Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 09

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casate loro due possenti uomini, Geri degli Spini e Rosso dei Tosinghi
della Tosa, e le più grosse famiglie guelfe. Messer Corso Donati
era cavaliere, gentile di sangue, del corpo bellissimo e grazioso
parlatore, sottile d’ingegno, superbo, cupido, animoso, audacissimo
nelle ambizioni e in quelle smodato; a grandi cose attendeva sempre.
Era congiunto in amicizia co’ signori di fuori, e molti servizi faceva;
radunava intorno a sè masnadieri, e grande seguito aveva: tale era
quell’uomo.[100]
Venute le feste di calen di maggio 1300, le brigate d’ambedue le parti
in arme scorrevano per la città, prendendo sollazzo. I giovani della
famiglia dei Cerchi cavalcavano con altri in numero di più di trenta.
E coi giovani dei Donati erano i Pazzi, gli Spini ed alcuni loro
masnadieri. Si guardavano gli uni dagli altri; ma intantochè stavano
a vedere ballare donne sulla piazza di Santa Trinita, ambedue le parti
cominciarono a provocarsi e a spingere i cavalli l’uno contro l’altro,
tanto che nacque una grande mischia, in cui molti restarono feriti: fu
tagliato il naso ad uno dei Cerchi da un masnadiere dei Donati; quindi
gli odii più crebbero, aspirando ambedue le parti alle vendette.
Molto aderivano i Donati, siccome coloro che si vantavano Guelfi puri,
all’amicizia del Papa, rinfacciando di continuo ai Cerchi ed ai Bianchi
la loro lega co’ Ghibellini. Sedeva allora sulla cattedra pontificale
Bonifazio VIII, uomo d’ingegno grande e di audacia smisurata. A lui
pertanto molti si volsero di concordia, pregandolo che egli per il
bene della città e di parte di Chiesa vi mettesse consiglio: il Papa
mandava per messer Vieri dei Cerchi, sperando, perch’egli era grande
mercatante in Roma, volesse in lui rimettere le differenze; offrendogli
pace onorevole, ed aggrandire lui ed i suoi. Ma Vieri non volle ciò
assentire, dicendo che non aveva guerra con nessuno; e si tornò a
Firenze: il Papa rimase molto sdegnato contro a lui ed ai Bianchi.
Avvenne (prima o poi si fosse) che molti cittadini recatisi per
seppellire una morta alla piazza de’ Frescobaldi, ed essendo usanza
della terra a simili radunate che i cittadini sedessero in basso in
sulle stoie di giunchi, e i cavalieri e dottori in alto in sulle
panche, e dei Cerchi e dei Donati quelli che non erano cavalieri
essendo a sedere in terra gli uni dirimpetto agli altri; uno di loro,
o per racconciarsi i panni o per altra cagione, si levò ritto. Gli
avversari per sospetti si levarono anch’essi, e misero mano alle
spade; stavano per azzuffarsi, ma i presenti s’intramezzarono; e per
allora non fu altro. Ma i Cerchi, e tra essi Guido Cavalcanti, vollero
andare contro alle case dei Donati; dalle quali furono o ributtati,
o per consiglio di buoni uomini trattenuti. Narrammo di Guido essere
egli stato unito in matrimonio con la figlia di Farinata degli Uberti:
giovane ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio che a
lui diede gloria; era egli nemico di messer Corso, e più volte avea
deliberato d’offenderlo. Corso, che forte lo temeva perchè lo conosceva
di grande animo, aveva tentato di farlo assassinare mentre andava
in pellegrinaggio a San Iacopo di Gallizia. Perlochè Guido tornato
a Firenze istigò molti giovani, che gli promisero aiutarlo contro a
messer Corso; e un dì essendo a cavallo con alcuni de’ Cerchi, con un
dardo in mano spronò contro lui, credendosi seguitato dai compagni, che
non si mossero. Trascorrendo, lanciò il dardo, ma invano; e inseguito
dai Donati, fu percosso coi sassi anco dalle finestre e ferito in una
mano. Dipoi essendo alcuni dei Cerchi ai loro poderi di Nipozzano in
Val di Sieve, e nel tornare dovendo passare sotto a Remole ch’era
dei Donati, questi co’ loro armati contesero il passo, e vi ebbero
feriti di ambe le parti. Per la qual cosa gli uni e gli altri furono
accusati e condannati a pagare certa moneta, e, in mancamento, a stare
in prigione: erano poveri i Donati, che non potendo pagare andarono in
carcere; poteano i Cerchi, ma non vollero per non essere consumati,
come fare si soleva, con le condanne. Così anch’essi furono chiusi
nelle prigioni; dove un giorno a desinare quattro dei Cerchi, mangiato
un migliaccio, del quale erano stati regalati dal soprastante della
prigione che era ser Neri Abati, morirono: questi, che poi vedremo
pessimo uomo, ne fu incolpato, ed anche si disse ciò avere fatto ad
istigazione di Corso Donati: non si cercò il maleficio perchè provare
non si poteva, ma l’odio più crebbe tra le due parti.
