Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 12

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loro genti fatte venire di Lunigiana e posto in difesa San Miniato ed
altri luoghi, rinforzati di duecento cavalieri che il re Roberto aveva
mandati, con grande fervore correano alle armi, prorompendo in grida
d’onta contro l’Imperatore, chiamandolo crudele, tiranno e ghibellino:
nei bandi loro dicevano, a onore di Santa Chiesa ed a morte del Re
della Magna. Tolsero le aquile dalle porte, le rasero dovunque fossero
o intagliate o dipinte, pena a chi le riponesse.[138]
Tale era il sentire del popolo di Firenze; ma vero è poi che
molto venivano eccitati dai rettori, che degli spiriti popolani si
facean arme e ne acquistavano a sè grandezza. Mugnevano il popolo
per fare danari, che spargessero la guerra in tutta Italia contro
all’Imperatore: onde ire di parte, e poi vendette cadevano sopra i
capi di quella setta, da noi più volte nominati. Betto Brunelleschi
ghibellino rinnegato, ricco ed avaro, da due giovani dei Donati
assalito in casa sua mentre giocava a scacchi e ferito nella testa,
moriva indi a poco. Pazzino dei Pazzi s’era acconciato coi Donati
della morte di messer Corso: ma era in odio però a quei sempre
indistruttibili Cavalcanti; uno dei quali saputo com’egli fosse
ito a cacciare col falcone ed un solo famiglio sul greto d’Arno da
Santa Croce, gli tenne dietro con alcuni compagni: Pazzino, poichè
gli vidde, cominciò a fuggire; ma tosto raggiunto, cadeva trafitto.
A quel misfatto, i Pazzi e i Donati, col Gonfaloniere di giustizia,
corsero alle case già restaurate dei Cavalcanti; le quali difese da
essi e dagli amici loro, non si poterono espugnare; ma quarantotto dei
Cavalcanti ebbero condanna negli averi e nella persona, e due figli di
Pazzino dal popolo furono fatti cavalieri e donati largamente.[139]
Malvagie sovente erano le opere di coloro i quali teneansi la città
in pugno; ma con farla essere tutta guelfa mantenevano ad essa la
forza che è nell’unità, e quel carattere per cui solo ebbe ella
grandezza. In quell’anno 1311 una provvisione richiamava i Guelfi
che dopo all’ottobre 1308, cioè dopo alla morte di Corso Donati, per
qualsivoglia cagione fossero fuorusciti, e confermava e rinforzava il
bando e le condanne contro a’ Ghibellini, dei quali si leggono i nomi
descritti in lunga serie.[140] Sono oltre a mille, chi tenga conto
delle famiglie che tutte intere ebbero bando: Ghibellino da quel giorno
volle dire nemico e ribelle. Di questa legge fu autore e ad essa dava
il nome Baldo d’Aguglione, giureconsulto, cui l’Alighieri diede mala
fama: aveva costui dichiarato irrevocabile il lungo esilio del Poeta.
Dino Compagni era come guelfo rimasto in Firenze, e, come vedemmo,
dannava la guerra che ad Arrigo si faceva; ma quando s’accorse questo
Imperatore incrudelire, e fattosi capo della parte ghibellina venire
in armi contro a Firenze divisa e guasta, allora il buon Dino, che
scampo non vede, poichè non vede giustizia da parte nessuna, depone la
penna come disperato con queste parole: «O iniqui cittadini, ora vi si
comincia a rivolgere il mondo addosso; l’Imperatore con le sue forze
vi farà prendere e rubare per mare e per terra.» Viveva il Compagni
più anni dipoi; ma l’istoria non continuava, fallito il presagio ma
insieme fallito l’antico disegno, e forse confuso egli e sopraffatto
dai tempi nuovi e dalle nuove necessità che non erano a lui nell’animo
potute capire, e contro alle quali repugnava l’intelletto con giuste ma
inutili ed importune antiveggenze.[141]
Mentre che Arrigo dimorava in Pisa aspettando novelle genti
d’Allemagna, il re Roberto aveva mandato in Roma Giovanni suo
fratello con secento cavalieri catalani e pugliesi, ai quali bentosto
s’aggiugneano le milizie dei collegati di Firenze, di Lucca e di
Siena e degli altri amici di Toscana. Giovanni con questa forza e
con l’aiuto degli Orsini e loro seguaci teneva il Campidoglio, Castel
Sant’Angelo, la chiesa e palagi di San Pietro e tutto Trastevere; gli
Imperiali, San Giovanni Laterano, Santa Maria Maggiore, il Colosseo
e Santa Sabina. Ciascuna parte s’abbarrò e asserragliò fortemente; nè
i Fiorentini di quella città dimenticarono di fare ivi correre come a
Firenze il dì di san Giovanni il solito palio di sciamito chermisino.
