Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 04

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parti la Toscana, e la città di Firenze dovette in quelli anni molto
avere prosperato; talchè al Malespini parvero beati quei tempi nei
quali, secondo egli scrive, «quelli che si chiamavano Guelfi amavano lo
stato del Papa, e quelli che si chiamavano Ghibellini amavano lo stato
dell’Impero; ma nondimeno tutti traevano al bene comune, ed il popolo
si manteneva in unità e in bene della Repubblica.[30]» Nell’anno 1217
andarono cavalieri guelfi e ghibellini alla Crociata che fu bandita
da Onorio III per la impresa di Terra Santa; dove un Buonaguisa della
Pressa acquistò gloria per essere egli salito il primo sopra le mura
della città di Damiata, e la bandiera che ivi pose recò in Firenze con
grande onore.
Nell’anno 1218 i Fiorentini fecero giurare tutto il contado alla
signoria del Comune; «che prima la maggior parte si teneva a signoria
de’ conti Guidi e di quelli di Mangona e di quelli di Capraia e da
Certaldo, e di più gentili uomini che l’aveano occupato per privilegi,
per forza degli Imperatori.[31]» Queste parole sono di Ricordano
Malespini, magnate fiorentino e guelfo; i cui maggiori doveano, come
gli altri, tenere i loro castelli da imperiali privilegi e dalla
forza; ma che vivendo tra gente libera, si andava educando al nuovo
diritto, inverso il quale muovendo Firenze con più franco passo di
altra qualsiasi tra le città emancipate, meritò bene dell’umanità.
Traspare però nel nostro istorico il malumore di gentiluomo, dove
enumerando in altro luogo e come di nascosto i danni sofferti da molte
famiglie, aggiugne poi «tutte per terra:» i Malespini aveano anch’essi
una tenuta dentro al contado con le altre disfatta. Cresceva Firenze
affrancando i contadini dalla soggezione baronale e affratellandoli
al Comune; il che era giustizia che si faceva contro ai soverchianti,
per lo più stranieri, i quali ponendo aguati o serragli sulle vie,
impedivano i commerci e si contrapponevano a ogni civil comunanza. Ma
quelli assalti contro a’ cattani o signori di castelli, guardando ai
modi che si tenevano, erano spesso «più con la forza che con ragione»
come dichiara Giovanni Villani,[32] uomo di popolo ma sincero se altri
fu mai: cosicchè molti nobili di contado, per isdegno o per aver patti
migliori, donavano alla Chiesa le terre loro e le case ed i vassalli
che per tal modo voleano sottrarre alla ubbidienza dei Comuni. Si
trovano esempi di tali donazioni fatte al Vescovo di Firenze lo stesso
anno nel quale vennero i contadini emancipati; e molti Fiesolani o
nobili o altri giurarono a quel Vescovo fedeltà nel 1224, non bene
essendo per anche formata la signoria del Comune sopra sè stesso e nel
contado.[33] Ma questa venendo a crescere sempre, il Potestà dell’anno
1233 ordinava: «che dentro al mese di maggio tutti gli abitatori del
contado fiorentino venissero a comparire nella città per notificare ai
notai dei sestieri a ciò deputati di che condizione fossero ciascuno,
cioè se cavaliere nobile o fattizio, o allodiere, o masnadiero, o
uomo d’altri, o fittaiolo, o lavoratore o d’altra condizione egli
fosse.[34]»
Prima di quel tempo Firenze ebbe brighe co’ Perugini per le acque che
in Arno scendevano dal Lago Trasimeno: cominciò poi lunga guerra con
Siena per le controversie continue che davano i confini incerti e i
signori che ivi seguivano contrarie parti. Vi era Poggibonsi fortezza
imperiale, e tra i castelli che dipendevano dai Senesi, Mortennana
degli Squarcialupi, battuto e ripreso più volte; trovandosi ivi usate
quelle che poi divennero mine, ed erano fossi coperti pei quali
entravano fino a scalzare i fondamenti delle mura e farle cadere.