Allora i Capitani di parte guelfa e gli altri Neri, temendo che per
le dette sètte e brighe, parte ghibellina non esaltasse in Firenze;
che sotto titolo di buon reggimento già ne facea il sembiante, e
molti Ghibellini tenuti buoni uomini erano stati cominciati a mettere
in sugli uffici; furono col Papa, col mezzo degli Spini, che erano
banchieri di lui e molto possenti in Roma. Laonde il Papa mandava
legato in Firenze il cardinale Matteo d’Acquasparta; il quale vi
giunse nel mese di giugno dell’anno 1300, e fu ricevuto dai Fiorentini
a grande onore. Ma quando egli chiese balìa di riformare la terra e
di raccomunare gli uffici, quelli della parte bianca che guidavano
la Signoria, per tema di perdere loro stato ed essere ingannati dal
Papa e dal Legato, non vollero ubbidire. Di già la contesa, per quante
altre cause vi si mescolassero e qualsivoglia nome avesse, mostrava
essere tra’ mercanti guelfi e i grandi oppressi co’ loro seguaci,
che in sè riteneano un qualche spirito ghibellino. I primi tentavano
raccogliersi sotto un nuovo ordine di ottimati, e per essi era il
Cardinale; la Signoria stava in mano dei Bianchi, i quali voleano
meno esclusivo il reggimento. Dante Alighieri per nobiltà di sangue
e d’animo mal soffrendo i nuovi possenti, e già inclinato a favorire
la parte oppressa dei Ghibellini, fu tra’ Priori di quel bimestre.
Avvenne che andando la vigilia di san Giovanni le Arti alla chiesa
del Santo ad offrire, secondo l’usanza, precedute dai loro consoli,
questi furono manomessi e battuti da certi grandi, i quali dicevano:
«noi siamo quelli che demmo la sconfitta a Campaldino, e voi ci avete
rimossi dagli uffici e onori della città nostra.» Su di che i rettori
tennero consiglio di più cittadini, e tra questi era Dino Compagni:
deliberarono confinare,[101] della parte dei Donati, Corso e Sinibaldo
suo fratello, Rosso della Tosa e Geri Spini con due dei Pazzi ed altri,
a Castello della Pieve; dei Cerchi tre, ma rimase Vieri in Firenze;
andò con altri di questa parte a Sarzana Guido Cavalcanti. Ma i Donati,
forse perchè vedevano rimasto colui che era capo dei nemici loro, non
si volevano partire; e già i Lucchesi, di coscienza del Cardinale,
venivano in loro aiuto con grande numero di soldati, se non che la
Signoria con le minaccie gli obbligò a fermarsi. Corso ed i Neri furono
costretti andare al confine; ma le intenzioni del Cardinale troppo
essendosi palesate, molti se gli voltarono contro, e uno del popolo
andò colla balestra a saettare un quadrello alla finestra del Vescovo
dove abitava il Cardinale: il dardo si ficcò nell’asse, e quegli
impaurito andò a stare oltrarno in casa de’ Mozzi: i Signori, per un
cotale rimedio, lo fecero presentare di mille trecento fiorini nuovi.