Giunto l’Imperatore in Roma, cercò aprirsi il passo a San Pietro, dove
intendeva prendere la corona. Accaddero molti scontri e battaglie,
nelle quali essendo rimasti i Pugliesi vincitori, Arrigo nell’agosto
del 1312 si contentò farsi coronare in San Giovanni Laterano dai tre
Legati del Pontefice, ch’erano il Cardinale da Prato e il Fieschi e
il Pelagrù. Dimorò in Tivoli pochi giorni, e per la via di Viterbo,
avendo prima visitata Todi che gli era amica, e devastato il territorio
di Perugia, venne a Cortona: i baroni alemanni, la maggior parte, più
volentieri sariano andati diritto a Pisa e indi tornati alle case loro.
Cortona giurava fedeltà a Cesare, ma ostavano i diritti che per diplomi
di Carlomagno diceva tenere su quella città il Vescovo d’Arezzo. Era in
Cortona venuto un messo da Firenze nel nome di Geri Spini e di messer
Pino della Tosa, questi succeduto alla possanza di messer Rosso suo
consorto; entrambi più temperati di quelli i quali aveano per l’innanzi
tenuto lo Stato: proponeano accordi, che allo scrittore tedesco pareano
facili a conchiudere, «perchè io non aveva (soggiugne) imparato a
conoscere i Toscani.» Ma nulla si fece; e Arrigo venuto innanzi,
batteva Montevarchi, che tre dì essendosi validamente difesa, poi si
arrendeva a discrezione: e occupato per battaglia San Giovanni, e senza
guerra Figline, ponevasi incontro al castello dell’Incisa. In questi
fatti ebbe prigioni cinquanta cavalieri catalani tenuti a soldo dai
Fiorentini ribelli; ch’era caso di maestà per gli imperiali giuristi, e
volevano fossero impiccati; ma comandò Arrigo che, spogliati, andassero
liberi.
Nel forte sito dell’Incisa erano milleottocento cavalieri fiorentini
per tenere il passo all’Imperatore: aveva la Repubblica cresciuto
fino a milletrecento il numero delle cavallate; gli altri erano
forestieri, e gente a piè assai; per anche non erano giunti gli aiuti
dei collegati. Venuti nel piano che è sotto al castello, i Tedeschi sul
greto d’Arno schierati offersero battaglia; ma quei di Firenze, sebbene
fossero maggior numero, la rifiutarono; e i Tedeschi allora, guidati
dai fuorusciti che avevano seco, girando per istretti ed aspri luoghi
dal poggio di sopra valicarono il castello e vennero dalla parte che è
verso Firenze. Dall’Incisa erano usciti molti dei migliori cavalieri,
sperando chiudere loro il passo al rientrare sulla via; qui fu assai
duro combattimento, ma infine i Tedeschi rispinsero gli altri dentro al
castello, e procedendo verso Firenze, l’Imperatore varcato il fiume a’
19 settembre, poneva il campo al monastero di San Salvi, che è presso
alle mura.