Dal lato opposto, dove il dominio di Firenze si toccava con quello
di Siena, Montepulciano e Montalcino diedero occasione a quelle
guerre, nelle quali ebbero i Senesi lega con gli Orvietani, mentre
che Firenze si rinforzava di aderenti e di amicizie in quella parte
degli appennini che scende in Romagna, di già estendendo l’azione
sua oltre a’ confini della Toscana.[35] Con Pisa era guerra spesso
combattuta ma sempre costante per la contrarietà d’interessi che la
natura del sito aveva posto tra le due città, diversamente facoltose
e già possenti ambedue: imperocchè Firenze a’ suoi commerci voleva
uno sbocco sul mare, e Pisa glielo impediva. Questa era anche sempre
in guerra con Lucca, la quale era certa di seco avere i Fiorentini:
di poi una meschina contesa tra gli ambasciatori delle due città
rivali convenuti in Roma all’incoronazione di Federigo II, bastò ad
accendere una guerra. Dapprima si erano bene svillaneggiati e battuti
nelle vie di Roma tra quanti Fiorentini e Pisani erano in Corte, o
vi andarono per volontà di avere parte nella riotta; della quale fu
principale istigatore quell’Oderigo Fifanti che aveva segato le vene
a Buondelmonte, ed ora se la pigliava contro ad uomini ghibellini.
I Pisani fecero arrestare tutta la roba e mercatura de’ Fiorentini
che si trovò in Pisa, ch’era grande quantità; e i Fiorentini avendo
chiesto fosse restituita la mercanzia, i Pisani superbamente negarono;
e ai Fiorentini che minacciavano di muovere contro Pisa, risposero
che avrebbono loro ammezzata la via: laonde incontratisi a Castel del
Bosco, fecero battaglia con la peggio de’ Pisani, al dire degli storici
fiorentini.[36]
Moriva in quei tempi (1229) un celebre fiorentino, Accorso da Bagnolo,
che professò giurisprudenza in Bologna e fu insigne tra’ glossatori
dei libri delle romane leggi, talchè la fama e l’autorità di lui non
sono spente ai dì nostri. Già da due secoli Arezzo aveva prodotto
quel Guido che fu inventore delle note musicali: e in quei primi anni
del XIII Niccolò pisano faceva risorgere la scultura, e Leonardo
Fibonacci della città stessa recava in Europa le cifre numeriche e
l’arimmetica degli Arabi. Sorgevano già le cattedrali bellissime di
Lucca, di Pisa e di Siena. Fuori delle porte di Firenze già sino dai
primi anni dopo al mille era la chiesa di San Miniato, nobile monumento
di quell’architettura cristiana che nacque in Italia ne’ primi secoli
della Chiesa. Nella città rimaneva antico e molto bello edifizio il
Battistero, che prima dicevano essere stato tempio di Marte e poi
consacrato a san Giovanni Battista; ma d’altri non si era per anche
adornata che ne attestassero la magnificenza; nè si era illustrata
per chiari ingegni, dei quali Accorso fu il primo. Doveano i commerci
però di Firenze già molto essere ampliati, trovandosi avere l’anno
1214 il Marchese d’Este impegnato ai prestatori fiorentini tutti
i suoi allodiali per le grosse somme di danaro che gli aveano essi
somministrate.[37] Cresceva intanto la città oltr’Arno, dove molte
famiglie venute di fresco in ricchezza aveano poste le case loro;
talchè fu necessità fondare due nuovi ponti, che uno alla Carraia
l’anno 1218, e l’altro nel 1237, cui diede nome il potestà Rubaconte da
Mandella milanese.
Avanti di cominciare la narrazione di fatti maggiori, giova dire
alcuna cosa intorno alla setta dei Paterini o Albigesi, che di
recente compressa nel mezzodì della Francia per sanguinose battaglie,
aveva fomento in Italia dall’odio ardentissimo dei Ghibellini contro
alla romana Chiesa, e dalla sciolta incredulità di Federigo II.
