Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 13

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Dante si fabbricasse allora a comodo della sua tesi, ma era italiana,
era cattolica, era grande; era dottrina che ambiva con l’ordine
assicurare la libertà, nell’unità ammettere e comprendere le varietà;
farsi attuazione dei voleri di Dio sulla terra, fondando tra gli
uomini, col regno della virtù, perpetua pace universale: la monarchia
dell’Alighieri, l’impero, il veltro, non potevano essere a questo
modo altro che ideale cosa. Quindi a noi pare che mentre i libri del
_Convito_ e del _Volgare Eloquio_ null’altro ci mostrano che studi
interrotti; la _Vita Nuova_ e la _Monarchia_ ne dieno ragione, quello
dell’anima del Poeta, questo del pensiero civile o politico quali si
vennero a trasfondere nella grande opera del Poema.
È certo che Dante lo aveva cominciato, e in qualche parte già era noto,
prima ch’egli uscisse di Firenze. Concetto nell’animo subito dopo la
morte di Beatrice nove anni innanzi l’esilio, volea da principio egli
scriverlo in latino, come libro che doveva non mai abbassarsi dalle
ideali regioni; ma io credo pure che l’affetto in lui prepotente gli
facesse tosto mutare pensiero: ed è fuori d’ogni dubbio che i primi
canti composti in Firenze fossero in volgare. Abbiamo indizi e autorità
non al tutto vane che l’opera del Poema interrotta al fine del settimo
Canto, ricominciasse fuori di patria col principio dell’ottavo. Ma non
vuolsi però immaginare che un tale lavoro procedesse per ordine come
farebbe un calcolo d’aritmetica, nè che l’Alighieri poi non mutasse
o trasponesse quello che aveva prima scritto. Chi oserebbe divinare
dentro ai segreti di una fantasia possente le vie per le quali si
viene a svolgere la composizione? nè Dante pensava i lunghi affanni
che egli darebbe ai commentatori. Nel sesto dell’Inferno la predizione
di Ciacco si aggira su’ guai della _città partita_ dove i _giusti non
sono intesi_: dovea pertanto in patria essere egli tuttavia. Ma ben si
ode stridere il dolore della recente ferita in quelle furiose parole
contro a Filippo Argenti, le quali s’incalzano per più terzine del
Canto ottavo con tanto feroce compiacimento. Scriveva queste dunque
già essendo in esilio; al quale accenna chiaramente ma in modo assai
più temperato nel decimo Canto, quando oltre a due anni dopo la prima
cacciata erano scorsi, ma tuttavia gli balenava di tratto in tratto
qualche fiducia del ritorno. Dovevano certo fino dal principio nella
contestura del Poema entrare le umane come le divine cose, entrarvi
ma sotto a un guardo più sereno, perchè non cercava allora il Poeta
altro che inalzarsi fuori delle interne passioni dell’animo, che egli
con la scorta di Virgilio e di Beatrice sperava domate. Quindi è che
il linguaggio e il pensiero stesso nei primi sette Canti mi sembrano
avere tempra più mite; in questi è Dante, ma non per anco inacerbito
dalle sue piaghe e, se oso dirlo, sanguinante. Roma nel secondo è
Roma ideale, non quella ond’egli si chiamò tradito; l’Impero deriva da
essa ed insieme l’_ammanto papale_, sotto a cui non guardava egli per
anco agli uomini che lo portavano. Questa è una sorta di professione
di fede posta in principio e rimasta ferma per tutto il Poema; se non
che essendosi dopo all’esilio in lui destate nuove passioni che pur
volevano disfogarsi, sentì egli avere bisogno di scendere ad altro
linguaggio da quello che avrebbe voluto da prima serbare. Allora
cred’io desse al Poema titolo di Commedia; e scrisse il libro del
Volgare Eloquio, il quale doveva nella parte non compiuta esporre le
regole che a sè medesimo cercava egli quanto alla lingua ed allo stile
in questo genere di composizione.