Ardeano i Tedeschi e distruggevano all’intorno quanto potevano
arrivare, a confessione dello imperiale scrittore; e i Fiorentini
vedendo l’arsione delle loro case, s’armarono a suono di campana, e
sotto ai gonfaloni delle compagnie vennero in piazza: il Vescovo di
Firenze co’ cavalli dei chierici armato vi trasse anch’egli, e tutto il
popolo a piede con lui. Serrate le porte di Sant’Ambrogio e de’ Fossi,
subitamente vi fecero steccati e stettero a guardia il dì e la notte,
finchè non cominciarono a tornare per vie diverse i cavalieri ch’erano
all’Incisa; giugnevano gli aiuti mandati da Lucca e da Siena e dalle
altre città guelfe di Toscana, dai Bolognesi e Romagnoli e da quei di
Gubbio e di Città di Castello, in tutto quattro mila uomini a cavallo e
grande numero di gente a piè. Ma nulla tentarono contro agli assedianti
per essere senza capo e male uniti, e perchè non si fidavano stare a
petto di quella possente cavalleria tedesca. Erano giunti nel campo
d’Arrigo altri mille cavalieri che Arezzo e le amiche città di verso
Roma ed i signori dei castelli a lui mandavano. Ma egli pure si tenne
fermo, nè alla città diede mai battaglia, solo guastando le campagne
dove la raccolta in quell’anno era stata ubertosa molto: i contadini
di quella parte ch’egli teneva e delle valli di Sieve e di Greve, per
fare guadagno, venivano al campo e lo mantenevano fornito. L’Imperatore
giaceva infermo in San Salvi di febbre continua; e già temendosi la sua
morte, alcuni dei baroni che da più tempo stavano in campo a proprie
spese, volendo a sè stessi provvedere per l’inverno, chiesero licenza.
I Fiorentini rimbaldanziti, i più andavano disarmati e tenevano aperte
tutte le porte, eccetto quella che rimaneva di contro al nemico:
entravano e uscivano le mercanzie come non vi fosse guerra. Ebbe Arrigo
per qualche tempo speranza d’accordi, essendo ricomparso nel campo
quel messo ch’era andato a lui in Cortona; ma si guastarono perchè i
Fiorentini ostinatamente a lui negavano l’entrata della persona sua
in Firenze, contrastando ora e poi sempre agli Imperatori mettere
piede nelle città murate, dove era sovrana la libertà dei Comuni.
Consentivano tenesse Arrigo un Vicario che nel dominio dei Fiorentini
esercitasse la imperiale giurisdizione, contando poi farlo sgombrare
ogni volta fosse egli di troppo; bene accettavano il nome e il diritto,
ma non la persona e le armi dell’Imperatore: e questi, perduta ogni
speranza di avere Firenze, levava l’assedio il giorno ultimo d’ottobre.
Valicò Arno, ed il pericolo era grande, chè mentre le schiere
passavano, quei della città che avevano i ponti e la scelta, con
poche balestre potevano assalire o l’una o l’altra parte dei Tedeschi
divisi dal fiume: in Firenze suonavano le campane, ma niuno si mosse.
Lì appresso nei colli intra i quali scorre l’Ema, era un castello
dei Bardi e dentro ventidue nobili donne di quella consorteria co’
loro bambini e molte ricchezze. Il luogo era forte e ben guardato, ma
cedè al primo appresentarsi d’Arrigo, il quale faceva onoratamente
accompagnare le donne dove a loro piacesse, contro al parere dei
Toscani ghibellini che seco erano e volevano farsene un pegno
da richiamare all’ubbidienza quella possente famiglia di magnati
mercatanti. Arrigo andò a porsi con tutta l’oste indi a San Casciano,
dove stette due mesi accampato: molti castelli occupò all’intorno,
dei quali abbruciò alcuni ed altri ritenne: troviamo notato in Val
di Pesa Lucardo dove si fanno i buoni formaggi, ed il castello di
Santa Maria Novella appartenente ai Gianfigliazzi. Frequenti erano le
avvisaglie co’ Fiorentini che scorrevano intorno al campo, e spesso
avevano la peggiore, sebbene fossero maggior numero: buona prova fecero
i cavalieri d’una compagnia di volontà, dov’erano dei più pregiati
donzelli di Firenze, alcuni dei quali morirono combattendo a Cerbaia
sulla Pesa. L’esercito Imperiale diradava per malattie, nè altro era
da fare contro a Firenze; per il che Arrigo dopo l’Epifania muovendo
il campo, lo condusse a Poggibonsi; e dimoratovi, restaurava l’antico
castello ch’era in sul Poggio a cui diede nome d’Imperiale. Ma qui
era stretto dall’una parte dai Senesi, dall’altra dai Fiorentini e
da trecento cavalieri che il re Roberto mandò a Colle di Val d’Elsa.