Quell’asiatica dottrina recata in Europa dalle crociate e dai commerci,
ebbe seguaci per tutta Italia anche nel secolo precedente: ora le
parti civili di ogni cosa facevano arme, ed il pensiero audacissimo
che voleva tutto comprendere, non aveva limiti al negare: la Somma
di san Tommaso ed il poema di Dante ne mostrano quante fossero in
quel gran secolo l’interezza e la comprensione filosofica della
ortodossa dottrina, fuor della quale non era luogo che a una filosofia
miscredente. Lo stesso Alighieri annovera tra gli increduli, oltre a
Federigo imperatore, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini e Farinata
degli Uberti, capi della parte ghibellina; ed in Firenze sappiamo
essere stati i Paterini apertamente promossi e spalleggiati dal Potestà
che verso l’anno 1240 vi esercitava l’autorità imperiale.[38] Nella
città due colonne, delle quali una ha in cima la croce, l’altra una
statua di san Pier Martire, tuttora dinotano i luoghi dove i Paterini
venuti a conflitto col rimanente del popolo furono vinti ed oppressi;
nè più ricomparvero dopo la morte di Federigo e la vittoria de’
Guelfi. Intanto però anche le giuste censure e l’avversione di molti
contro ai mondani vizi del clero, pigliavano faccia d’eresia; cosicchè
apparve sospetto nel suo primo manifestarsi lo stesso pensiero di san
Francesco, il quale tendeva a rinsanire la gerarchia con l’onorare
la povertà, e faceva sorgere nella Chiesa un nuovo ceto di popolani;
consacrazione e forza grande aggiunta ai _poveri_ e _impotenti_,
che il patrocinio delle leggi tendea dovunque a rinnalzare. Sospetti
egualmente riuscivano i primi eremiti che in Monte Senario cominciarono
un nuovo Ordine, il quale avuta di poi solenne istituzione in Firenze,
divenne l’Ordine dei Serviti. In Italia le riforme si traducevano
sempre in popolari istituzioni, conservatrici però della unità
religiosa che stava in cima e le conteneva dentro ai limiti d’un
ossequio non mai cessato in alcun tempo. Tra queste forze venne ad
infrangersi la potenza di casa Sveva e dei Ghibellini, come vedremo pei
fatti che ora ne richiamano a più disteso racconto.
L’anno 1248 Federigo principe d’Antiochia, figlio naturale di Federigo
II, conduceva in Toscana suoi cavalieri, mandato dal padre ad opprimere
la parte guelfa, ch’era il maggior numero. In Firenze le casate
ghibelline si rafforzavano dando mano alle masnade tedesche; e unite a
queste, combattevano di luogo in luogo, e fino all’ultimo serraglio,
i Guelfi dentro alla città. Infine dovettero questi partirsene a’ 2
febbraio, giorno della Candelaia, 1249; ma però innanzi d’abbandonare
la patria, armati com’erano, portarono a sepoltura feroci e piagnenti
in lunga fila il cadavere d’un loro cavaliero per nome Rustico
Marignolli caduto in quella battaglia: e depostolo nel chiostro di San
Lorenzo, dove una lapida in onore suo tuttora si vede, sgombrarono
la città ricovrandosi a Montevarchi ed a Capraia e sparsamente per
le campagne ai castelli o ne’ poderi loro e degli amici. Aveano fede
in sè medesimi e nella parte ch’essi tenevano: ma i Ghibellini ed i
Tedeschi rimasti soli nella città, la governavano ad arbitrio loro.
Abbatterono trentasei fra case e torri, e tra queste il nobile edifizio
dei Tosinghi in Mercato Vecchio, detto il _Palazzo_; il quale era alto
(dicono gli storici) novanta braccia, adorno di colonnette di marmo.