La stesura del sacro Poema e la fatica del condensare ivi gli affetti
ed i pensieri che la forte anima comprendeva, lo _fecero macro_ tutto
il rimanente della vita: ne usciva il libro più intiero in sè stesso
che umano ingegno mai pensasse. Come niuna opera di poesia si spazia
su tanta ampiezza di cose, dai tramiti angusti della vita materiale
fino alle più alte rivelazioni della coscienza; così nessuna riesce
a comporre tante cose in un concetto unico, nel quale Dio, l’uomo
e l’universo, come l’uno all’altro necessari si offrono insieme
all’intelletto e a tutta l’anima del Poeta: in ciò a mio credere sta
la preminenza dell’Alighieri tra’ poeti di ogni lingua. Altri ebbe
forse dopo lui in altro idioma e sotto forma drammatica, una vena più
ricca e possanza di creare in maggior copia immagini vive; prodotti
di una facoltà inventiva che una dopo l’altra e ognuna da sè le fa
passare incessantemente dinanzi al pensiero, come obietti nei quali
non pare che egli si fermi o che più all’uno che all’altro consenta.
Ebbe il maestro di Dante, Virgilio, più di lui squisito e fino il
sentire di ciascuna cosa, e dolce e armonica sempre la parola nutrita
d’affetti. Ma per l’Alighieri il mondo pare che si rifletta insieme
tutto dentro a lui solo; talchè in lui sta l’unità del Poema suo e sta
insieme l’universalità, perchè il pensiero di lui ambiva come da un
centro a una circonferenza _volgere il sesto_ fino all’estremo dove
non vanno altro che le idee, e tutte chiuderle in sè stesso. Così nel
libro è tutto l’uomo, e quindi il nome di lui ha quasi un culto nel
mondo. Della sua vita noi volemmo qui solamente toccare i fatti che
appartengono all’istoria, dappoichè in tanta eccellenza di argomento
noi male potremmo aggiungere cosa, la quale ai dì nostri non fosse di
troppo.
In quello stesso anno 1300, in cui Dante percorreva il celestiale suo
viaggio, un mercante fiorentino Giovanni Villani trovandosi in Roma
pel grande Giubbileo che Bonifazio VIII aveva intimato e al quale
accorrevano cristiani d’ogni paese in numero incredibile, «veggendo
le grandi e antiche cose di Roma, e leggendo le storie e’ grandi
fatti de’ Romani, pigliò animo a scrivere i cominciamenti di Firenze
e i fatti dei Fiorentini, e le altre notabili cose dell’universo in
brieve.» Quella cronaca o storia è la maggiore alla quale uomo avesse
posto mano da molti secoli. Così ad un tratto le nuove italiane lettere
sorgeano giganti ed a sè faceano campo l’universo. Nota il Villani
stesso, come «Firenze allora fosse nel suo montare e asseguire grandi
cose, siccome Roma nel suo calare:» nè falso era quel giudizio; ma non
che nell’ordine politico, anche nell’ordine intellettuale il montare
di Firenze non corrispose intieramente al miracolo di quei primordi.
Gli uomini dall’ampio e forte pensiero qui aveano spirato le aure
del secolo magnanimo di San Tommaso e dell’Alighieri; ma innanzi di
rinvenire altezze consimili, Firenze aspettava la dantesca anima di
Michelangelo e l’intelletto di Galileo.