Cosicchè Arrigo, scemato di genti e di là partitosi, giugneva in Pisa
non senza contrasto a’ 9 di marzo.[142]
Quivi sovvenuto d’armi e di danari e di galee dai Genovesi e da
Federigo di Sicilia, e avuto anche di Allemagna grande rinforzo,
s’apparecchiava a maggiori imprese; frattanto bandiva ribelli
all’Impero il re Roberto ed i Fiorentini.[143] I quali per questo
crescente pericolo e perchè i grandi, aggravati dalla guerra, più
forte chiedevano avere parte nei magistrati, diedero per cinque anni
al re Roberto la signoria della città, a questi patti che ne pigliasse
egli la guardia e la difesa, senza alterare però il governo come era
allora costituito, salvo che in luogo del Potestà il re mandasse un
suo Vicario che si mutava ogni sei mesi: il primo di questi, Iacopo
Cantelmo, venne in Firenze nel giugno del 1313. Lucca e Pistoia fecero
anch’esse quel che Firenze aveva fatto. A’ 5 d’agosto l’Imperatore
muoveva da Pisa per ire contro al re Roberto; ma dopo avuti co’
Fiorentini piccoli scontri intorno a Siena, egli già infermo da più
tempo, ai 24 dello stesso mese venne a morte in Buonconvento, e fu
detto di veleno a lui apprestato in modo sacrilego: queste favole
consolano i civili odii e gli intristiscono. La sepoltura di lui si
vede tuttora nel Camposanto della città di Pisa, che a lui fu tanto
bene affetta.
Falliva per quella morte l’ultimo conato per cui nell’Italia si
cercasse ricondurre viva e presente l’Imperiale potestà, e i Fiorentini
furono liberi da un grande pericolo. Ad essi però altro e non piccolo
sopravvenne, imperocchè i Pisani temendo le vendette di tutta Toscana,
dopo avere offerta invano la signoria della città loro al re Aragonese
di Sicilia ed al Conte di Savoia e a talun altro dei baroni i quali
avevano seguitato Arrigo, trovarono alfine chi avidamente la occupasse.
Era questi Uguccione della Faggiuola, da lungo tempo ruminante pensieri
ambiziosi, allora vicario Imperiale in Genova, e per la molta sua
scienza di guerra, pel grande seguito e per la riputazione che si era
acquistata, rimasto a capo della parte ghibellina. Faceva egli suo pro
della stanza che in Pisa continuarono per qualche tempo molti cavalieri
dell’esercito tedesco disperso per la morte d’Arrigo VII; e dopo avere
sparso il terrore nei paesi circostanti, occupava Lucca, della quale
con grande violenza si fece signore, essendo riuscito tardo ed inutile
il soccorso dei Fiorentini. E questi al vedere tanto gran nembo di
guerra addensarsi contro loro, chiesero d’aiuto il re Roberto; il quale
inviava ad essi ben tosto Piero duca di Gravina, suo minore fratello,
con trecento cavalieri. Ma Uguccione continuando a farsi innanzi,
poneva assedio a Montecatini, avendo con sè l’aiuto dei Visconti
e molto numero di Tedeschi e Ghibellini di Lombardia e fuorusciti
Toscani, che facevano grande esercito. Era il Duca di Gravina molto
grazioso in Firenze, talchè poco meno non gli dessero la signoria
a vita, e per favore eleggeva anche i Priori ed il Gonfaloniere: ma
non bastando contro alle forze troppo maggiori di Uguccione, venne da
Napoli altro numero di cavalieri; e con essi il Principe di Taranto,
anch’egli fratello del Re, al quale spettando per la età il comando, fu
la ruina di quella impresa. Grande e memorabile battaglia si combatteva
sotto Montecatini a’ 29 d’agosto 1315, nella quale ebbe Uguccione
vittoria intera e vi morivano oltre il Duca di Gravina e il figlio
del Principe, forse duemila tra cavalieri e pedoni, e centoquattordici
