Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 10
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figlio di Corso e nipote di Niccolò dal lato di madre, che avea seco
alcuni amici a cavallo. Simone allora spinto da infernale pensiero lo
insegue, lo assale, lo rovescia da cavallo e lo uccide segandogli le
vene; perchè messer Niccolò abbandonato da’ suoi, che solo pensano a
scampare il figlio, non s’aspettava ciò dal nipote. Ma non andò questi
senza punizione, perchè l’assalito gli avea menato un colpo mortale in
un fianco, del quale Simone anch’egli spirava la notte seguente nella
chiesa di San Piero. Prima di morire, pentito pregava il padre ed i
suoi si rappacificassero co’ Cerchi. Grande fu il lutto di messer Corso
per la morte di quel giovane: egli era il primo di Firenze per cortesia
e valore, in lui ogni speranza del padre e della casata. Il Valois
intanto era andato in Roma a domandare danari al Papa; ma questi gli
rispose: io ti aveva mandato alle fonti dell’oro; se non ti sei cavato
la sete, tuo danno.
Chi guardi addentro in queste brutture, dirà le fazioni averne avuto la
prima colpa, Carlo ed il Papa l’odiosità, rei sopra ogni altro quelli
che trassero nella patria loro un principe forestiero con la sua corte
e le masnade; dirà il contegno del Valois quale potevasi attendere
da un venturiero, errore grave di Bonifazio in quei fatti essersi
ingerito. Cercava riunire in un sol fascio la parte guelfa; e al più
ambizioso dei pontefici doveva gradire l’idea vagheggiata da molti
suoi predecessori, di farsi arbitro della Toscana: ma infine Bonifazio
VIII, come aveano fatto Gregorio X e Niccolò III, mandò un legato a
fare opera di conciliazione; ed il Cardinale d’Acquasparta, se prima
aveva protetto i Neri, gli avversò poi quando le violenze più atroci
stettero dalla parte loro. Dante accusava il principe francese presente
e complice, quando egli fu bandito; e con le roventi parole ond’egli
macchiò Bonifazio, gli fece peggio che non gli facesse in Anagni più
tardi il fratello di questo Valois. Quali motivi personali avesse
Dante a sì fiero odio contro a Bonifazio, quel che avvenisse mentre
egli rimase in Roma ambasciatore o nella dimora che ivi protrasse
fino al gennaio dell’anno seguente, noi non sappiamo. L’esiglio non
venne a lui dal Papa, ma in quel tempo tra loro due qualcosa d’oscuro
dovette nascere, che da un lato accese in patria contro lui tante ire,
dall’altro gli aveva confitte nel cuore di quelle offese che sono dure
a ricordare, ma vendicarle pareva dolce all’iroso animo del poeta.
In quei giorni venne a luce una congiura, o vera o falsa che fosse,
della parte bianca con un certo barone francese chiamato Pier Ferrante
di Linguadoca[111] per ammazzare Carlo di Valois tornato allora in
Firenze. Laonde questi, radunato la notte un consiglio segreto di pochi
cittadini, trattò con essi di prendere certi creduti colpevoli e fare
loro mozzare il capo. Mandarono subito a cercare due Adimari padre e
figlio e Manetto Scali: ne andarono in traccia nei contorni di Firenze,
forando con ferri anco la paglia dei letti; ma non si trovarono, perchè
del consiglio taluni si erano allontanati a procurare che i nominati
nell’accusa avessero agio allo scampo. Giano de’ Cerchi figlio di
Vieri, sostenuto nel palagio da Carlo per averne danari, ebbe modo
di fuggire: i beni di tutti questi andarono al Comune, dal quale ebbe
Carlo ventiquattromila fiorini d’oro. Continuarono le condanne tutto
il tempo che il Valois dimorò in Firenze, e fu insino ai 4 d’aprile,
essendo allora Potestà messer Cante dei Gabbrielli da Gubbio, uno
di quei cavalieri i quali vennero dietro a Carlo; e si protrassero
le condanne anche poi nei seguenti mesi. Tra’ condannati fu Dante
Alighieri: abbiamo la prima sentenza contro lui e tre altri, data ai
27 gennaio, per la quale era egli dannato a pagare cinquemila fiorini
d’oro ed al confine. Dante era di Roma venuto in Siena, dove lo colse
la prima sentenza; la quale, per non essere egli comparso in giudizio,