La Poesia Italiana era sorta prima della metà del secolo tredicesimo:
i Siciliani la celebrarono accolti nella splendida e gaia corte di
Federigo II, il quale egli stesso amava far versi di lingua volgare in
un co’ suoi figli; quasi piacesse allo Svevo anche in ciò contrastare
ai Provenzali, che n’erano stati più antichi maestri. «Lo re (Manfredi)
spisso la notte esceva per Barletta, cantando strambuotti e canzuni,
che iva pigliando lo frisco; et con isso ivano dei musici siciliani,
ch’erano gran romanzaturi.[147]» Dante incontrava nel _Purgatorio_
Guido Guinicelli [m. 1276], pel quale ebbe l’arte del canto maggiore
coltura che in Sicilia non avesse, e parve seco lui pigliare stanza
in Bologna, dove accorrevano da oltre un secolo gli studiosi di tutta
Italia. Dei Toscani poeti, un Lapo degli Uberti e quel cardinale
Ottaviano degli Ubaldini che nelle istorie è ricordato come gran
capo di parte e politico ardimentoso, furono tra’ primi dei quali
sia rimasta memoria. Guittone d’Arezzo [m. 1294] ebbe maggiore e più
durevole fama: di lui ci pervennero versi e prose, ma troppo guasti
dalla sformata lezione perchè ne sia dato recarne ora buon giudizio;
talune però, e massimamente un celebre sonetto di lui alla Vergine,
mostrano in lui un poeta vero ed una lingua non balbettante. Ingegno
acuto e capace di più alto volo, ma fantastico e temerario nelle
filosofiche speculazioni e nelle sètte politiche, fu Guido Cavalcanti,
che parve allo stesso Alighieri degno di correre seco gli spazi dei
morti: egli e Cino da Pistoia [n. 1270, m. 1337], poeta insigne e
giureconsulto, se non erano offuscati da quel terribile coetaneo loro,
avrebbono fama e lode maggiore per aver essi precorso a quella poesia
più temperata e più serena che il sovrano d’un’altra età Francesco
Petrarca seppe condurre a sì alto segno. Francesco da Barberino [n.
1264, m. 1348] espresse in rime non infelici concetti morali ed alcune
delle filosofiche sottilità che al tempo suo predominavano; i libri
di lui non sono picciol lume alla storia dei costumi e del pensare
dell’età sua. Fra Iacopone da Todi [m. 1306] scriveva cantici che
tuttora ci rimangono in gran numero, alquanto rozzi e che risentono
del parlare umbro; non mai però senza vigoria di stile e d’affetto, e
spesso rivelatori di quelle passioni religiose che alle politiche si
mescevano. Nè vuolsi tacere il lucchese Buonagiunta, che Dante stesso
parve agguagliare al più chiaro tra’ poeti siculi Iacopo da Lentini
ed a Guittone d’Arezzo. Di altri minori non è qui luogo a discorrere,
tra’ quali due si rendettero famosi per nimistà contro all’Alighieri; e
furono Dante da Maiano e Francesco d’Ascoli, il quale in Firenze come
eretico e stregone fu arso l’anno 1327, autore d’un poema intitolato
l’_Acerba_; titolo che bene si poteva convenire anche alla maligna e
riottosa natura di lui.
La Prosa in Italia principiò ad essere coltivata nel tempo stesso della
Poesia. Questa precede nei popoli i quali pervengono la prima volta a
civiltà; ma in Italia le nuove lettere tutte nutrivansi di memorie:
ed il volgare non era altro che un latino trasformato dalla lenta
opera dei secoli, il quale divenne idioma nuovo e compiuto appena che
il parlar comune ebbe acquistato tanta sicurezza di sè medesimo, che
potesse nelle scritture distinguersi dalla lingua madre, e pigliar
forma tutta sua propria. Il che nella prosa dovette rendersi più
agevole di quello che fosse nel linguaggio figurato, dove predominavano
gli esemplari o provenzali o latini, e che non traeva dal comun
parlare norme sicure e bastevoli alla ambizione letterata di quei
primi verseggiatori. La Cronaca di Matteo Spinelli pugliese [n. 1230],
anteriore ad ogni altra in lingua volgare, è più italianamente scritta
che non le rime dei Siciliani i quali sforzavano l’aspro dialetto
a’ suoni e alle forme dei cantori provenzali.[148] Ma bentosto il
seggio della lingua e del sapere veniva a porsi in Toscana. Più antico
d’ogni altro fu Brunetto Latini, maestro di Dante, autore d’un Libro
di sentenze rimate a cui diede il nome di _Tesoretto_. La maggiore
