Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 14

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popolare; scisma e discordia nacque nel campo, imperocchè il popolo
tutto voleva seguire dietro a Castruccio, e i nobili quasi tutti non
voleano. Chiedevano essere liberati dagli ordini della giustizia, o
come da loro si chiamavano, _della tristizia_;[155] la qual cosa il
popolo non acconsentendo, fu mandato a Firenze ambasciatori per la
deliberazione, se dovessero andare innanzi o ritornare in Firenze.
Si venne a consulta intorno a ciò nel palazzo del Comune: ma per non
essere modo all’accordarsi, tirando innanzi di consiglio in consiglio
senza pigliare partito; il popolo minuto ch’era di fuori, cominciando
da’ piccoli fanciulli, raunatisi in quantità innumerabile di gente,
gridando Battaglia battaglia, e Muoiano i traditori, e gittando pietre
alle finestre del palagio; fattasi notte, i signori Priori col detto
Consiglio, per tema del popolo e quasi per necessità, stanziarono
che l’esercito procedesse. Il quale moveva da Prato a Fucecchio;
ma giunti quivi in disordine, ricominciarono i lamenti, e i nobili
si rifiutavano. Però l’esercito che, accresciuto di nuovi rinforzi
mandati da Bologna e da Siena, avrebbe potuto spingere l’impresa con
suo vantaggio contro a Lucca, non avendo capitano che fosse da ciò,
tornava in Firenze senza nulla fare, con grande vergogna. Venne ad
aggiungere peggio al male, chè gli sbanditi ad istigazione di certi
nobili si accostarono a Firenze a insegne levate, credendo per forza
entrare dentro. Sentendo ciò il popolo, a suon di campane s’armò in
difesa della città; e la mattina seguente essendo tornata la cavalleria
col rimanente di quell’esercito, gli sbanditi si fuggirono; ma di lì
a poco di nuovo chiedendo essi l’osservanza della promessa che aveano
avuta solennemente dai Priori, non si trovò via per gli forti ordini
contro loro che ottenessero il ritorno.[156] Allora otto dei loro
caporali, che erano in Firenze a sicurtà per sollecitare d’essere
ribanditi, reggendo fallita la speranza, ordinarono congiura nella
città col favore di certi nobili i quali erano delle stesse loro case:
e la notte di san Lorenzo vennero alle porte della città da più parti
sessanta a cavallo e più di millecinquecento a piedi con le scuri
per tagliare la porta verso Fiesole. Del che avutosi qualche sentore
la sera innanzi, la città fu in arme e in gran tremore, dubitando il
popolo di tradimento per parte dei grandi. Ma gli sbanditi ch’erano
di fuori, veduto portare fiaccole sulle mura, e che nessuno rispondeva
loro dentro, si partirono, senz’altro fare, alla spicciolata. Volevano
allora i reggitori fare giustizia dei congiurati, ma si rimasero,
tanti n’erano colpevoli. Il grosso del popolo chiedeva a ogni modo
che giustizia si facesse; e alla fine essendo apposto ad Amerigo
Donati, a Tegghia Frescobaldi ed a Lotteringo Gherardini che avessero
acconsentito alla congiura, furono citati a comparire: confessarono
di avere sentito il trattato, ma non esservi legati; e perchè nol
palesarono a’ Priori, furono condannati ciascuno in lire 2000 e al
confine per sei mesi fuori della città e contado quaranta miglia;[157]
mite punizione, che fece il popolo mormorare.