Abbatterono anche la torre che si chiamava del Guardamorto, la quale
era prossima a San Giovanni, con l’intenzione (secondo scrivono) di
farla cadere addosso a quel tempio dove il popolo dei Guelfi solea
radunarsi: ma Giorgio Vasari, che attribuisce all’ingegno di Niccola
Pisano l’avere fatto ruinare quella torre sopra sè medesima, esclude
il disegno imputato ai Ghibellini: a questi rimane, come nota il
Malespini,[39] l’avere cominciato quella maledizione dell’abbattere le
case, che poi divenne fatale usanza. Continuarono intanto la guerra
contro i castelli: ed essendo Federigo istesso venuto in Toscana,
quello di Capraia, dove si era chiusa gran parte della nobiltà guelfa,
per lungo assedio fu espugnato; e Federigo, i capi dei Guelfi condotti
in Puglia, scrivono facesse parte mazzerare, parte abbacinare, e
indi chiudere in un chiostro. L’Imperatore tedesco percuoteva con gli
ottimati gli ottimati, tra’ quali soli fin qui pareva la guerra essere
combattuta: vedremo il popolo tutto intero unito e possente venire in
iscena, e fare sua quella vittoria cui dato aveva egli compimento.


Capitolo IV.
PRIMA VITTORIA DEL POPOLO, E GOVERNO DEGLI ANZIANI. FELICITÀ DEI
GUELFI. [AN. 1250-1254.]

I Ghibellini con la forza delle straniere masnade imposero al popolo
intollerabili carichi e l’oppressero in mal punto, imperocchè i Guelfi
avevano al di fuori ricominciato la guerra, e il re Enzo di Sardegna,
altro figlio naturale di Federigo II, dai Bolognesi vinto in battaglia,
era imprigionato: la parte guelfa e popolare alzava il capo; talchè
veggiamo in quegli anni altre città emancipate al modo stesso e con
le forme che in questa sua liberazione pigliava il popolo di Firenze.
Quivi frattanto gli Uberti e le altre nobili famiglie oltre ogni dire
insolentivano: il popolo, che era fino allora stato soggetto al governo
dei magnati, ora essendo fuori i nobili guelfi, ed esso capace a fare
testa contro i Ghibellini, si levò, e tolse con mirabile felicità in
mano sua tutto lo Stato. I buoni uomini, o come scrive il Machiavelli
gli uomini di mezzo, o meglio direi coloro dai quali usciva in quel
punto la nuova cittadinanza, il 20 ottobre 1250 si adunano a folla
nella chiesa di San Firenze; ma non osando fermarvisi per timore
della violenza degli Uberti che ivi presso abitavano, si ricovrano a
Santa Croce, chiesa popolana dei Frati Minori, dove armati ed inquieti
dimorano alcun tempo. Poi fatto animo, invece di tornarsene alle loro
case, vanno con ordine militare ad afforzarsi presso la chiesa di San
Lorenzo, dove tuttavia in armi si elessero trentasei caporali, tolsero
il grado al Potestà e agli ufficiali posti dai Ghibellini, mettendo a
guardia del nuovo Stato un Capitano del popolo, messer Uberto da Lucca;
al quale aggiunsero dodici Anziani, due per sesto, acciò guidassero il
popolo e consigliassero il Capitano. Questi doveva, come il Podestà,
essere nobile e forestiere, ma di popolo gli Anziani: tra questi era
un calzolaio, possente uomo, secondo appare, poichè lo chiamano Grande
anziano; il quale divenne poi traditore, onde più tardi fu lapidato a
furia di popolo.