opera sua, il _Tesoro_, fu scritta in francese: la chiameremmo oggi
una piccola enciclopedia, contenendo essa quanto di fisica o di certa
pratica filosofia chiudevasi allora nelle comuni scuole. Di lui abbiamo
però in volgare anche versioni dal latino; e queste forse avranno dato
al giovanetto suo discepolo animo a scrivere quella lingua che egli
udiva parlare alla madre. Comincia la serie degli Storici Fiorentini
dalla Cronaca che va sotto il nome di Ricordano Malespini, continuata
da Giachetto suo nipote sino all’anno 1286. Pei tempi anteriori al
1300 basterà qui ricordare, come documenti della lingua, la versione
dei Trattati d’Albertano da Brescia fatta l’anno 1278 da un notaio
pistoiese, e quelle assai più notevoli di Bono Giamboni, il quale
moriva prima che Dante scrivesse. A questi però sovrasta molto con
quella sua Cronaca il fiorentino Dino Compagni [m. 1323]: l’Alighieri
tiranneggia col fiero ingegno la lingua, alzandola come una bella
prigioniera fino agli amplessi del sire; Dino, che ha tanto viva ed
efficace la parola, non riesce però a nascondere un qualche sforzo
nella composizione; sinceramente appassionato, ma pure ambizioso
di dare al racconto la forma di storia secondo forse potè averne
l’esempio in Sallustio. In quanto all’arguta speditezza dello stile
si lascia il Compagni addietro il Villani, che tanto lo supera per la
universalità dell’argomento e nella scienza dei fatti. Agli storici
ed ai poeti s’aggiungevano i Moralisti; la lingua bastava a tutto
svolgere il pensiero come a significare l’affetto. Il più antico di
cui si abbiano predicazioni in volgare fu il frate Giordano da Rivalta
[m. 1311]; non quali però da lui venivano pronunziate, ma trascritte
compendiosamente da uno degli ascoltatori suoi. Conseguitava bentosto
dello stesso ordine dei Predicatori, e nato pure di quella stessa
provincia Pisana, altro d’assai maggiore scrittore Fra Domenico Cavalca
[m. 1342], maggiore forse d’ogni altro che avesse mai l’idioma nostro,
quanto alla proprietà delle parole e alla disinvoltura dell’andamento e
alla naturalezza delle armonie: ascetico e moralista nei trattati che
di esso ci rimangono in buon numero, egli è narratore impareggiabile
in quelle vite o leggende dei cenobiti e degli anacoreti, che vanno
col nome di Vite dei Santi Padri. Terzo dell’Ordine e della provincia
stessa fu Bartolommeo da San Concordio [m. 1347], il quale con un breve
libretto d’antiche sentenze ridotte in volgare meritò anche meglio
della lingua che non per la traduzione delle Storie di Sallustio.
Questi furono i principali tra gli scrittori che appartengono alla età
dell’Alighieri e ai primi anni del secolo quattordicesimo.
Il dodicesimo era stato come il secolo eroico della città di Pisa, il
secolo delle grandi imprese: nel susseguente ella pervenne a quello
splendore, al quale suole nelle umane cose conseguitare la decadenza.
Aveva essa edificato già innanzi la fine di quel secolo il suo mirabile
Duomo, nel 1152 il Battistero, e nel 1174 il famoso Campanile. Bonanno
pisano architettore di questo bello e singolare edifizio, si rendè
chiaro altresì per lavori di fusione in bronzo: una porta del Duomo
della sua città, e quella del tempio di Monreale presso Palermo di
già prenunziano alle arti una adolescenza promettitrice. La Scultura
mantenuta viva per tutti i secoli anteriori dalle grandi opere
architettoniche alle quali era ella necessario ed abbondante sussidio,
la scultura precorreva nel suo risorgimento alla pittura, ed ebbe il
suo Giotto in Niccola Pisano nato verso il 1204, settant’anni prima del
fiorentino Pittore. Molte sculture a basso rilievo in Pisa ed altrove,
e soprattutto la celebre arca di San Domenico in Bologna, pongono il
nome di Niccolò in cima a quelli degli altri grandi restauratori o, a
dir meglio, fondatori delle arti belle in Italia. Giovanni suo figlio
dava il disegno di quel mirabile Camposanto che fu incominciato nella
città di Pisa l’anno 1278, sei anni prima della sconfitta che nelle
acque della Meloria poneva termine alle grandezze di quella illustre
città.