Poco di poi gli sbanditi ai quali era stato promesso il ritorno,
l’ottennero sotto certe riserve, e con esclusione di quelli che
parvero o più colpevoli o pericolosi. Ma qui, seguitando gli interni
fatti, diremo come sulla fine di quell’anno essendo il governo dei
popolani troppo ristretto e dominato da una fazione che si chiamò dei
Serraglini, e della quale stava a capo la famiglia assai brigante dei
Bordoni, parve a’ buoni cittadini si dovesse accomunare il governo
fuori di quella fazione, ampliando il numero di coloro che risedessero
nei magistrati. E perchè nelle elezioni le brighe riuscivano a
soverchiare la volontà comune ed erano spesso cagione di scandali, e
per la brama, o quasi direi per la manìa, d’egualità che dominava nella
Repubblica fra tutte la più democratica che fosse mai; nè attentandosi
d’affrontare ogni due mesi i tumulti d’una elezione popolare e di
suffragi dati in piazza; in luogo di voti, posero la sorte; modo
novello che, mantenuto sempre dipoi, divenne costume rimasto vivo fino
ai giorni nostri e ch’io non temo di appellare funesto. Per quello
viene ad abbassarsi l’autorità dei magistrati, del che si giovano le
democrazie come i governi più assoluti; ma col decadere i magistrati
lo Stato decade, e se pericoli sopravvengano, si trova ignudo d’ogni
difesa. Fu data balìa a’ Priori di quel tempo, e ad altri dei maggiori
popolani che allora avevano magistrato, di imborsare i nomi di coloro
i quali dovessero tenere il priorato per quarantadue mesi, mischiandovi
gente che n’era esclusa da più anni: da quelle borse poi venivano ogni
due mesi tratti a sorte i nomi di quelli che volta per volta dovessero
risedere: in seguito estesero l’ordine medesimo ai dodici Buonuomini e
a’ Gonfalonieri delle compagnie, e a’ condottieri delle milizie.
Ed oltre a ciò, per assicurarsi che le compagnie armate del popolo
fossero pronte ad ogni difesa, e perchè i Gonfaloni sotto a’ quali si
radunavano parve non bastassero per ciò che erano pochi e radi, e le
case dei grandi gli tramezzavano così da impedire talvolta il subito
radunarsi; per questo posero altre insegne, alle quali i cittadini
uscendo di casa potessero correre, se alcun rumore nascesse, ed ivi
raccogliersi con sicurezza per la vicinità: chiamavano queste insegne
Pennoni, e Pennonieri i minori capi, i quali dovevano condurre ciascuno
le genti raccolte ai Gonfalonieri delle compagnie. Trentasei furono i
pennoni, divisi a due o a tre o a quattro sotto ciascuno gonfaloniere
di compagnia: tanto geloso era questo popolo, e tanto minuto nei
provvedimenti. L’anno dipoi, sembrando le borse non essere fatte con
diligenza e con libertà bastante, furono esse rivedute: non trovarono
il male grande quanto si credeva, ma pur nonostante corressero il
fatto, così che fossero imborsati quei buoni cittadini i quali ne
erano stati esclusi per le brighe dei Bordoni: e poi volendo contro
a questi severamente procedere così da estirpare quel morbo insino
dalla radice, fecero d’avere a loro modo un Esecutore degli ordini
della giustizia; e questi poi, non senza contrasto, puniva di multa e
sbandiva i principali di quella famiglia ed i maggiori loro aderenti.