«Io glieli portai in una coppa d’argento (scrive Dino Compagni), e
dissi: Monsignore, non gli disdegnate perchè sieno pochi, perchè senza
i Consigli palesi non si può dare più moneta. Rispose gli avea cari;
molto gli guardò, e non gli volle.» Poi data opera, sebbene invano, a
fine di ridurre a miglior modo la elezione dei Priori, che frattanto
però saviamente facevano armare la città, vedendo essergli contrari
i Bianchi che guidavano la Signoria, partissi lasciando la città
interdetta.
Questa rimase allora tutta in mano dei Bianchi, i Cerchi essendo
stati, non bene sappiamo dopo quanto tempo, rivocati dal confine per
l’infermo luogo di Sarzana: tornò ammalato Guido Cavalcanti, che della
infermità moriva.[102] Corso Donati, rotto il confine, andossene in
Roma o in Anagni, dov’era il Papa; il perchè fu condannato nell’avere e
nella persona. Gli altri dei Neri furono più tardi rimessi in patria:
ma pareva loro troppa male stare; tantochè fu detto, che se Vieri
dei Cerchi avesse avuto quell’animo e quella capacità che non aveva,
poteva forse anche pigliare la signoria per sè; nè mancava chi a ciò lo
esortasse. Laonde i principali dei Neri e i Capitani di parte guelfa e
altri cittadini si radunarono in Santa Trinita, deliberati di rialzare
lo stato loro comunque si fosse; ma conosciuto di non avere forze a
ciò sufficienti, senza niente fare uscirono dalla chiesa. Tra essi
era, benchè non fosse di loro parte ma desideroso di unità e pace,
Dino Compagni, che innanzi si partissero diceva loro: «Signori, perchè
volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi
volete pugnare? contro a’ vostri fratelli? Che vittoria avrete? non
altro che pianto.» Uscito anch’egli di Santa Trinita, andò insieme con
altri Priori, facendosi mezzano perchè niuno scompiglio nascesse da
quella raunata. E ciò promisero i Signori; ma quando si seppe che il
conte Guido da Battifolle chiamato dai Neri s’accostava in arme, questi
fu condannato in grave pena; e più che mai scoprendosi gli odii e le
malevolenze d’amendue le parti, ciascuno procurava offendere l’altro.
Frattanto in Pistoia, dove i Fiorentini avevano giurisdizione, per
opera di rettori mandati a tal fine, con lunga offensione e atroce
guerra e miserie grandi era cacciata la parte dei Neri.[103] In Lucca
la casa degli Interminelli co’ loro seguaci, che teneano parte bianca e
s’accostavano co’ ghibellini Pisani, credendo fare così in Lucca come
i Cancellieri bianchi in Pistoia, si levarono, ed ucciso il giudice
Obizzo degli Obizzi, volevano pigliare la terra; ma i Neri, essendo in
maggior forza, gli oppressero e sbandirono, e molte loro possessioni
arsero e disfecero. In Gubbio pure i Ghibellini aveano cacciati i
Guelfi; ma questi, con l’aiuto de’ Perugini rientrati, cacciarono i
Ghibellini dalla città.[104]


CAPITOLO V.
VENUTA IN FIRENZE DI CARLO DI VALOIS. — CACCIATA DEI BIANCHI. — ESILIO
DI DANTE. [AN. 1301-1302.]

«Levatevi o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro
e il fuoco colle vostre mani, e distendete le vostre malizie; palesate
le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti: non pensate più;
andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il
sangue dei vostri fratelli, spogliatevi della fede e dell’amore; nieghi
l’uno all’altro aiuto e servizio; seminate le vostre menzogne, le quali
empieranno i granai de’ vostri figliuoli. Credete voi che la giustizia
di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende uno per uno.