La Pittura nei secoli precedenti era in mano dei Greci, i quali anche
nella decadenza dell’Impero bizantino uscivano fuori a praticare come
mestiero le arti belle. I mosaici soli mantenevano qualche grandiosità
di composizione, ed era il pennello rozzamente usato dai miniatori:
queste arti in Italia comunque non affatto estinte mai, da pochi
si trovarono oscuramente esercitate prima del secolo tredicesimo.
Firenze, venuta (come dicemmo) in potenza assai più tardi di altre
città toscane, incominciava forse ultima tra queste la serie dei
suoi pittori; ma occupò tosto il primo seggio, e lo ritenne poi senza
intermissione. Siena ebbe il suo Guido, mentre Giunta Pisano dipingeva
in quella città dove Niccola aveva innalzato a più alto segno la
scultura. Ad essi in Lucca s’accostava un Buonaventura Berlinghieri;
e in Arezzo Margheritone scultore e architetto, che fioriva dopo la
metà di quel secolo medesimo, fu anche pittore: nei primi tempi gli
stessi uomini professavano tutte insieme le arti del bello. Veniamo
adesso ai Fiorentini. Andrea Tafi, mosaicista, è messo innanzi
come pittore con lode soverchia dal Vasari, studioso di corteggiare
alla città principesca; Buffalmacco ha più nome dai novellieri come
bizzarro ingegno, di quel che egli abbia pe’ suoi dipinti. A Giovanni
Cimabue si volle negare, contro al Vasari ed all’Alighieri stesso,
il vanto dell’avere egli innanzi a Giotto suo discepolo tenuto il
campo della pittura; ed il plauso popolare che diede il nome alla
via Borgo Allegri, e le fiaccole onde fu accompagnata in Santa Maria
Novella quella Madonna di lui che ivi tuttora si vede, oggi con
troppa incredulità si tengono come favole: in qualunque tempo ciò
avvenisse, potè quella tavola, che per ampiezza di stile segna un
progresso nell’arte, esser cagione di festa in un popolo già tanto
vivo al senso del bello. Ma Giotto agli altri poco dovette, e l’arte
a lui ogni cosa [n. 1276, m. 1337]; e se le pratiche del dipingere
dopo lui molto si raffinarono, e all’arte venne grande soccorso da
quella scienza che si trasmette; io non so poi chi lo vincesse quanto
alla verità dei concetti, e alla naturalezza delle mosse, e alla
evidenza dell’espressione. Il pecoraio del Mugello, che ampliò la
pittura con la potenza che era in lui somma di comporre semplicemente
le grandi storie, ornava con le sue opere molte tra le maggiori città
d’Italia; e fu capo d’una scuola che instaurava le arti moderne, e
che dipoi le conduceva sino all’ultimo confine loro: Gaddo e Taddeo
della casata illustre dei Gaddi, furono primi tra’ suoi discepoli. A
Giotto Firenze deve anche il suo mirabile campanile, dove la varietà
delle ardite forme che il medio evo seppe inventare, vien temperata e
quasi costretta a regolare bellezza dalla semplicità delle linee che
appartengono allo stile classico. Le tradizioni grecolatine, in Italia
mantenute dalla presenza dei monumenti, di rado concessero alle nostre
cattedrali quella terribile maestà ch’esse ebbero nel settentrione, e
forse renderono talvolta incerto lo stile anche dei primi restauratori.
