
Provenzano Salvani esercitava dentro alla città, volentieri darebbero
questa ai Fiorentini per diecimila fiorini d’oro: venissero con grande
oste sotto cagione di fornire Montalcino, e andassero infino sul
fiume d’Arbia, dove giunti avrebbero dagli amici loro la porta di San
Vito la quale guarda verso Arezzo. I frati, condotti essi medesimi
nell’inganno, vennero a Firenze con lettere suggellate, e fecero capo
agli Anziani, profferendo che recavano gran cose in pro del popolo di
Firenze, ma che erano tali che si voleano manifestare a pochi. Allora
gli Anziani elessero due di loro; che uno era chiamato lo Spedito,
audace uomo e intramettente; ai quali, poichè ebbero fatto sacramento
sull’altare, i frati mostrarono le lettere, e tutto discopersero il
trattato. I due portati da volontà diedero fede, e incontanente trovati
i diecimila fiorini, radunarono Consiglio di grandi e di popolo, ai
quali esposero che bisognava muovere l’oste d’intorno a Siena a fornire
Montalcino, e quivi andare con grande possa. I nobili delle grandi case
di Firenze ed il conte Guido Guerra ch’era con loro, e di milizia più
sapevano che i popolani, ed ignoravano il trattato; conoscendo la nuova
masnada de’ Tedeschi ch’era venuta in Siena, e la mala vista che fece
il popolo a Santa Petronella quando i cento Tedeschi gli assalirono; e
sapendo i cittadini non tutti essere bene disposti, e altresì pensando
come si poteva in altro modo fornire Montalcino, al che gli Orvietani
s’erano offerti; e che lasciando i Tedeschi stentare finchè non
mancasse la moneta, si sarebbono straccati, e tornerebbero in Puglia
lasciando i Senesi più in male stato che per l’innanzi: avvisando
queste cose, diedero savio consiglio che per al presente non si dovesse
muovere l’oste. Fu per essi tutti dicitore Tegghiaio Aldobrandi degli
Adimari, savio e prode cavaliere e di grande autorità: ma detto ch’egli
ebbe, lo Spedito già inalberato nelle speranze e di natura presuntuoso,
si fece a riprenderlo con vili parole tacciandolo di paura. Tegghiaio
rispose: Tu non ti ardiresti di seguitarmi nella battaglia, dove
starò io. Si levò Cece dei Gherardini a dire lo stesso che aveva detto
messer Tegghiaio; ma gli Anziani gli comandarono non dicesse, e a chi
arringasse contro al comandamento era pena cento lire. Il cavaliere
voleva pagarle per contradire, ma gli Anziani raddoppiarono la pena
una e due volte, ed egli voleva sempre pagare; comandarono si tacesse,
pena la testa. E così vinse il peggior consiglio, che tutto l’esercito,
levato il campo, senza indugio procedesse.
Deliberatosi di combattere contro il parere dei nobili, il popolo
fiorentino ricercò l’aiuto de’ suoi collegati, e l’ebbe da Lucca, da
Bologna, da Pistoia, da Prato, da San Miniato, da Volterra, da San
Gimignano e da Colle di Val d’Elsa, terre che allora formarono una lega
guelfa col Comune di Firenze. Era il tempo del ricolto, e i contadini
fatti soldati presero l’armi con ripugnanza. Di Firenze erano più di
ottocento cavalieri, e ben cinquecento soldati a piedi, che mossero
alla guerra al cominciare d’agosto col Carroccio e colla campana. Gli
seguitò molta plebe colle insegne delle compagnie, e non rimase nella
città casa nè famiglia che non vi andasse qualche persona a piedi o
a cavallo, e di tale due, secondo che erano potenti.[52] Credettero
fosse provvedimento più cauto menare seco i Ghibellini mescolati
nelle compagnie, anzichè lasciarli mentre era assente la milizia,
«quasi padroni della città.» Ma fu peggio, avendo quelli avuto agio
d’aspettare, confusi tra’ Guelfi, il tempo acconcio al tradimento
che già Farinata per altri suoi messi aveva ordinato. I Fiorentini
oltrepassata Siena si fermarono a cinque miglia da quella città,
dalla parte di levante sull’Arbia in Val di Biena, sito abbondante di
acque e di pascoli, munito dai lati e a tergo dai colli di Montaperti,
castello posto in una altura, e divenuto famoso per quella battaglia.