fu aggravata con altro bando, che a’ 10 marzo ordinava gli fossero
tolti gli averi, disfatte le case ed egli stesso bruciato vivo qualora
avesse rotto il confine: fu poi compreso in quella condanna generale
che si trova pronunziata il giorno stesso della partenza di Carlo. Per
questa Cante de’ Gabbrielli condannava di nuovo le antiche famiglie
dei grandi ghibellini, e sbandiva e confinava molti dei Cerchi, dei
Cavalcanti e degli Scali, ed alcuni degli Adimari e dei Mozzi, e uomini
d’ogni qualità e grado, in tutto seicento, dei quali i nomi a noi
rimangono.[112] Tra questi era ser Petracco di Parenzo dall’Incisa,
stato cancelliere della Repubblica e notaio delle Riformagioni, cui
nacque in esilio Francesco Petrarca. Da prima richiesti e non comparsi,
ebbero da Cante de’ Gabbrielli condanna, per la quale andarono
stentando la vita per lo mondo chi in qua e chi in là. Furono i beni
loro messi in comune, le case disfatte;[113] e delle pietre di quelle
si trova che fossero edificate le nuove mura della città di Firenze:
non gli salvarono parentele antiche o recenti maritaggi. Dipoi, mentre
andavano i Fiorentini e i Lucchesi contro a Pistoia difesa francamente
da uno degli Uberti, in Firenze per altre carnificine altri erano
sostenuti e torturati e decollati. Il che più volte si ripeteva nel
seguente anno 1303, Folcieri da Calboli essendo in Firenze Potestà, e
potentissimo presso i Neri messer Musciatto Franzesi ricco banchiere
fiorentino, principale uomo presso i re di Francia.[114]
CAPITOLO VI.
PACE TENTATA DAL CARDINALE NICCOLÒ DA PRATO. — INCENDIO IN FIRENZE. —
ASSALTO DEI FUORUSCITI. — MORTE DI CORSO DONATI. [AN. 1303-1308.]
Il governo di Firenze per la cacciata dei Bianchi era venuto alle mani
di quelle famiglie, sia di grossi mercatanti o sia di nobili fatti
popolani, che si appellavano Guelfi neri e si tenevano Guelfi puri.
Capi erano di quella parte i Della Tosa e i Brunelleschi, famiglie di
grandi, e Geri Spini gran mercatante e i Pazzi, diversi verisimilmente
o separati da quei di Valdarno: v’erano di grandi i Buondelmonti,
i Pulci, i Tornaquinci, i Bardi, i Rossi, i Nerli e parte dei
Gianfigliazzi e dei Frescobaldi. Vi erano di quelle famiglie di grossi
mercanti che primeggiarono dipoi sempre nella città e con altre sorte
dal popolo via via formarono la nobiltà nuova, Magalotti, Mancini,
Peruzzi, Antellesi, Baroncelli, Acciaiuoli, Alberti, Strozzi, Ricci,
Albizzi, Rucellai, Altoviti, Aldobrandini, Bordoni, Cambi, Medici,
Giugni ed altri. Corso Donati era con essi e soprastava per alto animo,
per grandi fatti e grande seguito; più ambizioso che partigiano, male
soffriva consorteria, ed era egli uno di quegli uomini che fanno il
male tutt’ad un tratto, ma poi sdegnano le basse arti ed i raggiri
delle fazioni. La schiatta e l’indole e i costumi lo inclinavano verso
i grandi; «pratico e domestico di nobili uomini e famoso per tutta
Italia;[115]» amato era anche dall’intima plebe usata vivere nella
dipendenza dei grandi signori, e che più ha in odio le mezzanità.
Quei nuovi uomini la opprimevano con gli smodati balzelli, e perfino
si diceva che alterassero le farine e molto avessero guadagnato su’
prezzi del grano venuto da fuori per la carestia che fu in quegli
anni; cosicchè il grido era, che si rivedessero le ragioni del Comune.
Corso Donati aveva seco Lottieri vescovo di Firenze, consorto ma
nemico a messer Rosso Della Tosa, che aveva lo Stato; e così la parte
contraria ebbe nome di parte del Vescovo, la quale cercava col mutare
il reggimento, rimettere i Bianchi. Al modo solito era guerra in
molti luoghi della città: furono armate le torri, ed in su quelle del
vescovado stava rizzata una manganella per gittare ai vicini. Corso
andò una volta in arme con molti all’assalto del palagio; durava la
zuffa più giorni. Era il febbraio del 1304, e grave pericolo avrebbe
corso la città se il Comune non avesse mandato per aiuto ai Lucchesi, i
quali subito vennero a Firenze in grande numero popolani e cavalieri.