Ma il guasto poi non si correggeva senza incorrere in un altro male,
perchè gli uomini forestieri cui davano giurisdizione, soventi volte ne
abusavano, siccome avvenne anche in allora: talchè avanzando un altro
gran passo in quella via tutta cittadina, e dismettendo ogni finzione
o rimembranza dei vecchi tempi e della scossa autorità imperiale,
decretarono che il Gonfaloniere co’ Priori e co’ Buonuomini potessero,
come capi e principi dello Stato, annullare il Potestà e il Capitano
e l’Esecutore che abusassero del loro ufficio; ma è da notare il modo
che tennero: non osando fare che il Gonfaloniere andasse contro alle
potestà che per antico diritto da più valevano che la sua, diedero a
lui facoltà di rimuovere quella famiglia che ciascuno dei predetti
magistrati portava seco in molto numero, e che erano la forza sua:
nulla potevano senza la famiglia loro; talchè il popolo venne così di
piatto all’intento suo, e lo stesso Potestà altro non fu da quell’ora
in poi che un mero giudice salariato.[158]
In quello stesso anno ebbero grazia dieci casate di grandi e
venticinque schiatte di nobili di contado, le quali furono recate a
popolo. Il che da molti fu biasimato,[159] perchè erano famiglie di
picciol conto; laddove molte di popolani possenti e oltraggiosi erano
degne d’essere messe tra i grandi per bene del popolo. Condizione
singolare di questa città, dove i grandi si vivevano come stranieri
nella Repubblica; e molti del popolo e sin’anche della plebe,
impinguati, dai guadagni, e spinti innanzi dagli uffici, pigliavano i
vizi o scimmieggiavano le vanità dei grandi. Del che il Sacchetti ne ha
lasciato curioso esempio dov’egli narra come «un grossolano artefice,
avendo bisogno forse per andare in castellaneria di far dipignere un
suo palvese, mandò alla bottega di Giotto, avendo chi gli portava il
palvese drieto; e giunto gli disse: Dio ti salvi, maestro; io vorrei
che mi dipignessi l’arme mia in questo palvese.» Giotto vi fece tal
dipintura ch’era una burla; e l’altro vistala, e dicendo a Giotto
male parole, questi rispose: «Tu dei essere una gran bestia, che chi
ti dicesse: chi se’ tu? appena lo sapresti dire; e giungi qui e di’:
dipignimi l’arma mia. Se tu fossi stato de’ Bardi, sarebbe bastato: che
arma porti tu? chi furono gli antichi tuoi? deh che non ti vergogni!
comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d’arma, come se tu
fossi de’ Reali di Francia.» Infine l’autore: «ogni tristo vuol far
arme e far casati; e di tali, che li loro padri saranno stati trovati
agli ospedali.[160]» A dimostrare poi quanto grande moto di ricchezze
fosse nella città di Firenze, ne basti dire che una compagnia di
cambiatori e mercatanti, quella degli Scali e degli Amieri, i quali
erano degli antichi grandi, falliva ad un tratto per quattrocentomila
fiorini d’oro, dopo essere durata oltre cento anni, tirando seco
altre buone compagnie, o rendendole sospette con grave scapito dei
commerci.[161]
Castruccio intanto continuava ferocemente la guerra che abbiamo
lasciata sotto le mura di Fucecchio, dove i Fiorentini per discordie
non si attentarono di assalirlo. Aveva egli poi cercato invano di
occupare per aspra battaglia quella terra posta a capo della inferiore
valle d’Arno e della strada verso Pistoia. Invano pure tentava,
per tradimento d’alcuni, la signoria della città di Pisa; perchè i
Pisani, del pari temendo i Fiorentini per antichi odi, e Castruccio
che gli avrebbe assoggettati alla vicina Lucca, si adoperavano in
più modi a schermirsi d’ambedue: ma trista era quella condizione; e
Pisa venuta già da molti anni in sul discendere, aveva perduto allora
appunto ogni signoria nell’isola di Sardegna venuta in mano degli
Aragonesi. Castruccio ogni dì più raccoglieva intorno a sè le maggiori
forze ghibelline; mentre Firenze dall’altro lato si muniva d’amistà
collegandosi e soccorrendo, qualora i casi ciò richiedessero, le città
guelfe della Toscana, e Orvieto e Perugia etrusche e guelfe, ed in ogni
tempo consorti e amiche a’ Fiorentini; e quelle pure della Romagna.