Guardate a’ vostri antichi, se ricevettero merito nelle loro discordie.
Non v’indugiate, miseri; chè più si consuma un dì nella guerra, che
molti anni non si guadagna in pace; e piccola è quella favilla che a
distruzione mena un gran regno.»
Con queste parole Dino Compagni, dà principio al secondo libro della
sua storia, apprestandosi a narrare i tristi fatti che seguitarono
per la venuta in Firenze di Carlo di Valois, che ebbe soprannome di
Carlo senza terra, perchè avendo tutta sua vita cercato un regno, non
l’ebbe mai. Questo principe, fratello di Filippo il Bello di Francia,
era passato in Italia in soccorso del re Carlo II di Napoli alla
guerra di Sicilia, allettato anche dalla speranza che il Papa a lui
avea data di cose maggiori. Ma i seguaci di parte nera tanto avevano
operato presso Bonifazio, mettendo innanzi che la città tornava in mano
dei Ghibellini, gli Spini suoi mercatanti di tante reti lo avevano
avviluppato, che appena il Valois fu disceso in Italia, lo stesso
Pontefice l’aveva pregato venisse in Firenze per essere ivi arbitro
e finitore delle discordie con titolo di paciero. Ma era sospetta
la costui venuta molto ai reggitori di Firenze che seguitavano parte
bianca; il perchè mandarono al Papa tre ambasciatori, uno dei quali
fu Dante Alighieri. Molto in quei mesi poteva in Firenze l’autorità di
tanto ingegno: aveva nei Consigli due volte opinato così da offendere
del pari Bonifazio ed il Valois, negando al primo cento cavalli da
lui chiesti, e al secondo ogni sussidio per la impresa di Sicilia.
Quando si fu al mandare l’ambasciata in Roma, avrebbe egli detto queste
superbe parole: «s’io vo, chi resta? s’io resto, chi va?» Andò con gli
altri;[105] ed appena giunti, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse
loro in segreto: «perchè siete voi così ostinati? umiliatevi a me, ed
io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra
pace: tornate indietro due di voi, ed abbiano la mia benedizione se
procurano che sia ubbidita la mia volontà.» Due si partivano, rimase
Dante. Mentre era Carlo in via, gli si erano appresentati in Bologna
uomini mandati dalle due parti; quelli dei Neri dichiarandosi Guelfi e
fedeli della Casa di Francia; quelli dei Bianchi protestandosi del pari
amici di lui, e facendogli molte profferte: nondimeno egli per allora,
senza passare nè per Pistoia nè per Firenze, tirò diritto a Roma.
Cadeva appunto allora in Firenze la elezione della nuova Signoria;
tra gli eletti era Dino Compagni: ma gli altri pure erano uomini non
sospetti e buoni, nei quali il popolo minuto non meno che i Bianchi
riponevano grande fidanza; ma tuttavia troppo deboli rispetto alle
presenti condizioni della Repubblica, e tali che i Neri si confidavano
guadagnarseli. Accorsi a visitarli, dicevano loro: «Signori, voi
siete buoni, e quali bisognavano a questa nostra città. Voi vedete la
discordia dei cittadini: a voi conviene pacificarli, o la città perirà.