L’Architettura cristiana a cominciare dal quarto secolo (infino cioè
dalla istituzione del culto pubblico e solenne) si creò forme sue
proprie, ed innovò sull’antica arte. Poi nel dodicesimo secolo la
forma di croce data generalmente alle chiese e i sesti acuti e le spire
sostituivano all’arte greca un’arte nuova e tutta germanica, la quale
non vuolsi certo paragonare all’antica quanto alla purità dello stile
e alla simmetrica perfezione delle parti; ma come barbara e più audace
sorpassa e trascende quegli esemplari del bello, con la profusione
degli ornati, con la novità delle invenzioni, con l’arrischiato
congegno degli archi e delle volte e delle cupole; ma sopra ogni cosa
per l’accorgimento del temperare la luce, e per l’intendere che fanno
le grandi linee verso il cielo, con religiosa ispirazione. Nel Duomo
di Santa Maria del Fiore l’opera del Brunelleschi soverchia oramai
quella d’Arnolfo, il quale poneva mano al grande edifizio l’anno 1298;
ma sien pure false le parole della commissione che la Repubblica
avrebbe a lui data quattro anni innanzi, certo è che la Cattedrale
fiorentina è la maggiore tra quelle nelle quali gareggiavano allora
tante città d’Italia. Ed in quegli anni Firenze deliberava tutte in un
punto mirabili costruzioni; imperocchè per l’opera dello stesso Arnolfo
sorgeva il Palagio del Comune [1298]; e l’audacissima torre s’innalzava
sopra un’altra torre che appartenne già a una famiglia di grandi; e la
piazza della Signoria s’apriva sulle rovine delle case che furono degli
Uberti: anche il tempio di Santa Croce, cominciato l’anno 1294, fu
architettura d’Arnolfo. L’antico Palagio del Potestà, monumento d’altri
tempi e d’altri ordini politici, è dell’anno 1250; dell’anno 1268
la chiesa del Carmine, del 78 Santa Maria Novella, dell’85 la Loggia
d’Orsanmichele, dell’anno 1299 San Marco, e del 1308 la Prigione delle
Stinche _in qua carcerentur et custodiantur magnates_: di quei medesimi
anni splendidissimi è la chiesa vecchia di Santo Spirito, rifabbricata
dipoi grandiosamente dal Brunelleschi. Nel 1293 il Battistero di San
Giovanni, più anni prima ornato già di mosaici, venne al di fuori
incrostato di marmi bianchi e neri.
Alle civili passioni mescevasi del pari ardente ed operosa la carità
cittadina; molte tra le benefiche fondazioni di cui fu l’Italia
iniziatrice alle altre genti, appartengono a quelli anni stessi.
Tra le quali è debito ricordare la sempre vivace nelle buone opere
confraternita della Misericordia per l’assistenza degli infermi; e
quella del Bigallo, e più altre che furono istituite dalle compagnie
degli artigiani a soccorso degli ammalati e dei poveri dell’arte
loro. Lo Spedale di Santa Maria Nuova venne fondato l’anno 1285 da un
cittadino il cui nome è a noi già caro per altro modo, Folco padre di
Beatrice Portinari: abbiamo tuttora l’effigie in marmo della vecchia
serva di quella famiglia, mona Tessa, la quale cominciò prima a
raccogliere malati in alcune stanze della casa. La religiosa pietà del
padre cresceva ai gentili costumi la figlia ispiratrice dell’Alighieri;
e mona Tessa con l’operosa carità sua temprava forse al poeta
giovinetto, anch’essa, talune delle più dolci sue note.