(scrive il Villani) i quali erano de’ maggiori cittadini di Firenze:
quivi, in Bologna ed in Perugia ed in Siena e in Napoli, per il pianto
dei cittadini perduti, tutto il popolo si vestì a lutto.[144]
Firenze intanto per quella rotta venne a partirsi novellamente:
due sètte erano surte tra’ Guelfi; una, con a capo Pino della Tosa,
amava la signoria del re Roberto e dei Francesi; l’altra, retta da
Simone della stessa casata, stava all’incontro, nè vergognò cercare
aiuto anche di Tedeschi: entrambe erano seguitate da nobili e plebee
famiglie, ma quella di Simone aveva maggiore potenza e credito presso
al popolo. Padroneggiava la città; e se non avesse temuto Uguccione,
avrebbe essa cacciato quella che stava pel Re. Aveva questi già
licenziato il Conte Novello, suo capitano di guerra, il quale come
Vicario teneva in Firenze, ma con poca autorità, le veci di Potestà
e di Capitano: la parte contraria occupava il priorato e tutti i
pubblici uffici, e molto poi si rinforzava creando nel maggio del 1316
un bargello, che fu Lando d’Agubbio, uomo carnefice e crudele, cui
diedero in seguito anche il gonfalone della Signoria. Costui risedendo
a piè del palagio dei Priori, mandava a pigliare per la città e per
la campagna chiunque volesse, sotto colore di essere Ghibellini, e
senza processo gli faceva tagliare a pezzi con le mannaie. Fu in tal
modo trattato un giovine de’ Falconieri innocente, e molti di altre
casate nobili e del popolo. Si fece in quel tempo una moneta falsa,
quasi tutta di rame bianchita d’argento di fuori, e gli chiamarono
_bargellini_. Lando d’Agubbio riempiva di terrore Firenze, quando
grandi e popolari alla fine insofferenti di quella bestiale tirannia,
si rivolsero segretamente al re Roberto, il quale inviava suo Vicario
il Conte di Battifolle; e questi avendo levato di mezzo, a grande
fatica, lo scellerato bargello, nell’ottobre dello stesso anno tolse
di mano a quella setta il priorato e gli altri uffici. I nuovi dodici
Priori che vennero poi, furono presso che tutti di parte del Re,
ed il Conte da Battifolle governò allora la città con saggezza e
senza confische. Ed in quegli anni istituirono la registrazione dei
Contratti, gravandoli di una gabella; e procedeva l’edificazione delle
nuove mura di Firenze.
In questo frattempo la caduta di Uguccione liberava i Fiorentini d’un
grande sospetto, se non fosse dopo lui sopravvenuto ai danni loro un
uomo che fu troppo di lui più formidabile. Aveva Uguccione perduto
in un giorno, e fu detto per sua incuria, le due città di Pisa e di
Lucca; dopo di che nell’aprile del 1316 gli convenne fuggirsi esule in
Verona a Can Grande della Scala: esempio memorabile di fortuna sempre
fugace in quei condottieri che a un tratto sorgevano e tosto ad altri
davano luogo. Pisa cedè per allora in potestà del conte Gaddo della
Gherardesca, intanto che Lucca ebbe a signore Castruccio Castracani
degli Interminelli; il quale seguace in Lunigiana di Uguccione, e ivi
già possente e sospettato da lui, saliva dai ceppi e dagli appresti di
morte a quella grandezza che tosto vedremo. Dapprincipio il re Roberto,
venuto a pace con Pisa e Lucca, seco trasse i Fiorentini; e a questo
modo Toscana fu quietata per allora.[145] Ma l’anno dipoi il Re, dopo
avere tentato una impresa contro la Sicilia, venne a soccorrere Genova
assalita dai fuorusciti ghibellini e dalle forze di Matteo Visconti
signore di Milano e molto terribile sostenitore di quella parte.