Voi siete quelli che avete la balía. E noi a ciò fare vi profferiamo
l’avere e le persone di buono e leale animo.» Rispondeva loro Dino
per commissione dei suoi colleghi, e diceva: «Cari e fedeli cittadini,
le vostre profferte noi riceviamo volentieri, e cominciare vogliamo a
usarle: e richieggiamovi che voi ci consigliate in tal guisa, che la
nostra città debba posare.» Promisero intanto accomunare gli uffici
tra gli uomini delle due parti. «E così noi perdemmo il primo tempo
(seguita Dino), perocchè non ci ardimmo a chiudere le porte nè a
cessare l’udienza ai cittadini; diemmo loro intendimento di trattare
la pace, quando si conveniva arrotare i ferri.[106]» Più di loro ne
sapeva messer Corso pel suo ingegno e per la domestica educazione
a maggioreggiare. Quei dabbene, usciti dal banco o dal fondaco, non
erano atti a reggere lo Stato in condizioni tanto difficili, tra ’l
furore delle parti, in faccia al Papa ed allo straniero. I Capitani
di parte guelfa, esortati a ciò dai Priori, si diedero di buon animo
a interporsi per la concordia; ma niuno gli ascoltava, anzi in quel
mentre i Neri, che aspettavano la venuta del Valois, fecero deposito
pel soldo di lui e de’ suoi cavalieri di settanta mila fiorini d’oro.
Carlo intanto da Roma si era mosso inverso Toscana, e giunto a Siena,
inviava suoi ambasciatori a Firenze, chiedendo essere quivi ammesso.
I Signori, per essere il caso grande e nulla volendo fare senza il
consentimento de’ loro cittadini, richiesero il Consiglio generale
della parte guelfa, e le Arti divise nei settantadue mestieri, i quali
tutti avevano consoli; e imposero loro, che ciascuno consigliasse
per iscrittura, se alla sua Arte piaceva che messer Carlo di Valois
fosse lasciato venire in Firenze come paciere. Risposero tutti,
si accogliesse come signore di nobile sangue; salvo i Fornai, che
dissero che nè ricevuto nè onorato fosse, perchè venía per distruggere
la città. Gli furono dunque mandati alcuni autorevoli cittadini a
significargli che poteva liberamente venire come paciere, purchè
promettesse per lettere bollate che non intenderebbe con ciò acquistare
giurisdizione sopra i cittadini, non occuperebbe veruno onore della
città nè per titolo d’Impero nè per altra cagione; nè le leggi della
città muterebbe, nè le usanze. Avevano pregato il suo cancelliere
a distorlo dal fare l’entrata il dì d’Ognissanti, perchè il popolo
minuto in tal giorno faceva festa coi vini nuovi; il che poteva dare
cagione d’assai scandali. Gli ambasciatori si presentarono al principe
per avere le suddette lettere bollate; che se non avessero potuto
conseguirle, avevano comando di negargli il passo e la vettovaglia,
quando fosse giunto a Poggibonsi. Ma egli promise tutto, e diede la
lettera: «ed io la vidi, e feci copiare (soggiunge Dino), e tennila
fino alla sua venuta.» E quando fu venuto, io lo domandai, se di sua
volontà era scritta: rispose, sì certamente. E perchè egli camminava
alla volta di Firenze con paurosa esitanza, i Neri per affrettarlo gli
donarono diciassette mila fiorini.
Intanto il nostro dabben Compagni con onesto e santo pensiero radunava
molti buoni cittadini, oltre agli ufficiali della Repubblica, nella
chiesa di San Giovanni, e con paterna effusione di cuore gli esortava
ad onorare la venuta di Carlo di Valois col togliere di mezzo gli
sdegni ed unirsi tutti in un sol volere, come convenivasi ai cittadini
della più nobile città del mondo, ed a giurarsi buona e perfetta pace
sul fonte del loro battesimo. Giuravano toccando i sacri vangeli; ma
quelli stessi che mostravano piangere per tenerezza e baciavano il
libro, furono poi i più ardenti nelle vendette. I Neri cercarono fin
dal principio trarre profitto dalle aderenze dei Bianchi con la parte
ghibellina; il che tirava addosso a questi tutto il pondo di parte
guelfa.