Fu grande l’aiuto che ad essi prestarono in quella guerra i Sanesi,
dei quali venne anche molto numero di cavalieri per generosa volontà
d’animo. Capitano era dei Fiorentini Bertramo del Balzo, chiamato
il Conte Novello, perchè non era di famiglia, ma fatto conte dal re
Roberto, e da lui mandato a’ soldi della Repubblica insieme con poche
centinaia di milizie. Avevano anche i Fiorentini assoldato Francesi
in numero di trecento; ma tardi vennero, ed a Firenze non recarono
l’aiuto che si sperava, caduti anche taluni di loro in sospetto di
tenere segrete pratiche con Castruccio. Ma tutto il nodo di quella
guerra può dirsi che fosse allora Pistoia, dove era signore un Filippo
Tedici, lungamente bramoso non d’altro che di venderla a quel maggior
prezzo che un de’ vicini gliela pagasse; e i Fiorentini per alcun
tempo l’ebbero anch’essi a discrezione, ma la perderono ad un tratto
soverchiati dalle arti e dalle armi di Castruccio.[162]
A quell’annunzio, vedendo grave e soprastante il pericolo alla città
stessa di Firenze, con grande studio si diedero a raccogliere un
esercito, che riusciva assai numeroso di cavalieri e di fanteria,
avendo prestato in tutto il corso di quella guerra opera egregia i
collegati. La spesa ammontava (secondo scrivono) a tremila fiorini
d’oro al giorno; somma incredibile a quei tempi e in territorio così
angusto: ma le gravezze di nuovo imposte si pagavano alacremente
dai cittadini, che difendevano sè medesimi e da sè stessi le
amministravano. E perchè il Conte Novello si era mostrato poco esperto
della guerra, e da star male a petto di un tanto avveduto capitano qual
era Castruccio, in sua vece elessero il catalano Raimondo da Cardona,
sperimentato nelle guerre di Lombardia, nelle quali però sempre fu
egli infelice, ed allora usciva dalla prigionia in cui lo tennero i
Visconti. Andava questi a porsi a campo sotto Pistoia, invano tentando
con ogni artifizio smuovere Castruccio, il quale così pertinace in
aspettare com’era pronto nell’assalire quando l’occasione fosse buona,
si tenne chiuso dentro le mura. Per il che il Cardona avendo preso
migliore partito, e sottrattosi per via di strattagemmi alla vigilanza
di Castruccio, andò a gettarsi con tutta l’oste dall’altra banda di
quei poggi, i quali dividono dalla pianura di Pistoia la valle d’Arno;
e avendo espugnato il ponte a Cappiano, passato il fosso della Gusciana
ed occupato Montefalcone, andò a porsi all’Altopascio, che in pochi
giorni se gli arrese, di là minacciando Lucca stessa, e pronto ad ogni
combattimento. Ma se quella mossa parve essere di buon augurio, male
risposero gli accorgimenti del capitano quando il nemico gli stava a
fronte, e mancò l’arte dell’accamparsi. Una prima battaglietta lasciava
in forse la vittoria; se non che il campo rimasto a Castruccio, a
lui diede quell’onore che è per sè stesso una grande forza: e intanto
l’oste de’ Fiorentini scemava per morbi in quei terreni impaludati,
correndo l’agosto; e oltreciò si disse, che il Cardona lasciasse per
moneta partirsi dal campo i soldati; e che l’esercito al combattere si
trovasse dimezzato. Castruccio pativa travagli consimili: ma intanto
scendeva dalla Lombardia per dargli aiuto Azzo Visconti con ottocento
Tedeschi; ed egli indugiava sinchè giungessero, e stava lì fermo con
mirabile costanza, ed intratteneva con fallaci negoziati l’imprudenza
del Cardona. Giungeva Azzo, ma prima di combattere mercanteggiava; nè
si sarebbe forse egli mosso quand’era d’uopo, se al giovanile animo
di lui non facevano assalto grande la moglie stessa di Castruccio e
le più belle donne di Lucca, a lui deputate perchè dell’avarizia si
vergognasse. Usciva infine egli da Lucca, e diede dentro animosamente
quando la pugna era cominciata; la quale voltatasi non senza molto
contrasto in favore di Castruccio, ottenne questi vittoria piena,
massimamente perchè era egli stato molto sollecito d’intercettare tutti
i passi ai nemici che fuggivano; cosicchè il numero dei prigionieri
sopravanzò quello dei morti: e gli effetti riuscirono ai Fiorentini
anche peggiori della stessa rotta, che fu ai 23 settembre 1325. Oltre
a buon numero di cavalieri toscani, rimasero presi in quei fatti il
capitano Raimondo da Cardona col figlio suo, ed Urlimbacca tedesco,
uomo di grande valore ed assai caro ai Fiorentini; e con più altri
francesi Piero di Narsi, del quale un figlio giovinetto fu morto;
ed egli liberato dalla prigionia, ebbe dipoi la trista sorte che in
appresso racconteremo. Castruccio fu detto che avesse del riscatto di
tanti illustri prigionieri ben centomila fiorini d’oro.[163] Abbiamo
la lista dei feditori, e poi quella dei prigionieri caduti in mano di
Castruccio per quella battaglia; dopo la quale più non si trova che i
cittadini di Firenze andassero di persona in grande numero alle guerre.