Scrissero tutta la gioventù in compagnie sotto a venti gonfaloni,
e ordinarono che ciascun uomo uscisse presto ed armato sotto la sua
bandiera, qualunque volta fosse dal Capitano o dagli Anziani chiamato,
facendo gettare a questo effetto una campana. Il gonfalone del Capitano
aveva la croce rossa in campo bianco; degli altri variavano i segni
e i colori. Questa era la forza che il popolo ordinava a munimento
della libertà sua: ma nelle guerre al di fuori andava l’esercito sotto
gli ordini del Potestà, perch’era esercito del Comune o della intera
città, nel quale tutti si comprendevano i vari ordini dei cittadini. I
nobili e i potenti popolani formavano arme distinta, che si chiamava
dei cavalieri, principal nerbo nelle battaglie. Ciaschedun sesto
aveva l’insegna sua pe’ cavalieri, e similmente erano insegne variate
per le armi de’ balestrieri e de’ palvesari, e per la salmeria e i
guastatori e i marraioli e i palaioli. Queste insegne dava solennemente
il Potestà ogni anno il dì della Pentecoste. La popolazione del
contado fu parimente divisa in leghe, le quali ciascuna sotto a’
suoi gonfaloni l’una all’altra soccorrendo, dovevano inoltre, quando
bisognasse, venire in arme nella città: novantasei erano i pivieri, i
quali furono ordinati in leghe. E qui è da notare che a ciascun sesto
della città rispondeva una parte del contado, cosicchè i vari pivieri
ed i Comuni fossero come una dipendenza di quel sesto che incontro ad
essi era posto, e le milizie delle leghe quando scendevano in Firenze
s’aggregassero per sesti alle milizie cittadine, e le ingrossassero con
lo stesso ordine. A difesa di sè stesso, ed a mostrare come in Firenze
il governo dei magnati cedesse a quello della cittadinanza, ordinò il
popolo che le torri onde era gremita la città, fossero tutte eguagliate
all’altezza di cinquanta braccia, secondo scrivono: le torri dei nobili
erano in grande numero; poche altre si chiamavano delle vicinanze,
fabbricate da più famiglie insieme a difesa di case vicine:[40] con le
pietre di quelle mozzate torri si cinse di mura la città oltr’Arno.
Gettarono i fondamenti d’un palazzo per la Signoria, che prima non
aveva pubblica residenza e gli Anziani tornavano alle loro case a
mangiare e a dormire: dipoi quel palagio fu del Potestà.
Alla novella della morte di Federigo II, la quale avvenne in Firenzuola
di Puglia a’ 13 dicembre 1250, il popolo richiamò in città i fuorusciti
guelfi, dicendo volere rappacificare le due fazioni. Veramente
avere alterato le istituzioni municipali non offendeva le ragioni
dell’Impero, come il richiamo degli sbanditi, il quale era atto di
sovranità.[41] Così però la città in questi anni fatta opulente pei
commerci, cresciuta di popolo, e avendo acquistata in guerra ed in
pace la fiducia di sè stessa, pigliava in Toscana luogo soprattutte
preminente, digià cominciando a essere noverata tra le maggiori
d’Italia. La parte guelfa si rinforzava dopo la morte dell’Imperatore
per la presenza di papa Innocenzio IV, che dal Concilio di Lione
tornava a Roma colla sua corte. Frattanto Firenze e Lucca sole si erano
chiarite guelfe, mentre al contrario Pistoia, Pisa, Siena e Volterra
e quasi tutti i gentiluomini di contado seguitavano il ghibellinesimo.
Firenze, crucciosa di vedere Pistoia stare al comandamento di Corrado
successore del secondo Federigo, contro di essa faceva uscire le sue
milizie cittadine: e perchè i nobili ghibellini rimasti dentro si
erano opposti a cosiffatta guerra, queste milizie tornate vittoriose
costrinsero al bando non pochi di quelle famiglie; i quali, usciti
appena, stringevano società o lega col Comune di Siena. Abbiamo l’atto
a ciò stipulato da uno di casa dei Lamberti come procuratore degli
uomini di molte famiglie di cui si leggono i nomi.[42] Allora Firenze
[luglio 1251], sdegnando avere comune l’insegna coi Ghibellini, lasciò
loro l’arme del giglio bianco in campo rosso e appropriossi il giglio
rosso in campo bianco. «Tuttavolta l’antica nobile e trionfale insegna
del Comune di Firenze, cioè lo stendardo bianco e vermiglio che si
portava sul carroccio, non cangiò mai.»