Aveva Matteo firmato una lega con l’Imperatore di Costantinopoli,
col re Federigo di Sicilia, con Castruccio signore di Lucca e con la
città di Pisa. Roberto, all’incontro, avendo in Firenze ottenuta la
continuazione della signoria per altri tre anni, ebbe da questa città
l’aiuto di cento cavalieri e cinquecento fanti, con più altri che
gli vennero dalla Toscana e dalla Romagna. Gli scontri sotto Genova
erano frequenti; il Re stesso e i suoi gentiluomini battagliavano con
la spada in mano. Finalmente l’assedio fu tolto; ma ricominciava con
nuovo furore, partitosi il Re, che andò in Avignone a ritrovare il
Pontefice. Guelfi e Ghibellini si combattevano in Lombardia, dove i
Fiorentini mandarono soccorsi d’arme: i Ghibellini però sempre eran
ivi prepotenti, e soprattutti Matteo Visconti; cosicchè i Guelfi ed il
re Roberto e con essi papa Giovanni XXII, procurarono venisse in loro
aiuto di Francia Filippo nipote del re Filippo di Valois; il quale
apparve un istante, e nulla fece. Pure le forze napoletane essendosi
presso a Genova incontrate con le siciliane, queste ebbero la peggio;
talchè l’assedio fu tolto, ed ivi prevalsero il re Roberto e la parte
guelfa. Ma Castruccio, sollecitato da Matteo e dalla lega ghibellina,
aveva cominciato fin dalla primavera del 1320 la guerra contro ai
Fiorentini; la quale durò tutto quell’anno con varia fortuna, avendo
potuto i Fiorentini per alcun tempo tenere a bada Castruccio, che
accennava contro a Genova. Ma questi dipoi rinvigorito di nuova gente
che gli era scesa di Lombardia, e dimostrata la virtù sua, pigliò a
forza più castella, e ruppe in più scontri le genti nemiche, portando
la guerra con danni gravissimi e con terrore dei Fiorentini fin sotto
Fucecchio nel giugno dell’anno 1321. Il che destando gravi lagnanze
con biasimo del Gonfaloniere e de’ Priori, a questi fu aggiunto un
consiglio di dodici Buoni uomini, senza dei quali ai Priori non fosse
lecito di pigliare alcuna grave deliberazione: cotesto ordine assai
lodato rimase durevole d’allora in poi nella Repubblica.[146]


CAPITOLO VIII.
DANTE; SCRITTORI E ARTISTI SUOI CONTEMPORANEI. [AN. 1268-1322.]

Dante Alighieri nacque in Firenze l’anno 1265, d’antica e nobile
famiglia guelfa. Era quella parte in bando tuttora, e convien dire che
il padre, o almeno la madre di lui, prima degli altri fossero in patria
rimessi; senza di che non avrebbe egli potuto qui avere la _fonte_
del suo _battesmo_. Tornarono i Guelfi l’anno dipoi, ed i Ghibellini
cacciati perderono per sempre lo Stato: a questo modo l’Alighieri non
ebbe mai dalla comunanza dei dolori passioni che molto lo stringessero
a quella parte a cui di nome apparteneva, non vidde intorno a casa
sua le armi tedesche; ma con le prime voci che dentro all’animo gli
scenderono udiva compiangere al misero Corradino, e in odio venuta la
cupa superbia di Carlo d’Angiò: udiva da molti lamentare la vacanza
dell’Impero, le voglie divise, e le inferme condizioni dell’Italia;
vedeva ammontarsi già intorno le colpe della parte vincitrice. Questa
era la sua: ma dal silenzio degli storici e di Dante stesso dobbiamo
tener per certo che il padre di lui non fosse dei più fortunati a quel
banchetto, nè quella famiglia fu mai doviziosa da stare in alto per sè
medesima; e già le minori tra le nobili casate, quando anche guelfe,
aveano sul capo il nuovo popolo delle arti, che riuscì a pigliarsi
con la istituzione dei Priori in mano lo Stato, quando era il poeta
nell’adolescenza. Combatteva egli a Campaldino insieme co’ Guelfi; ma
tosto dipoi ecco essere i nobili vessati ed oppressi da leggi crudeli
e all’ozio costretti, se non rinnegassero il grado loro, ma tuttavia
sempre in patria sospetti. Si pensi ognuno quale fosse il cuore di
Dante quando egli dovette, per conformarsi ai novelli tempi, dare il
suo nome all’Arte degli Speziali.