Ivi a loro si aggiunsero Perugini e Orvietani che là gli aspettavano;
talchè l’esercito assembrato aveva in tutto tre mila cavalieri e più
assai migliaia di fanti, che in quelle guerre mal si contavano perchè
andavano disordinati. In mezzo a cosiffatti apparecchi, e come accade
all’appressarsi di grandi eventi, paurosi presagi si spargevano a
Firenze, e a Siena, e in tutta Toscana.
Siena con religiose cerimonie si consacrava quel dì alla Vergine come
a signora unica e perpetua: la notte che precesse alla battaglia
per tutte le chiese era un piangere, un pregare, un fare paci coi
nemici che ognuno avesse. Venuta l’ora del mattino, a un grido del
banditore, cinquemila cittadini senesi pigliarono le armi, e furono in
punto per modo volonterosi, che il padre non aspettava il figliuolo,
nè l’un fratello l’altro: con essi duemila fuorusciti fiorentini
bramosi di recuperare la patria quanto erano i Sanesi di non perdere
la loro, e ottocento soldati tedeschi sotto la condotta del conte
Giordano: i Pisani, impegnati nella guerra coi Genovesi, non avevano
potuto mandare altro che poca gente. L’esercito fiorentino accampato
a Montaperti e gli Anziani che lo reggevano, fra i quali ci è noto
soltanto il nome dello Spedito, attendevano sinchè la porta fosse loro
consegnata com’era promesso; quando un grande popolano fiorentino
chiamato il Razzante, di animo ghibellino, esce dagli accampamenti,
entra in città, ed agli amici suoi narra privatamente come nel campo
si buccinasse che Siena doveva esser tradita; e che l’oste guelfa
era poderosa molto; e di troppo gran rischio la battaglia in su quel
punto co’ Fiorentini. Ma Farinata, risaputi i discorsi del Razzante,
gli gridò contro: «Uccideresti noi tutti se tu spandessi per Siena
queste novelle, perchè ogni uomo faresti impaurire, ma vogliamo che
dichi il contrario; perocchè se ora non si combatte, che avemo questi
Tedeschi, mai non ritorneremo in Firenze; e per noi farebbe meglio la
morte che andare più tapinando per lo mondo.» Accomodatosi il Razzante
a quell’ammaestramento, si pone una ghirlanda in capo, rimonta a
cavallo e simulando allegria viene al parlamento in palagio, dove era
tutto il popolo di Siena, e i Tedeschi ed altre amistadi: ivi con
lieta faccia dice che l’oste dei Guelfi si reggeva male, e che era
male guidata e peggio in concordia; e che assalendoli francamente, di
certo erano sconfitti. A grida di popolo si armarono tutti in Siena
gridando: «battaglia battaglia.» Vollero i Tedeschi paga doppia, e
l’ebbero: fu spalancata la porta San Vito che a levante stava di fianco
all’accampamento fiorentino.
Era presso che la metà del martedì, quarto giorno di settembre
1260. Innanzi andavano i cavalieri tedeschi, seguitati dalle genti
d’armi di Siena a cavallo, dai fuorusciti, e dalla fanteria, tutti
sotto ai loro stendardi. I Fiorentini dapprima crederono che i soli
Tedeschi uscissero fuori a provocarli come nei giorni precedenti: ma
quando scorsero la fiumana dei soldati versarsi giù per le colline,
quando ravvisarono il popolo dei Senesi venire innanzi ordinato alla
volta loro, sbigottirono. Perchè la mostra fosse maggiore, i Senesi
avevano fatto uscire anche saccardi e fantaccini con elmo in testa:
la fanteria mescolata ai cavalieri stava in ordine di battaglia sulle
colline sotto le sue bandiere; le salmerie si fermarono in disparte
quando cominciò la pugna. Innanzi agli altri i cavalieri tedeschi
rovinosamente percossero i cavalieri dei Fiorentini, che ad assalto
non preveduto male resistendo, videro tosto di mezzo a loro uscire
i Ghibellini traditori e andare a porsi dall’altra parte. Le spade
tedesche s’aprivano il campo tra l’oste nemica; il caldo era grande, il
sole che piegava all’occidente feriva negli occhi le guelfe milizie.