La Repubblica seguitava felicemente la guerra contro i Ghibellini
signori di alcune castella aiutati dai Pisani e dai Senesi, tantochè
contro queste due città rivolse finalmente lo sforzo delle armi sue;
nè migliori guerre nè più alto e giusto fine ebbe essa dopo quel tempo
mai. I cittadini, tutti concordi pel buon governo e la lealtà loro,
andavano a quelle militari spedizioni a piedi e a cavallo, con grande
animo e ardire: Firenze ponevasi allora a capo di parte guelfa, e
delle italiane libertà, e dei popoli che risorgevano; e se non fosse
usar parole troppo magnifiche e boriose, quasi direi della civiltà
del mondo. Fiorendo la Repubblica in potenza e in ricchezze a cagione
della quiete dentro e dei buoni successi al di fuori, l’università dei
Mercatanti, piuttostochè il Popolo ed il Comune, per onore di tutti
ordinò che si coniasse moneta d’oro; per la qual cosa Firenze allora
ebbe il fiorino d’oro di 24 carati. Otto di essi pesavano un’oncia;
da una parte avevano il giglio, dall’altra san Giovanni Battista, e
valevano venti soldi. Quando cominciarono a vedersi, niuno li voleva:
ma tosto ebbero corso grande e grande credito in Europa e nei traffici
d’Oriente. Un’altra volta i Fiorentini andati contro Pistoia, vi
posero assedio; e avuto il disopra, quivi restaurarono parte guelfa a
guarentigia del fatto, edificando un castello in sulla via di Firenze,
che fronteggiasse i Pistoiesi. Eguali successi ebbero a favore dei
Perugini ch’erano guelfi, e contro Siena e contro Arezzo; dove anche
diedero bella prova di lealtà quando il conte Guido Guerra capitano
de’ Fiorentini, avendo dato mano ai Guelfi di Arezzo perchè cacciassero
contro ai patti i Ghibellini dalla città, il governo di Firenze volle
che i patti si mantenessero e i Ghibellini vi rientrassero. Troviamo
pure la confessione fatta da’ Guelfi d’Arezzo di somme imprestate ad
essi in questi anni [1251-55] dai Fiorentini;[43] i quali dipoi avendo
col toglierle alcune castella abbassato Siena, e andati ad oste contro
Volterra, nel dare la caccia ai nemici fuggitivi entrarono nella città,
forte pel sito in cima ad un monte. Allora si viddero venire incontro
il Vescovo ed il Clero colle croci in mano, e dietro ad essi le donne
scapigliate, tutti gridando: «Signori Fiorentini, pace e misericordia.»
Si contentarono di riformare lo Stato e di cacciare i capi ghibellini
senz’altra offesa. Vincitori di Volterra, vanno contro Pisa; e perchè
i Pisani spaventati, pregando pace, ad essi inviarono ambasciatori
con le chiavi della città in segno di sommissione, la guerra cessava;
i Fiorentini accontentandosi di pattuire che le mercatanzie loro
potessero entrare per mare e per terra liberamente in Pisa ed uscirne
con franchigie di gabelle, e che i pesi e le misure usate in Firenze
fossero comuni anche ai Pisani. Bastava loro il provvedere alla
facilità dei commerci; nè a tanto possente e ghibellina città quei
patti erano da imporre che altrove solevano ad incremento di parte
guelfa, come non ricettare i fuorusciti, o per tre anni pigliare tra’
nobili di Firenze il Potestà, che doveva (come noi sappiamo) da per
tutto essere forestiero. Tornava l’oste in Firenze tra le allegrezze
e le feste nel gaio mese di settembre; ed a quell’anno tanto felice
[1254] il nome fu dato d’anno vittorioso. Erano i primi gaudi della
libertà, nei quali sembra che il giovane popolo innalzi a leggenda la
propria sua istoria.[44]


CAPITOLO V.
MANFREDI RE DI NAPOLI AIUTA I GHIBELLINI. BATTAGLIA DI MONTAPERTI. [AN.