In quelli stessi ultimi mesi dell’anno 1298, nei quali ponevasi la
prima pietra di Santa Maria del Fiore, ebbe anche principio il terzo
cerchio della città: il vescovo di Firenze e quelli di Fiesole e di
Pistoia, in compagnia di molti prelati e religiosi, furono a benedire
la prima pietra, seguitati da popolo innumerabile e da tutta la
Signoria e ordini della città.[149] Dentro alla quale gli uomini atti
a portare armi, si trova che sommavano a trenta mila, e settanta mila
nel contado. Ne manca una istoria piena abbastanza ed accurata degli
incrementi che il commercio e le industrie dei Fiorentini dovettero
avere rapidissimi in quella seconda metà del secolo tredicesimo, e
i quali produssero la grande opulenza cui sorse a un tratto questa
città. I Fiorentini si spargevano per tutta Europa e per l’oriente,
infaticabili faccendieri;[150] al moto degli animi non bastavano i
confini angusti della città e dello Stato; e anche gli esilii servivano
ad ampliare le relazioni e l’ingerenza loro nelle faccende dei più
lontani paesi. Un racconto di cui si trova frequente ricordo nelle
antiche scritture, non vuol credersi del tutto falso: narrano esse come
l’anno 1300 essendo in Roma venuti ambasciatori a Bonifazio VIII da
ogni parte della cristianità, dodici tra questi (dei quali i nomi si
leggono) mandati da vari principi e perfino di Russia e di Tartaria,
fossero di patria fiorentini. Forse erano uomini mercatanti andati a
Roma pel Giubbileo ed insieme convenuti all’udienza del Pontefice; del
quale poi corse questo detto: i Fiorentini essere nel mondo il _quinto
elemento_. Quello fu il tempo delle più vere grandezze a questo popolo
fiorentino che tutte in un subito le dispiegava, o tutte in germe le
conteneva: nè credo si trovi nelle istorie esempio d’un’altra città,
la quale più secoli vissuta con piccola fama, sorgesse in pochi anni
fino a porsi direi quasi a capo della civiltà nell’Europa risorgente,
e ad un tratto manifestasse tale espansione di vita e tale magnificenza
d’opere e tale altezza d’ingegni. Maggiori sorti forse potevansi allora
promettere alla città di Firenze, se non che molto d’appresso e da ogni
parte la stringevano le forze rivali di tante altre città italiane;
e ciò che a lei facessero i politici rivolgimenti veniamo adesso a
narrare.


LIBRO TERZO.


CAPITOLO I.
IMPRESE E MORTE DI CASTRUCCIO — INTERNE RIFORME: I MAGISTRATI TRATTI A
SORTE. [AN. 1322-1328.]

Ora comincia la più pericolosa guerra che avessero mai intorno
a casa i Fiorentini. Castruccio degli Interminelli, cacciato da
Lucca insieme col padre come Ghibellini, aveva condotto la gioventù
poveramente dapprima in Ancona, quindi a Lione di Francia in servigio
di mercatanti. Fece dimora anche nella Inghilterra, venuto in favore
di quel re, ma gli convenne poi fuggirsene. Combattè con eccellente
lode di valore le guerre di Fiandra sotto Alberto Scotto piacentino,
e si acquistò grazia presso a Filippo re di Francia, a cui lo Scotto
serviva. «Era della persona molto destro, grande, d’assai avvenente
forma, schietto e non grosso, bianco, e pendea in pallido; i capelli
diritti e biondi con assai grazioso viso.[151]» Grande maestro di
guerra, e discostandosi dai modi usati nel governarla, fidava poco
nelle fortezze, dicendo piacergli le fortezze le quali camminano;
e intendeva le ordinanze strette, che rispondono ad ogni cenno del
capitano. Potente sugli animi, e sufficiente a mantenere nei soldati
la disciplina e nei popoli l’ubbidienza, da piccolo stato s’avviò
a grandezza cui niun altro capo ghibellino infino al suo tempo avea
nell’Italia osato aspirare. Ma nulla fondava, perchè ai figli suoi
nemmanco rimase la possessione della città di Lucca, ed egli non fu
altro che un nome nell’istoria.[152]
L’Italia, allora emancipata dalla Germanica signoria, non aveva ben
certe ancora le sorti sue, dappoichè il popolo dei mercanti e quel dei
signori, col nome di Guelfi e di Ghibellini, si pareggiavano tuttavia.