Di queste l’insegna era portata da Iacopo de’ Pazzi, uomo di grande
valore; quando Bocca degli Abati, uno dei Ghibellini traditori che era
in sua schiera appresso a lui, da tergo spingendogli addosso il cavallo
gli taglia la mano, che cade giù con l’insegna. Al che i cavalieri,
vedendosi a quel modo traditi dai loro ed abbattuta l’insegna, e dai
Tedeschi sì forte assaliti, in poco d’ora si misono in isconfitta:
ma perchè la cavalleria di Firenze prima s’avvidde del tradimento,
non venne a perdere che trentasei uomini di nome, tra morti e presi.
Rimaneva la milizia del popolo a piedi, che era molto numerosa e aveva
più forte la coscienza della causa che essa difendeva; facevano calca
intorno al Carroccio, alla cui guardia era quel giorno preposto un
Giovanni Tornaquinci cavaliere d’antica età, sperimentato in molte
battaglie e per famiglia capo dei Guelfi nel sesto di San Pancrazio:
seco era un suo figliuolo e tre parenti del sangue istesso; i quali
tutti, dopo lunga e appassionata resistenza, con lui cadevano sul
mucchio dei morti. Ma la grande mortalità e presura fu dei fanti
popolani di Firenze, di Lucca e d’Orvieto, i quali essendosi andati a
chiudere nel castello di Montaperti, cadevano tutti in mano ai nemici.
Tramontava il sole e la feroce zuffa durava ancora: terminò col giorno,
avendo continuato senza interruzione sette ore. Dei Fiorentini oltre
a duemilacinquecento furono uccisi e millecinquecento presi, tutti
dei migliori del popolo e di ciascuna casa di Firenze:[53] gravi
danni ebbero i Lucchesi. Il Carroccio, la Martinella e innumerabile
preda d’arnesi rimasero al vincitore. Fu questa battaglia delle più
sanguinose di quei tempi, siccome quella per cui fu rotto e annullato
il popolo vecchio di Firenze che era durato in tante vittorie e grande
signoria e stato per dieci anni.[54]
Due croniche senesi descrivono a guisa di poema o di romanzo i colpi
di lancia dei cavalieri tedeschi; di questo peccato almeno fu immune la
parte dei Guelfi. Narrano poi la molta strage che da uomo a uomo fecero
i pedoni e il grande numero dei prigionieri condotti in Siena dopo la
battaglia: ivi è tuttavia memoria di una trecca per nome Usilia, che
ne avrebbe condotti trentasei legati alla coda di un suo asinuccio. Da
quelle cronache poco si rileva di quello che importi alla politica o
alla guerra, ma bene dipingono gli affetti che in Siena dominavano e le
passioni; e la leggenda poi s’innalza quando pone in iscena un araldo
che stando a vedetta in cima alla torre dei Marescotti dentro la città,
vede ed accenna via via ai trepidanti concittadini suoi i casi tutti
della battaglia, e la vittoria su’ Fiorentini: qui è proprio l’Iliade;
istoria non è, perchè da Siena era impossibile scorgere le mosse dei
due eserciti nel campo di Montaperti.[55]


CAPITOLO VI.
FIRENZE IN MANO AI GHIBELLINI. — FARINATA DEGLI UBERTI VIETA LA
DISTRUZIONE DELLA CITTÀ. — MISERIA DEI GUELFI. — DISCESA IN ITALIA DI
CARLO D’ANGIÒ, E MORTE DEL RE MANFREDI. [AN. 1260-1266.]