Nè indugiò guari il vincitore, che scese rapido e terribile alla volta
di Firenze. Ripigliate le tolte castella, che tosto disfece, poneva
assedio a Carmignano; e senza aspettare la resa di quello, invadeva
Signa, che per viltà dei soldati bentosto cedette. Ed egli padrone
oramai di quella ricca e popolata pianura che sta intorno alla città
dalle due parti dell’Arno, percorsala tutta partitamente in più giorni
e quasi a disegno di bene ordinata distruzione, dopo avere lasciato ai
soldati campo alle rapine dei ricchi mobili e degli arnesi ond’erano
piene le ville e le chiese ed i monasteri decorati dalla pietà dei
cittadini, cominciò a disfare le ville stesse e gli edificii. Cosicchè
tutto lo spazio il quale è dai poggi di Colombaia e di Marignolle e di
Giogoli infino a quelli che soprastanno a Careggi, ed a piè del monte
infino a Sesto e a Calenzano, e quanto egli più poteva intorno alla
città, tutto fu arso o devastato: fu danno gravissimo anche di opere
che avevano pregio eccellente per l’arte, la pittura avendo già formato
scuola in Firenze di chiari artefici, ed i cittadini compiacendosi
adornare co’ dipinti le case loro ed i monasteri. Azzo Visconti veniva
poi a vendicare l’ingiuria sofferta quando i Fiorentini pochi anni
innanzi avevano corso un palio intorno alle mura di Milano; e venne
Azzo a solo fine di correre un palio presso alle mura di Firenze
al ponte a Rifredi, siccome tre altri ne aveva Castruccio corsi a
Monticelli; che uno di cavalli, l’altro di fanti e il terzo di femmine
meretrici: e in onta pure dei Fiorentini, a Signa dove egli aveva posto
il campo suo, fece battere moneta d’oro. I Fiorentini a quei danni e
a quelle depredazioni non si mossero, com’è solito delle città ricche,
le quali temono più che ardiscano: e pure Firenze era gremita di gente
ivi rifuggita da ogni parte della vicina campagna; ma non fecero, pel
troppo ingombro, altro che produrre malattie e morti che furono in
città più numerose di quelle che avrebbono incontrate combattendo.
Si aggiungeva, che le mura lasciavano spazi tuttora aperti, di poco
avendo cominciato a cingere il sesto d’oltrarno; il che serviva molto
ad accrescere il terrore: era questo il terzo cerchio della città che
via via si ampliava. Castruccio dipoi tornato a Lucca, volle onorare
a modo antico le sue vittorie, e conduceva trionfo splendido, egli
preceduto da lunga fila di prigionieri, i quali andavano con torchietti
accesi a fare offerta a san Martino, da lui prescelto nuovo patrono
alla città. E di lì subito si riconduceva intorno a Firenze, ponendo
assedio a Montemurlo e continuando le devastazioni; le quali così dai
primi giorni d’ottobre durarono sino al finire di quell’anno ed anche
all’entrare del successivo 1326, per lo spazio di più mesi.