Ma la sua vita negli anni primi fu di amatore e di poeta, che in sè
cercava come tradurre l’amore in idea; e questa educando via via con
la scienza, dare una forma a quel pensiero che già tutto ambiva in sè
comprendere l’universo. Dovea ben essere quella vita, e noi sappiamo
che fu, solitaria: poco la Repubblica e le ambizioni e le tempeste
in campo angusto lo attiravano; le sètte guardava dall’alto, e quasi
alle due parti indifferente; delle armi sue in Campaldino poco si
gloriava: scriveva d’amore, e già nella mente ferveva confuso il sacro
Poema. Per tutti quegli anni prima che fosse egli a mezzo del cammino
della vita, vedeva in Firenze, gli uomini più saggi studiarsi in più
modi a rappacificare insieme le sètte nemiche, tornando in patria gli
sbanditi; vedeva all’incontro una mano di potenti saliti dal basso,
fondare sull’odio ai Ghibellini ed ai Magnati tale uno Stato che
non sopravanzasse l’altezza loro. Coteste cose a Dante erano tanto
odiose quanto era egli appassionato, e avevano toccato il colmo quando
l’età lo condusse ad avere parte negli uffici. Fu breve l’avvolgersi
di lui nel turbine della vita pubblica: in quella portava un alto
animo, vôlto sempre a rettitudine, ed un ingegno che trascendeva i
fatti e gli uomini circostanti, e fiere passioni pronte a trasmodare
se l’ira o il dispregio o l’insofferenza le accendesse. Ma dei primi
uffici esercitati da lui sappiamo ciò solo, ch’egli ebbe col nome
d’ambasciatore l’anno 1299 dalla Repubblica una commissione al Comune
di San Gimignano: le altre supposte da taluno dei suoi biografi non
sono che favole. Tenne due mesi il Priorato; e da quella fonte (come
egli scrive) d’ogni sua miseria, usciva l’esilio che tutta d’allora
in poi mutò la sua vita. Chi voglia ad un tratto farsene ragione,
guardi la sua effigie fiorente di giovinezza come ora tornò in luce
dipinta da Giotto; poi ripensi l’altra scarna ed irosa che a tutti i
secoli diede immagine del sommo Poeta. Già era scritta la _Vita Nuova_
nell’anno suo ventisettesimo, che è il tempo in cui la giovinezza suol
farsi virile, e molte idee prima vaganti pigliano fermezza, e l’uomo
acquista più intera e più salda la coscienza di sè stesso. Morta era
Beatrice e quindi l’amore, poichè ebbe perduta l’immagine viva che
a sè lo attraeva, divenne un pensiero, voleva dal libro della _Vita
Nuova_ salire al Poema allora concetto e come uscito dalla prima
opera giovanile; all’alto disegno doveva farsi guida Beatrice stessa
celestialmente trasformata, ed egli in quest’opera tutto infondere sè
medesimo. Così nell’amore cercava egli sempre l’interezza del volere:
ma dentro all’animo trasmutabile e fuori di esso erano impedimenti
d’ogni maniera, da lui accennati e a lui solo noti; e _fosse_ gli si
_attraversavano_, e _catene_ lo stringevano. Ond’egli «volse i passi
suoi per via non vera:» sentiasi _gravate le penne in giuso_, aveva
perduto _la speranza dell’altezza_. Come egli potesse tanto _smarrire
la via diritta_, noi nol sappiamo; lo sapeva egli, e dalle grandi
altezze si fanno le grandi cadute. Si ammogliava in quelli stessi
anni alla Gemma dei Donati, famiglia come gli Alighieri di antico
lignaggio ma di piccola ricchezza; era di essa quel messer Corso senza
del quale può tenersi che non avrebbe Dante esulato, e tra’ parenti
di Gemma e quelli di Corso potevano essere inimicizie, le quali si è
visto che erano tra Donati e Donati prima dell’anno 1293. S’immischiò
allora nelle pubbliche faccende; ed ecco sull’anima cadere il ghiaccio
delle cose materiali, ed il cuore, non più di sè pago, sentire
inceppato da nuove passioni. Ma sempre al Poema come a suo rifugio
ricorreva l’intelletto, mirando a quel punto dove poesia e filosofia
stanno insieme congiunte, e verso il quale intendeva egli col viaggio
simbolico.