Giunta in Firenze la novella della sconfitta dell’Arbia e insieme con
essa i fuggitivi accorrenti, si levò il pianto d’uomini e di femmine,
ogni famiglia deplorando morti o prigionieri uno o più dei suoi.
Gli scampati dalla battaglia e i nobili e popolani guelfi rimasti
in Firenze, temendo l’arrivo imminente dei vincitori e fidando poco
nella plebe dove erano molti aderenti ai Ghibellini, si risolvettero
spatriare; e a’ 13 settembre 1260 usciti piangendo dalla città, si
recarono a Lucca con le famiglie loro. Tale era la sorte in quelle
guerre cittadine: i vinti perdevano con la potenza la patria e gli
averi e ogni gioia della vita; uopo era fuggire. Ma insofferenti
dell’esilio, cercavano guerra da chi si fosse contro alla città loro,
dove ogni cosa rimaneva monca e interrotta, gli usciti recando qua
e là per l’Italia gli sdegni loro e le querele. Esulavano fra gli
altri i Bardi, i Rossi, i Mozzi, i Gherardini, i Cavalcanti, i Pulci,
i Buondelmonti, gli Scali, gli Spini, i Giandonati, i Tornaquinci, i
Tosinghi, gli Adimari, i Pazzi, tutte nobili casate; e delle popolane
i Canigiani, i Machiavelli, i Rinucci, i Soderini, con altre molte
che nel governo degli Anziani erano venuti in stato. Con essi ebbe
bando Brunetto Latini, che fu poi maestro di Dante. Avealo inviato la
Repubblica ad Alfonso re di Castiglia per chiedergli aiuto contro a’
Ghibellini, e in quel frattempo la parte sua essendo vinta, rimase egli
in Francia, e quivi scrisse il suo Tesoro. Parve dipoi che i Guelfi
avessero mostrato poco animo e fermezza nell’abbandonare la città, che
era forte di mura e di torri e di fossi pieni d’acqua da poterla bene
difendere e tenere.
Nella domenica 16 settembre il conte Giordano, le masnade tedesche e
gli altri soldati ghibellini di Toscana, arricchiti delle prede dei
vinti, fecero ingresso nella città senza contrasto; e subito elessero
Potestà di Firenze pel re Manfredi Guido Novello della famiglia dei
conti Guidi, signori di Poppi in Casentino. Egli a tutti i cittadini
fece giurare fedeltà al Re, e per i patti promessi ai Sanesi fece
disfare cinque castella del contado di Firenze che fronteggiavano
quel di Siena. Alloggiava dove poi fu il Palagio del Potestà; e poichè
dentro era mal sicuro e fuori aveva la forza sua, fece aprire sino alle
mura la via che tuttora ha nome di Ghibellina, per la quale potesse
a ogni caso mettere dentro i suoi fedeli e uscire al bisogno fuori
degli ingombri delle vie. Il conte Giordano con le masnade tedesche
rimase capitano di guerra e vicario generale pel re Manfredi. Tutte le
sostanze dei Guelfi andarono al Comune, e molte loro abitazioni furono
rase dai fondamenti: Firenze era come in balía d’uomini stranieri.
Quando in Roma giunse la novella della sconfitta dei Fiorentini,
acerbo dolore ne provarono il pontefice Alessandro IV e i Cardinali pel
grande abbassamento che ne veniva alla parte della Chiesa. Ma perchè
il cardinale Ottaviano degli Ubaldini ghibellino ne faceva grande
festa, il cardinale Bianco, che era guelfo e aveva fama d’astrologo,
disse parole le quali furono presagio a molti della vittoria e del
ritorno dei Guelfi nella patria loro. Questi frattanto sgombrarono non
solamente Firenze, ma Prato ancora e Pistoia e Volterra e San Miniato
e San Gimignano e molte altre terre di Toscana. Lucca rimase guelfa,
e diede rifugio ai seguaci di quella parte. Quivi stanziando gli esuli
fiorentini e spesso convenendo sotto la loggia innanzi alla chiesa di
San Frediano, un giorno Tegghiaio degli Aldobrandi veduto lo Spedito
che nel consiglio gli aveva detto villania e che allora pativa con gli
altri la povertà e l’esilio: «Vedi (gli disse) a che hai condotto te e
me e gli altri per la tua audacia e superbia.» Quegli rispose: «E voi
perchè ci credevate?» parole abiette e senza pudore.