In tali angustie dei Fiorentini, abbiamo documento che richiamarono,
facendone cerna molto rigorosa, non pochi di quelli uomini o famiglie
i quali avessero avuto condanna per causa di parte o anche di private
nimicizie, sebbene fossero veri Guelfi.[164] Temevano anche di
tradimento; e a quelle famiglie che avevano prigionieri alcuni dei
loro nelle mani di Castruccio, stanziarono fosse vietato il governo
dei castelli, con farle inabili agli uffici che più importassero alla
guerra. Cresceva terrore il sospetto che Guido Tarlati dei signori di
Pietramala, vescovo d’Arezzo, muovendo dall’opposta parte, venisse a
compiere la ruina; ma questi, geloso della grandezza di Castruccio,
si tenne fermo nella provincia sua, contento recare ai Fiorentini non
gravi danni, che profittassero a lui solo. E questi, sebbene allora
messi a sì dure strette, quel che potevano per moneta sempre operavano
francamente; e col nemico alle porte loro diedero aiuto ai Bolognesi in
certa guerra di Lombardia: quindi posero altre gabelle, e le riscossero
in grande somma. Ma tuttociò non bastando, e caduti un’altra volta
nella consueta necessità di ricorrere a signoria forestiera, concessero
questa negli ultimi giorni del dicembre a Carlo duca di Calabria
figlio primogenito del re Roberto, facendo a lui condizioni anche più
larghe di quelle che erane usate: doveva egli tenere al servigio de’
Fiorentini mille cavalli oltramontani, ed essi pagare a lui per dieci
anni della signoria duecentomila fiorini d’oro all’anno finchè durasse
la guerra, e centomila in tempo di pace. Co’ Fiorentini erano dunque
Spagnuoli, Francesi ed inclusive Tedeschi, essendo soliti i cavalieri
di quella età porsi al servizio di chiunque gli facesse battagliare:
Castruccio aveva seco Tedeschi ed Inglesi e Borgognoni, taluni dei
quali avendo contro lui ordito congiura, egli con fiero animo, ed in
presenza di tutto il campo, ad essi fece mozzare il capo. Tornava
dipoi una terza volta nel febbraio intorno Firenze, e smantellata
Signa che non gli serviva, fortificò Carmignano che egli voleva fare
sedia della guerra; corse la valle di Pesa fino a San Casciano ogni
cosa distruggendo, e con audace proponimento voleva chiudere l’Arno
nella Golfolina per indi allagare l’odiata città: ma trovò essere
ciò impossibile. Tirato quindi per falsi complici dentro un aguato
Piero di Narsi, che prigione liberato da Castruccio poi capitano de’
Fiorentini gli aveva tramata la morte, fece a lui mozzare il capo come
traditore delle onorate leggi della milizia. Furono allora Castruccio
ed il Vescovo d’Arezzo percossi dal Papa di nuova scomunica; il quale
però non volle bandire contro ad essi la crociata, benchè richiesto dai
Fiorentini; bensì eleggeva il re Roberto vicario in Italia dell’Impero
che in Allemagna era vacante. Da Napoli veniva allora in Firenze con la
prima mano di soldati il francese Gualtieri di Brienne duca d’Atene,
che poi vedremo troppo famoso nelle istorie nostre. E nei giorni
ultimi del luglio 1326 giungeva lo stesso Duca di Calabria, con la
Duchessa sua moglie figlia di Carlo di Valois, e con Giovanni principe
della Morea suo zio che aveva anch’esso la moglie, e con Filippo
despòto di Romania suo cugino, e con molta baronia di varie nazioni;
in tutto duemila cavalieri, dei quali duecento erano a spron d’oro:
si aggiungeva poi la corte del Cardinale Legato, venuto anch’egli
nei giorni stessi. Ingente spesa alla città, ed ai costumi molto gran
guasto recarono quelle corti forestiere, con grave lamento dei timorati
popolani che a noi trasmisero questi fatti.[165] Leggi frequenti,
e sempre inutili, tentavano porre un qualche freno agli adornamenti
ed allo sfoggiare delle donne: ora i Francesi, grandi vagheggiatori,
ottennero dalla Duchessa di Calabria si abolissero quelle leggi; e
le donne imbaldanzite viepiù sfrenarono negli addobbi: coteste erano
le _valenti donne_ magnificate poi dal Boccaccio e fatte celebri nel
_Decamerone_.