Il primo novembre 1301[107] entrò in Firenze Carlo di Valois seguíto
da ottocento cavalieri francesi, ai quali poi s’aggiunsero altri
quattrocento venuti a pochi per volta di Lucca, di Siena, e di
Perugia e dalla Romagna, cosicchè in tutto erano 1200 all’ubbidienza
sua. Fu ricevuto a grande onore e con armeggiamenti. Smontò a casa i
Frescobaldi, perchè erano oltrarno, dove abitavano i grandi in luogo
più facile a difendere, e segregato dalla frequenza del popolo e
dalle vie strette degli artigiani che egli temeva. Attendeva intanto
co’ suoi cavalieri ad afforzarsi oltrarno; il che diede ai cittadini
tale sospetto che molti s’armarono grandi e popolani, ciascuno a casa
de’ suoi amici, abbarrandosi la città in più luoghi. La Signoria
vecchia aveva eletto quaranta cittadini d’ambedue le parti, che la
consigliassero; ma costoro tutto il giorno non facevan altro che
ingombrare la ringhiera, biasimare i Priori, chiedere eleggessero i
nuovi prima del tempo debito; erano impaccio e non aiuto. Carlo avea
fatto invito di mangiar seco ai Priori, che rifiutarono, dicendo non
essere ciò ad essi lecito per le leggi: e inoltre temevano uscire di
palagio, sospettando un qualche agguato, e per essere la città inquieta
e in grande trepidazione. In mezzo alla quale, ed a richiesta di
Carlo, dai Priori della Repubblica adunati nella chiesa di Santa Maria
Novella, col Potestà e Capitano, col Vescovo e molti dei più spettabili
di Firenze, gli fu data balía di pacificare i Guelfi insieme.[108]
Giurò, e come figlio di re promise conservare la città in pacifico e
buono stato; ma incontanente fece il contrario.
In questo mentre erano tornati da Roma i due ambasciatori con le
parole del Papa; al quale bramavano taluni almeno della Signoria
ubbidire, scrivendo a lui ma segretamente per la paura dei Neri,
mandasse in Firenze per addirizzare la città un messer Gentile da
Montefiore cardinale. Da Roma scriveano che gli ambasciatori erano
d’accordo col Papa; laonde i Neri temendo per quelle pratiche una
qualche mutazione, si ponevano dal canto loro sulle difese. La Signoria
ordinava processione e preghiere a fine di allontanare la tempesta,
che altri avrebbe voluto affrontare. Si provarono a mandar fuori bandi
e leggi rigorose, ma non si ardivano farle eseguire. Intanto quelli di
parte nera andavano dicendo: «noi abbiamo un signore in casa, il Papa
è con noi; gli avversari nostri non sono guerniti nè da guerra nè da
pace; danari non hanno, i soldati non sono pagati.» A questi pensieri
consentiva molta parte del popolo, ansiosa di cogliere quella occasione
a fare una buona cacciata di nobili, e assicurarsi per l’avvenire.
In tale baldanza i Neri prendevano le armi; e primieramente i Medici
potenti popolani, dopo l’ora di vespro assalivano e ferivano a morte
un valoroso uomo di popolo. La moltitudine allora s’armava a piede e
a cavallo; la Signoria comandava che venissero fuori le schiere del
Comune; e queste, sebbene parteggianti in segreto pei Neri, venivano
e spiegavano le loro bandiere; ma non vi era chi confortasse la gente
che si accogliesse al palagio dei Signori, quantunque il gonfalone
della giustizia fosse alle finestre. Solamente quei soldati che
non erano corrotti, con alcuni altri cittadini convenuti più per
curiosità che per zelo, stavano in armi attorno al palagio. I Signori,
non usi a guerra, attendevano a dare udienze; e frattanto cadeva il
giorno. Il Potestà, invece d’andare com’egli doveva in armi alla casa
dei malfattori, lasciava i Priori nelle peste: il popolo era senza
consiglio: lo stesso Capitano nulla faceva. Venuta la notte, la gente
si ritrasse, e ciascuno asserragliò le vie che menavano alle proprie
case.