Da questi poteva forse alla nazione venire grandezza, da quelli usciva
la libertà: prevaleva essa principalmente nelle città di Toscana, varia
come il suolo che la produceva; ma erano invece nei piani Lombardi
signorie possenti, costumi baronali e principeschi: ivi era più scarso
il sangue latino, e il fiume del Po chiamava a confondersi nella unità
tutte le acque che in lui sgorgano. Castruccio pertanto rinveniva
intorno a sè campo meno atto alle grandi imprese; era egli a Pisa come
straniero, e a Firenze si può dire, che il suolo stesso lo respingesse.
Nondimeno, se egli non moriva, quel che fosse per avvenire non so; e
quel grande uomo insufficiente a fare sorgere un’Italia forte, poteva
opprimere la Toscana.
Cessata, dopo otto anni e mezzo, nel 1322 la signoria del re Roberto,
i Fiorentini ricominciarono a eleggere essi, come per l’innanzi, il
Potestà e il Capitano. Continuavano intanto a combattere in Toscana
contro Castruccio, e in Lombardia soccorrevano quella maggior guerra
che le genti della Chiesa portavano contro a Matteo Visconti fin sotto
alle porte di Milano. Ma questa perdeva poi bentosto il suo pericolo
essendo venuto a morte Matteo in età di novant’anni, pur sempre fiero
ed avveduto, e uomo di grandi fatti e consiglio: finiva scomunicato
come eretico e scismatico. A quella morte, il maggiore figlio suo
Galeazzo Visconti era cacciato in breve ora prima da Piacenza e poi da
Milano; il che era sgominare tutte le forze de’ Ghibellini, e a Firenze
se ne fecero le usate feste. Ma quivi durava poco tempo la letizia,
poichè Castruccio, ingrossando sempre dopo avere fin dall’anno innanzi
costretto Pistoia ad essergli tributaria, tirato a sè uno dei capitani
forestieri ch’erano al soldo dei Fiorentini, e resi vani i disegni di
quella Repubblica la quale cercava farlo assalire per mare e per terra
dai Genovesi, «pieno d’audacia e baldanza, il dì di calende luglio
1323 subitamente cavalcò in sul contado di Prato, perchè i Pratesi
non gli voleano dare tributo; postosi a campo alla villa d’Aiuolo con
seicentocinquanta uomini a cavallo e quattromila pedoni.» I Fiorentini,
incontanente saputa la novella, serrate le botteghe e lasciata ogni
arte e mestiere, cavalcarono a Prato, popolo e cavalieri; ciascuna
Arte vi mandò gente a piede e a cavallo, e molte casate di Firenze
grandi e popolani vi mandarono masnade a piedi a loro spese; e i Priori
pubblicarono, che qualunque sbandito guelfo si rassegnasse nella detta
oste, sarebbe fuori d’ogni bando. Il dì seguente si ritrovarono in
Prato i Fiorentini, che assommavano a millecinquecento cavalieri e
ventimila pedoni;[153] d’essi, quattromila e più erano degli sbanditi,
molto fiera gente. Disegnavano per l’indomani uscire a battaglia contro
Castruccio; ma egli il dì appresso, levato il campo, si partì d’Aiuolo;
e colla preda che avea fatta in sul contado di Prato, passò l’Ombrone,
e senza arresto e di buon andare si ridusse a Serravalle. «Se i
Fiorentini avessero mandato (scrive il Villani) di loro gente come
potevano ad intercettare l’oste di Castruccio da Serravalle, al certo
costui e la sua gente rimanevano morti e presi: _ma a cui Dio vuol
male, gli toglie il senno_.[154]»
I Fiorentini rimasti in Prato con poco ordine e senza capitano, e
perchè i nobili non volevano vincere la guerra a pro dello Stato
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