1254-1260.]

Manfredi figlio naturale di Federigo II succedè l’anno 1254 al
fratello Corrado sul trono di Sicilia e di Puglia in pregiudizio del
nipote Corradino: da lui ebbe parte ghibellina gran sostegno, e la
Toscana grande assalto. Ad istigazione di quel principe i Pisani di
bel nuovo ruppero guerra ai Fiorentini ed ai Lucchesi, avendo sul
territorio di questi assalito il castello del Ponte a Serchio, dal
quale poi furono respinti con grave sconfitta: i vincitori volgendo
l’oste contro alla stessa Pisa, giunsero fino a San Iacopo in Val
di Serchio, dove tagliato un gran pino, fecero a dimostrazione di
trionfo, sul ceppo rimasto, battere fiorini d’oro. Allora i Pisani
gli richiesero di pace, che i Fiorentini concessero in modo grato ai
Lucchesi; ma per avere alle mercatanzie libera la piaggia del mare
fermarono che nel popolo di Firenze stesse la scelta del mantenere
o del disfare il castello di Mutrone, che era tenuto dai Pisani.[45]
Questi accettarono la condizione: dopo di che gli Anziani di Firenze in
consiglio segreto presero partito, che il Mutrone fosse disfatto. Ciò
si doveva nel dì seguente proporre in pubblico parlamento: ma intanto
i Pisani bramando impedire che i Fiorentini a ogni costo dessero quel
castello in signoria dei Lucchesi, avevano in Firenze mandato a tal
fine celatamente un discreto segretario con denari assai da spendere.
Si accostò il Pisano, per interposta di un amico, ad un grande
cittadino anziano e possente in popolo e in comune, il quale avea
nome Aldobrandino Ottoboni, franco popolano, offrendogli quattromila
fiorini e più se ottenesse che il Mutrone fosse disfatto. Ma il vecchio
Aldobrandino, da ciò argomentando che la distruzione del Mutrone,
dai Pisani desiderata, verrebbe dannosa ai Fiorentini ed ai Lucchesi,
come leale cittadino, senza far parola della offerta dei denari, con
nuovi argomenti propose il contrario di quel che aveva nel precedente
giorno, e fece vincere il partito che il Mutrone si conservasse: tanta
fu la continenza di quel virtuoso e non troppo ricco cittadino, che
il Villani paragona al buon romano Fabrizio. Poco dopo Aldobrandino
moriva, e il Comune gli decretò in Santa Reparata un monumento di marmo
elevato sopra a ogni altro, dove fu egli deposto a grande onore. Tre
anni dopo i Ghibellini tornati in città fecero per empiezza di parte
abbattere quella sepoltura, e il corpo di Aldobrandino trascinare per
la città e gittare nei fossi.
Manfredi era stato l’anno 1258 coronato in Palermo re di Sicilia;
dal che ranimati i Ghibellini di Toscana, convenivano in segrete
adunanze, tendendo le orecchie ad ogni novella. Gli Uberti ordivano
gran congiura, ma fu scoperta la trama; citati, negarono i Ghibellini
di comparire, insultando con ferite e con percosse la famiglia del
Potestà. Al che il popolo, correndo armato alle case degli Uberti,
uccise a furia Schiattuzzo di quella famiglia ed altri ad essa
aderenti: Uberto Caimi degli Uberti e Mangia degl’Infangati, condotti
al carcere, confessarono la congiura, per cui tosto ebbero il capo
mozzo. I rimanenti degli Uberti con molte più casate ghibelline,
i Fifanti, gli Amidei, i Lamberti, gli Scolari ed altre sì nobili
che plebee, le quali sarebbe qui troppo lungo noverare, fuggirono
dalla patria, ricoverandosi a Siena ch’era tenuta dai Ghibellini: le
case e torri dei fuorusciti furono atterrate. Poco dipoi l’Abate di
Valombrosa, pavese della famiglia da Beccaria, caduto in sospetto di
perfidia ghibellina, fu posto al tormento e decollato da’ Fiorentini,
i quali ne furono scomunicati dal Pontefice. Il popolo che resse in
quei tempi la città, scrive il cronista che «fu superbo molto, di alte
imprese e tracotato;» ma una cosa ebbero i rettori, che furono molto
leali e diritti. E perchè un Anziano fece ricogliere dal fango presso
a San Giovanni un cancello che era stato della chiusa del Leone, e lo
mandò in una sua villa, ne fu condannato in lire mille, come frodatore
delle cose del Comune.[46] Firenze, che aveva come sua impresa il
Marzocco, teneva insin d’allora per grandigia un serraglio di Leoni che
venivano ad essa recati dai commerci nell’oriente: usanza continuata
dalla Repubblica sempre, ed anche poi sotto al principato, fino alla
memoria dei padri nostri.