Manetto Scali, in cui parte bianca poneva grande fidanza perchè era
potente di amici e di seguito, afforzò le sue case con edificii da
lanciar pietre: gli Spini, di parte nera, che avevano il loro grande
palagio incontro al suo, ed eransi gagliardamente premuniti, dissero
agli avversari con finta amistà: «deh! perchè facciamo noi così? noi
siamo pure amici e parenti, e tutti Guelfi: noi non abbiamo altra
intenzione che di levarci dal collo la catena che il popolo ha posto
a voi e a noi. Perdio, dunque siamo uniti tra noi, come dobbiamo
essere.» Egualmente parlarono i Buondelmonti ai Gherardini, i Bardi
ai Mozzi, l’istesso molti altri; sicchè i contrari si ammollarono,
ed i seguaci loro invilirono. I Ghibellini, ciò vedendo, si crederono
traditi da quei medesimi guelfi bianchi nei quali fidavano, e presso
che tutti si ritrassero da parte. I baroni di Carlo intanto stavano
attorno ai Signori, facendo istanza perchè loro dessero la guardia
della città. Ebbero soltanto quella del sesto d’oltrarno, dopochè Carlo
ebbe giurato per mezzo de’ suoi, cancelliere e maresciallo, l’avrebbe
tenuta a petizione della Signoria. Ma questa, smarrita, non sapeva a
qual risoluzione appigliarsi; gli confondevano le novelle varie che
a loro giungevano, ogni rimedio andava a vuoto: chiamarono alle armi
gli uomini del contado; ma essi, devoti al nome guelfo ed al Papa,
spiccavano le insegne dalle aste e gli tradivano.
Mentre i Francesi davanti ai Priori giuravano della loro osservanza
e lealtà, fattosi giorno, si sparge voce che per chiamata di Carlo
stesso, Corso Donati, seguíto da molti amici a cavallo è presso a
Firenze: ed egli infatti giunto a’ sobborghi della città, trovate
chiuse le porte delle vecchie mura, se n’era venuto a porta a Pinti
allora vicina alle sue case; e questa coll’aiuto de’ seguaci suoi
aveva sforzata. Entrato in città, fece testa sulla piazza di San Pier
Maggiore, ed afforzò il campanile della stessa chiesa: dentro alla
quale egli ed i suoi mangiarono ritti. Sbaragliati pochi Bianchi che
s’erano a lui parati dinanzi, trasse a dare il sacco ed a bruciare le
case degli antichi Priori che lo avevano sbandito: corse dipoi alle
carceri del Comune, e apertele a forza, liberò i prigionieri; indi al
palagio del Potestà ed alle stanze dove risiedevano i Priori, i quali
costrinse ad abbandonare il seggio e tornarsene alle case loro. I
Francesi tuttavia non si ristavano dalle solite protestazioni, e che
il principe farebbe la vendetta grande, e per nulla toccherebbe la
Signoria del Comune. Carlo si fece dare in custodia i più ragguardevoli
di ambedue le parti; ma tosto i Neri lasciò andare, e i Bianchi
ritenne prigionieri quella notte senza paglia e senza materasse come
uomini micidiali. Grida sdegnosamente il Compagni: «o buon re Luigi,
che tanto temesti Iddio! ov’è la fede della real Casa di Francia? O
malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta Corona fatto non
soldato ma assassino, senza vergogna![109]» Avevano i Priori (o altri
che fosse) fatto suonare a stormo la campana grossa del loro palagio;
ma invano, perchè la gente sbigottita non trasse fuori: di casa Cerchi
non uscì uomo a cavallo nè a piè armato: due soli degli Adimari co’
loro congiunti vennero al palagio; ma non vedendo altri, retrocessero,
rimanendo la piazza deserta. La sera stessa, alcuno credette vedere
una croce rossa appesa al palagio della Signoria, segno dell’ira
divina. Allora i malfattori e sbanditi ch’erano nella città, inanimati
dal vederla senza difesa nè signoria, mettono a ruba i fondachi e
le botteghe, ardono le case dei loro nemici, feriscono e uccidono i
migliori della parte bianca. Chi temeva gli avversari, si ricoverava, o
nascondeva la roba nelle case degli amici: i Neri potenti estorcevano
danari ai Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza. Messer Carlo di
Valois nè sua gente non pose riparo, nè attenne sacramento nè alcuna
delle cose promesse da lui.