Intanto i Pisani, i Senesi, gli Aretini, il conte Giordano con
gli altri capi ghibellini di Toscana, ordinarono di fare in Empoli
parlamento per assicurare la vittoria della parte loro e fare taglia,
cioè compartire tra loro i carichi e le spese; ma in questo mentre
lo stesso conte Giordano essendo richiamato in Puglia per mandato di
Manfredi, lasciò vicario generale e capitano di guerra in Toscana il
conte Guido Novello. Prima che egli andasse, adunatosi il parlamento,
tutti i deputati delle città ghibelline e i feudatari vicini a Firenze
opinarono che la città, disfatta in parte e priva delle sue mura, fosse
ridotta a borghi aperti siccome quella il cui popolo era tutto guelfo:
rialzerebbe (dicevano) essa tosto o tardi la parte della Chiesa; alla
salute loro volersi la distruzione di Firenze. Tutti assentivano,
quando uno solo si levò ad oppugnare il comun voto, Farinata degli
Uberti. Sembra che allora nelle pubbliche arringhe dal dicitore
solesse proporsi un motto, sul quale la diceria poi si svolgesse.
Farinata propose due grossi antichi proverbi composti in uno, nel quale
accennava all’autorità sua sopra gli altri, rozzi e impotenti a petto
a lui.[56] Mostrò la follía di quell’atroce proponimento; e se altri
non fosse cui stesse a cuore tale città, egli con la sua spada in mano
finchè avesse vita la difenderebbe: disse, ed accennava uscir dalla
sala. Grande cuore aveva, e ognuno temette nimicarsi tale uomo; il
conte Giordano, prudentemente adoperando, tolse altri modi a contenere
il popolo di Firenze; e così per l’alto animo e per la virtù di
Farinata, la città fu salva: il nome di lui rimase glorioso nei tempi
avvenire.
La possanza della parte ghibellina si dispiegava in Toscana, dove
il conte Guido Novello occupava parecchie castella dei Lucchesi. Il
corso di tali conquiste si arrestava nondimeno davanti a Fucecchio,
che difeso più di trenta giorni dal fiore dei fuorusciti guelfi ivi
raccolto, restava finalmente libero dall’assedio. I Guelfi spedivano
loro ambasciatori in Alemagna alla madre di Corradino legittimo erede
di Corrado, ed il cui trono era tenuto da Manfredi suo zio, acciò loro
affidasse il figlio; ma essa per la tenera età lo negava. Anche in
seguito vedremo la parte abbassata cercarsi appoggio dallo straniero,
intantochè la supremazia degli Imperatori apriva l’adito in Italia ai
Tedeschi, e l’irrequieta gelosia papale ad altri principi stranieri.
Alcuni tentativi guerreschi dei Guelfi per rientrare in Firenze
andavano a vuoto: anzi provocavano maggiori assalti del conte Novello,
che tornato ad oste contro a’ Lucchesi ed ai fuorusciti fiorentini, gli
sconfiggeva. Qui l’ultima volta comparisce nelle storie Farinata degli
Uberti. Questi a battaglia finita cavalcando, si era tolto in groppa
Cece dei Buondelmonti suo prigioniero, quando Piero suo consorto,
soprannominato l’Asino, con vituperosa crudeltà gliel’uccideva addosso,
dandogli d’una mazza in sulla testa.