Dai fatti studi sempre alternati con la poesia uscirono alcune
esercitazioni filosofiche più tardi prodotte col nome di _Convito_;
doveano essere maggior numero, e di questo libro almeno una parte certo
è che fu scritta innanzi l’esilio. Pare alle volte che si annesti
con la _Vita Nuova_; e per l’andare incomposto si vede che è frutto
via via di studi non ben digeriti: quel trattato sulla nobiltà direi
scritto a conforto dell’abbassamento in che fu ridotto il ceto de’
grandi pei recenti ordini di giustizia; ma qui non è Dante acceso per
anche dalle ire di parte. Nel principio del _Convito_ con argomenti
di molto affetto si scusa d’averlo scritto in quel volgare che aveva
egli appreso fino dalla culla, e che in altro libro poco più tardi
vituperava; ma in questo mezzo l’esilio intervenne, o più veramente
la disperazione del ritorno. Avea nell’esilio e nella varietà delle
dimore sentito più vivo, e quasi direi a sè più vicino, il pensiero
dell’Italia; di questa s’era egli fatto cittadino; e la sventura sua
medesima ampliando gli abiti della vita, lo conduceva là dove la mente
godeva fermarsi, io dico al grande e all’universale. Sentiva mancare
alla nazione una lingua che tutti accettassero come signora; e scrisse
il libro _De Vulgari Eloquio_, non a vendetta contro a Firenze, ma
come colui che le incertezze o le insufficienze quanto all’uso di
questa lingua tentava risolvere, ad essa guardando come di fuori e
per dottrina e speculazione: vagante italiano, cercava un volgare
che «in nessun luogo riposasse,» tuttavia ritenendo nello scrivere
quello medesimo ch’era stato «congiugnitore de’ suoi parenti.» Ma usò
il latino in questo e nel libro della _Monarchia_, dove egli intende
chiarire e svolgere quel principio d’unità imperiale che, uscito da
Roma, aveva mille anni tenuto implicato il mondo cristiano come in
un nodo che i due capi stringessero andando per contrario verso. Qui
Dante parrebbe fatto straniero alla città sua; ma come alle ire che lui
consumavano sta in fondo l’amore, così nel concetto ideale affatto di
questo libro si accolgono dottrine che non contrastavano nè al sentire
di uomo italiano, nè a quel diritto di cittadina indipendenza che Dante
avrebbe in patria voluto a ogni costo mantenere.
Nel libro pertanto della _Monarchia_ abbiamo l’esposizione del
sistema cui Dante, è vero, s’ingegnava allora di dare coerenza per
via di sofistiche argomentazioni; ma noi crediamo da gran tempo tutto
quell’ordine di concetti stesse nel fondo del suo pensiero. L’avere
egli posto nella città e nel popolo di Roma la fonte di quel diritto
dal quale uscisse il sommo impero ed universale, non era dottrina che
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