«I cittadini di Firenze allora (prosegue il Villani) vivevano sobri
e di grosse vivande e con piccole spese, e di grossi drappi vestivano
loro e loro donne. E molti portavano le pelli scoperte senza panno, con
berrette in capo, e tutti con gli usatti (stivali di cuoio) in piede.
E le donne fiorentine co’ calzari senza ornamenti; e passavansi le
maggiori d’una gonnella assai stretta di grosso scarlatto, cinta ivi su
d’uno scaggiale (cintura) all’antica, ed un mantello foderato di vaio
col tassello sopra, e portavanlo in capo; e le comuni donne vestite
di un grosso verde di cambrasio per lo simile modo: e lire cento era
comune dote di moglie; e lire dugento o trecento era a quei tempi
tenuta dote sfolgorata; e le più delle pulzelle aveano venti e più anni
anzichè andassero a marito.[47]» Le quali parole confermano quelle a
tutti note, dove l’Alighieri descrive l’antico vivere dei Fiorentini,
che i vecchi tuttora potevano ricordare, tanto fu rapido il salire di
questa città nella opulenza e nelle corruttele.[48]
Siccome per la pace fermata tra’ Fiorentini e i Senesi, questi si erano
obbligati a non ricevere fuorusciti; così i Fiorentini inviarono a
Siena due ambasciatori, Albizzo Trinciavegli e Iacopo Gherardi dottori
in legge; i quali giunti, chiesero che i rifugiati fossero cacciati
via, ed aggiunsero intimazioni superbe; cui risposero i Senesi con
l’accettare la guerra, che fu incontanente dichiarata. Su di che i
fuorusciti si argomentarono d’inviare ambasciatori al re Manfredi per
soccorso, tale sperandolo che bastasse a restituirli nella patria.
Era capo dell’ambasceria Farinata degli Uberti, principale tra i
Ghibellini, ed avea libera facoltà da’ suoi di fare e dire come a
lui paresse. Venuti al cospetto del Re, inginocchiati, lo richiesero
d’aiuto; ma egli, o temesse o diffidasse, promise a stento il magro
soccorso di cento cavalieri tedeschi. Volevano gli altri, che aveano
sperato tirarlo almeno a seicento uomini, ricusare la profferta; ma
Farinata disse loro: «non rifiutiamo niuno suo aiuto, e sia piccolo
quanto si vuole; mandi con esso l’insegna sua: tornati a Siena,
noi la metteremo in tale luogo che converrà mandi egli gente a
sufficenza.[49]» Accettarono, ma giunti a Siena furono accolti a grande
scherno; e molto furono sbigottiti i fuorusciti che si aspettavano dal
re Manfredi maggiore aiuto.
Correva il mese di maggio del 1260, quando l’oste fiorentina andava
contro Siena, conducendo seco il Carroccio, com’era usanza delle
città libere d’Italia. Questo era «un carro in su quattro ruote,
tutto dipinto vermiglio; e suso eranvi due antenne, sulle quali
sventolava il grande stendardo dell’arme del Comune di Firenze, bianco
e vermiglio.... Lo tirava un grande e forte paio di buoi, coperti di
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