I Ghibellini avevano occupato alcune castella dei Lucchesi, i quali
bramosi di ricuperare i loro uomini rimasti prigioni in Montaperti
che erano molti e dei migliori della città, fecero al conte Guido
segretamente offerire, restituisse questi con le castella ed essi
caccerebbero tutti i fuorusciti guelfi. La pratica venne copertamente
condotta sì che niuna cosa ne trapelò a quei miseri, cui ad un tratto
la Signoria di Lucca comandava sgombrassero la città e il territorio
dentro tre dì, pena la testa: nè pietà ottennero nè indugio, e le
masnade tedesche avanzavano. Abbandonarono Lucca essi e le famiglie
loro nel 1263, e donne gentili, mogli dei fuorusciti fiorentini,
furono costrette partorire tra le asprezze di quell’appennino che è
tra Lucca e Modena: di qui rifuggivansi miseramente in Bologna. Chiusa
era loro Toscana tutta, dove in poco d’ora non fu terra nè castello
che non tornasse ai Ghibellini. Questa cacciata da Lucca fu bensì
cagione di sorte migliore a parecchi fuorusciti, che riparatisi in
Francia e avvantaggiatisi nei commerci, dipoi tornarono a Firenze:
altri da Bologna passati a Modena e quindi a Reggio in aiuto dei
loro partigiani, quivi onorati ed arricchiti di prede, cominciarono a
formare una di quelle vaganti masnade di cui vedremo l’Italia essere
inondata. Erano più di quattrocento uomini d’arme, tutti a cavallo e
bene in assetto, capitanati da messer Forese degli Adimari, pronti a
soccorrere parte guelfa, alla quale già novelle sorti si preparavano.
La debolezza di papa Alessandro IV aveva giovato a Manfredi per
istabilirsi sul trono di Puglia; ma non tardò ad ascendere la sedia
pontificale Urbano IV francese, il quale si diede a rinnalzare parte
guelfa, continuando i disegni che Innocenzio IV aveva concetti. Fermo
nell’animo di abbattere ad ogni costo Manfredi, offerse nel 1263 la
corona di Napoli a Carlo d’Angiò, fratello al re di Francia Luigi
IX. Urbano moriva poco dipoi; ma Clemente IV, di lui successore e
francese anch’egli, dava effetto al disegno. Così le speranze dei
Guelfi risorsero in tutta Italia: e la famiglia Della Torre in Milano
potentissima si distaccava dai Ghibellini per accostarsi a Carlo;
mentre alcune città vicine, Verona, Brescia, Cremona, Piacenza e
Pavia, rimanevano devote al ghibellinesimo ed a Manfredi. Noi non
racconteremo la breve guerra dei due valorosi combattenti per le belle
napoletane contrade: solo diremo che il saggio re San Luigi, irresoluto
dapprima dell’aiutare o no il fratello in quella impresa di ventura,
fu lieto infine di allontanare dalla Francia quello spirito altiero ed
irrequieto con l’aprirgli lontano un campo alle ambizioni. Manfredi,
che avrebbe potuto difendersi meglio nei luoghi fortificati, prescelse
venire a grande battaglia nel piano della Grandella presso Benevento,
dove tradito da una parte de’ suoi baroni dovette soccombere: mentre
ferveva la mischia, nel rimettersi l’elmo in testa, l’aquila d’argento
che vi stava per cimiero gli era caduta sull’arcione dinanzi; egli
disse ai suoi: «Questo è segno di Dio;» e si gettò nel folto dei
nemici, dove cadde ucciso. Era l’anno 1266.[57]


CAPITOLO VII.
FINALE VITTORIA DEI GUELFI. — COSTITUZIONE DELLE ARTI. — MAGISTRATO DI
PARTE GUELFA. — GOVERNO DELLA CITTÀ DATO AL RE CARLO PER DIECI ANNI.
[AN. 1266-1267.]