Sei giorni durò questo malfare nella città; quindi per altri otto,
masnade armate si spargevano d’intorno, mettendo a sacco e a fuoco le
case, onde molto numero di belle e ricche possessioni furono guaste.
Quando una casa ardea forte, Carlo domandava: «che fuoco è quello?»
eragli risposto, che era una capanna, quando era un ricco palagio: il
contado ardeva d’ogni parte. I Priori invano pregarono per Dio molti
dei popolani potenti che avessero pietà della città loro; i quali
niente ne vollero fare. Vennero ad essi a tempo rotto sostituiti altri
Priori di parte nera, da continuare nell’ufficio insino a’ quindici
di dicembre. Corso Donati, che dal Compagni è detto crudele più di
Catilina, adunò in quel saccheggio molto tesoro a danno dei Cerchi e
loro amici: quando passava per la terra, la plebe gridava: «Viva il
barone!» e pareva la terra sua. Carlo, signore di grande e disordinata
spesa, fece richiedere di danari gli antichi Priori aggiungendo le
minaccie; ma non ne diedero; perchè tanto crebbe il biasimo per la
città, che egli lasciò stare. Fece pigliare un ricco popolano, il quale
lo aveva ricevuto e molto onorato ad un suo bel luogo quando andava
ad uccellare co’ suoi baroni, e gli pose di taglia 4000 fiorini, o lo
manderebbe prigione in Puglia; pure a preghiera di amici lo lasciò
per fiorini ottocento: e per simile modo ritrasse molti danari dai
cittadini. Grandissimi mali fecero i Rossi ed i Tornaquinci; alcuni
dei Bostichi presero a guardare pel prezzo di cento fiorini i beni
di un loro amico ricco popolano, e poichè furono pagati, li posero a
ruba essi stessi: questi Bostichi davano la corda agli uomini in casa
loro, le quali erano in Mercato Nuovo nel mezzo della città, e di
mezzo dì li mettevano al tormento. A molti pupilli fu tolta la roba, a
molte vergini l’onore: molti innocenti, dannati a pagare mille fiorini
sotto pretesto che avessero fatto congiura, erano poi cacciati dalla
città. Molti nascosero in luoghi segreti i loro tesori: non pochi dei
Bianchi, antichi Ghibellini, si accordarono coi Neri per ingegno di
malfare; molti in pochi giorni mutarono lingua. I vecchi Priori furono
svillaneggiati e calunniati, perchè cessero senza combattere; ma la
colpa fu dei Cerchi (questo scrive Dino), i quali per avarizia e per
viltà non fecero difesa o riparo contro i loro nemici:[110] e a chi
ne li riprendeva, rispondeano che temevano le leggi; quando invece se
n’erano stati per non avere a mantenere i fanti.
Infine gli incendi e le ruberie cessarono: il Valois d’accordo con la
Signoria prese a raffrenare alcuni popolani di parte nera. E in quel
mese stesso di novembre giunse di nuovo a Firenze come legato del
Papa il Cardinale di Acquasparta coll’intendimento di pacificare i
cittadini: co’ matrimoni cercò riunire parecchie famiglie; ma volendo
anche rendere comuni gli ufficii alle due parti, ed opponendosi acciò
i Neri spalleggiati dal Valois, se ne partì non meno irato dell’altra
volta. Il giorno di pasqua di Natale Niccolò de’ Cerchi, nell’andare
ad una sua possessione con sei famigli ed un figlio giovinetto che
era in capelli a testa scoperta, passando per la piazza di Santa
Croce nel tempo che un frate vi predicava, s’abbattè in Simone Donati
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