Tanto numero di assoldati, e gli aiuti che man mano venivano dalle
città guelfe di Toscana, e le cerne di milizie che si facevano
nel contado, allontanarono da Firenze la guerra portata allora da
Castruccio in Lunigiana; dove i marchesi Malaspina, da lui spossessati,
se gli volgevano contro con fresche armi di Lombardia. Continuava essa
più mesi senza gran frutto, poichè Castruccio, solenne maestro, la
sosteneva com’era solito animosamente. Piaceva al Duca di Calabria più
che il combattere starsi a Firenze in largo vivere: aveva tolto egli
per sè anche il diritto di nominare i magistrati della Repubblica, ed
annullando le imborsazioni vecchie, faceva eleggere chi a lui piacesse:
fu tra gli altri Gonfaloniere un della casa degli Acciaioli, già bene
affetta ai re di Napoli. Ma in ciò mostrava egli buon giudizio, che
i cittadini delle famiglie grandi facendo pratiche perchè fosse a lui
data signoria libera, la rifiutava, ben conoscendo la forza vera della
città stare nel popolo, e che meglio era farselo amico volonteroso che
averlo suddito malcontento. Altre città e non poche terre di Toscana
s’erano a lui date; e Prato in perpetuo, ch’era il più prossimo a
Firenze: inoltre Carlo teneva Siena e grande stato da quella parte;
in Roma aveva potenti amici, e più altri in Genova che lo seguitavano:
così da Napoli fino alla Provenza, che apparteneva al re Roberto, ogni
cosa era in soggezione di questo capo di parte guelfa: Parma e Bologna
si erano date al Legato del Pontefice, che in Italia guerreggiava.
Dal che venuti in apprensione grande i Ghibellini, s’appigliarono dal
canto loro a quel partito che era ad essi consueto, chiamando in Italia
questa volta non le forze ma la persona ed il nome dell’Imperatore di
Germania. Era questi Lodovico di Baviera, salito all’Impero per lungo
contrasto, ma in esso mal fermo, e svogliato dell’Italia perchè, non
avendo sue forze proprie, gli conveniva stare quasi a discrezione di
quei vassalli dei quali era egli poco altro che un mercenario. Venuto
a Trento, si radunarono intorno ad esso i Visconti di Milano con gli
Scaligeri di Verona e co’ signori di Mantova e co’ Marchesi da Este,
e gli ambasciatori di Federigo re di Sicilia e di Castruccio, e quanti
erano fuorusciti ghibellini da ogni parte d’Italia. Vi andò il Vescovo
d’Arezzo, dal quale fu poi l’Imperatore incoronato a Milano come re di
Lombardia; e quel Vescovo scomunicato si rivolgeva contro al Papa, che
dai Ghibellini radunati venne deposto e chiamato eretico.