Nelle schiere di re Carlo avevano combattuto i fuorusciti di Toscana,
i quali offertisi al Pontefice sin dal principio della guerra e bene
accolti, ebbero da lui l’insegna sua propria, che poi rimase alla
parte guelfa, ed era un’aquila vermiglia la quale calcava un serpente
verde. In Toscana, al primo annunzio di quella grande sconfitta e della
morte del re Manfredi, i Ghibellini ed i Tedeschi perdettero animo;
ed i Guelfi rincuorati si appressarono alla città da ogni parte del
territorio dove erano ai confini, per ordinare nuove cose coi loro
amici di dentro, avendo speranza d’essere aiutati dai partigiani loro
dell’esercito di re Carlo. Allora il popolo di Firenze, col cruccio
nell’animo delle perdite sofferte chi di padre, chi di figliuolo e
chi di fratelli alla battaglia di Montaperti, cominciò a parlare
alto per la città, dolendosi delle spese e carichi disordinati
che pativano dal conte Guido Novello e dagli altri che reggevano
la terra. I quali temendo a quei rumori che si levasse la plebe,
e confidandosi di acquetarla per via d’una certa mezzanità tra le
due parti, in luogo d’un solo Potestà com’era consueto, ne elessero
due, che l’uno ghibellino Lotteringo degli Andalò, e guelfo l’altro
Catalano dei Malavolti, ambedue bolognesi e dell’ordine cavalleresco
de’ frati Gaudenti. Questi cavalieri propriamente erano detti di
Santa Maria; abito loro la veste bianca ed un mantello bigio: gli
obblighi, difendere le vedove e i pupilli, e come pacieri intromettersi
nelle altrui discordie: «ma la grassa e poltronesca vita cui fin da
principio si erano abbandonati, gli aveva fatti notare dai popoli
con quell’appellativo di dispregio. Tuttavia per l’onestà dell’abito
fu creduto allora in Firenze che i due sopra detti, i quali aveano
lodevolmente tenuto il governo di Bologna, guarderebbero bene e
lealmente il Comune da soverchie spese. Pigliarono essi l’ufficio
non senza averne avuta prima licenza dal pontefice Clemente IV, e
forse per espresso comandamento di lui:[58] giunti, ebbero stanza nel
palagio del popolo di faccia a Badia. Ma essi tuttochè d’animo di
parte fossero divisi, sotto la coperta di falsa ipocrisia, parvero
essere in concordia più al guadagno loro proprio che non al bene
della città:[59]» fosse o no vero, Dante gli pose nell’_Inferno_
tra gli ipocriti. Da prima i due Potestà ordinarono trentasei buoni
uomini, fiore della cittadinanza, Guelfi e Ghibellini, popolani e
grandi non sospetti, rimasti in Firenze alla cacciata de’ Guelfi, che
gli dovessero aiutare co’ loro consigli e provvedere alle spese del
Comune: si trova pure che volessero confinare alcuni uomini delle due
parti.[60] Si radunavano i Trentasei ogni dì nella bottega e corte dei
Consoli dell’arte di Calimala in Mercato nuovo. Da quella bottega uscì
ad un tratto e come di per sè la Repubblica di Firenze.
Era il popolo di questa città diviso da lungo tempo in compagnie d’arti
e mestieri, e di presente contava sette arti maggiori e cinque minori.
A ciascheduna i Trentasei diedero consoli o capitudini, e collegi e
gonfaloni con insegne proprie, acciò se nella città alcuno si levasse
in arme, le arti sotto le loro bandiere accorressero popolarmente
alla difesa: pei quali ordini ciascuna arte di per sè armata ebbe suoi
capi e sue insegne e sue passioni e sua possanza, intantochè il popolo
veniva tutto ad essere nelle arti, e queste a pigliare come la Signoria
della città; il che diede forma di poi ad essa ed ai pubblici costumi.
Diremo delle sette arti maggiori i nomi e le insegne: quella dei
Giudici e Notai aveva una grande stella d’oro in campo azzurro; quella
dei Mercatanti di Calimala un’aquila d’oro in campo vermiglio; quella
dei Cambiatori col campo egualmente vermiglio seminato di fiorini
d’oro; quella della Lana con campo simile, ed un montone bianco; quella
dei Medici e Speziali pure col campo dello stesso colore, e dentro la
Nostra Donna col Figlio in collo; quella dei Setaioli e Merciai col
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