Mentre avvenivano tali cose, e che il Bavaro intorno a sè raccoglieva
quante forze a lui prestassero gl’Italiani, in Toscana il Duca di
Calabria intendeva con la guerra ad infestare Castruccio, e in Lucca
stessa gli suscitava contro una potente congiura, bentosto repressa e
ferocemente gastigata. Una mossa vigorosa dell’esercito dei Fiorentini
aveva intanto miglior successo, imperocchè Santa Maria in Monte, allora
tenuta come il più forte castello il quale fosse nella Toscana, a un
tratto investita con fiero assalto, dovette cedere alle armi guelfe,
stando Castruccio sulle difese intorno a Lucca finchè il Bavaro non
giungesse, ed aspettando maggiori cose. Gli andava incontro sino a
Pontremoli con grande pompa di accoglienze; quindi con forze riunite,
nei primi giorni del settembre 1327, vennero a porre l’assedio a
Pisa; la quale, benchè fosse antica ghibellina, temeva Castruccio ed
aborriva sopra ogni cosa dal sottostare alla vicina Lucca. Era nel
campo il Vescovo d’Arezzo, anch’egli pauroso di quella grandezza a cui
vedeva salire costui quando egli avesse acquistato Pisa. Tantochè, dopo
avere inutilmente cercato gli accordi, quando egli vidde l’Imperatore
entrato in Pisa e seco quell’uomo dal quale ogni cosa dipendeva, si
partì cruccioso, e in pochi giorni venne a morte, prima di giungere in
Arezzo. Rimane di lui nella chiesa cattedrale di quella città un molto
splendido monumento, dove con belle sculture sono effigiate le profane
imprese di lui, coi nomi di molte castella espugnate.
Il Bavaro intanto, il quale non volle per allora dare Pisa parendogli
essere città da smugnere poi da vendere quandochè fosse, a caro prezzo;
venuto a Lucca, insignì Castruccio facendolo Duca di questa città;
nuovo titolo nè ad altri dato in Italia sino allora dagli Imperatori
d’Allemagna: poi venne seco fino a Pistoia, da dove Castruccio gli
mostrò Firenze, invano studiandosi fargli aggradire quella impresa.
Al Bavaro invece premeva quella del Regno, e prima l’andare in Roma
a farsi incoronare. Castruccio dovette di male animo seguitarlo,
costretto da quella necessità che rendeva inabile ogni capo ghibellino
ad acquistarsi una grandezza tutta sua propria e nazionale. Nè meglio
fruttava agli Imperatori la corona ch’essi venivano a cercare in Roma,
e meno d’ogni altra la falsa corona che il Bavaro si fece imporre
sul capo da un suo antipapa, con vana pompa e poco seguito e favore.
Moveva quindi inverso Napoli; ed a quell’annunzio si partiva nei
giorni ultimi del dicembre da Firenze il Duca di Calabria chiamato dal
padre, e qui lasciando un suo vicario. Ma non potè il Bavaro tentare
l’impresa del Regno, imperocchè essendo venuto a Castruccio subito
avviso che la città a lui tanto cara di Pistoia, sorpresa per grande
notturno assalto dai Fiorentini, era caduta in mano di questi e posta
a sacco per dieci giorni; egli, senz’altro discorrere,[166] lasciata
Roma e seguitato da tutto il nerbo delle sue genti, per la via della
Maremma venne a Pisa; e considerato quello essere tempo e necessità da
gettar via ogni riguardo verso l’Imperatore, e che alla recuperazione
di Pistoia gli abbisognava far capitale di tutta Pisa, pigliava in
mano il dominio libero della città, recando a sè tutte le entrate e
gabelle del Comune e gravandola di nuove taglie: al che il Bavaro fu
costretto a mal suo grado di consentire. E Castruccio, venuto il dì
ultimo del maggio 1328 a porre con la persona sua l’assedio a Pistoia,
combattè per oltre due mesi la città contro al Vicario del Duca ed
al Maliscalco della Chiesa, con grande fatica d’opere d’assedio e
molti scontri con gli inimici; i quali tentato inutilmente di fargli
abbandonare l’impresa col minacciarlo essi dalla banda di Pisa e di
Lucca, e in lui trovata contra ogni insulto quella costanza che gli
era solita, infine lo viddero sotto agli occhi loro stessi entrare
a patti nella città rimasta vuota di provvigioni. Di lì anelava
all’impresa di Firenze, essendosi il Bavaro digià accostato fino a
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