Fu data loro piena balía, ed essi la esercitarono per sedici giorni,
finchè a certi Fiorentini essendone parso male e grande oltraggio ed
offesa, ciò diede occasione a nuovi ripetii:[116] con tuttociò le cose
quietarono per allora, e fu eletta la Signoria nuova.
Era morto Bonifazio VIII dell’insulto avuto in Anagni per mandato
di Filippo il Bello re di Francia, e del quale era stato orditore
Musciatto Franzesi dal suo castello di Staggia presso Poggibonsi. Il
nuovo papa Benedetto XI con buona intenzione mandò in Firenze paciere
il cardinale Niccolò da Prato dell’ordine de’ Predicatori, uomo a que’
tempi assai rinomato e d’origine ghibellino. Giunse egli nel marzo, ed
ebbe dal popolo balía per un anno con l’autorità di potere costringere
i cittadini alla pace, la quale fu fatta da principio con grande
festa e suonare le campane; ma non però tutti la volevano. Il vero
popolo la desiderava; ma i grassi popolani e i grandi che reggevano
lo Stato, forte temevano il ritorno dei fuorusciti fatti ribelli, dei
quali occupavano le possessioni. Il Cardinale rinnovò l’ordine delle
Compagnie armate del popolo, come erano state a tempo degli Anziani:
rimase quell’ordine e fu maggior forza alla parte popolare. Di più,
egli fece venire quattordici fra i caporali dei fuorusciti bianchi e
ghibellini per trattare con loro d’accordo: venuti, alloggiarono in
casa i Mozzi dove stavano rinchiusi da sbarre per non essere offesi:
i Ghibellini di dentro aveano frattanto levata la testa, e alcuni di
plebe furono visti baciare le armi degli Uberti. I Guelfi erano tra sè
divisi: ma taluni dei principali fecero di nascosto dire ai quattordici
caporali che si partissero, perchè altrimenti avrebbero il grosso
del popolo contro; e quelli sgombrarono. Dopo di che il Cardinale fu
consigliato fare una mossa inverso Pistoia, e rappacificare quella
terra sempre più feroce d’ogni altra nelle parti cittadine. Ma trovò
gli animi troppo duri; e a Prato istessa patria sua i Guazzalotri che
ivi dominavano, istigati dai reggitori di Firenze, se gli voltarono
contro e cacciarono i parenti di lui che sdegnato bandiva la croce
addosso a Prato. Faceva poi da Firenze muovere le armi contr’essa;
ma quella radunata di milizie diede nuovi sospetti, ed egli essendo
minacciato in casa e veggendo fallato lo scopo cui era venuto,
si partiva di Firenze ai 4 giugno, dopo avere dannato i cittadini
all’interdetto.
In mezzo a queste perturbazioni un fatto lugubre aveva lasciato molto
gli animi atterriti. A festeggiare il Cardinale da Prato, che era in
amore dei cittadini quando speravano per suo mezzo d’avere concordia,
si fecero per calendimaggio a gara l’una contrada dell’altra le usate
allegrezze, «come al buon tempo antico.» Infra gli altri, quelli di
Borgo san Frediano pensarono un gioco, ma odioso molto e spaventevole:
mandarono un bando che chiunque volesse sapere novelle dell’altro mondo
dovesse quel dì essere in sul ponte alla Carraia e d’intorno all’Arno:
quivi su barche e navicelli avevano fatta come una figura dell’inferno
con fuochi ed altre sembianze di tormenti, e uomini contraffatti a
demoni orribili a vedere e anime ignude messe a quei martorii con
tempesta di strida grandissime. Era il ponte alla Carraia allora di
legname da pila a pila; talchè per la gente che vi trasse si caricò
tanto, che rovinò in più parti e cadde con quelli che v’erano sopra.
Molti vi annegarono o si guastarono le persone, molti (come per beffa
era ito il bando) andarono morti a sapere novelle dell’altro mondo, con
grande pianto e dolore di tutta la città, che ognuno credette avervi
perduto il figlio o il fratello.[117]
Per le paci fatte dal Cardinale da Prato erano tornati e rimanevano
in Firenze alcuni dei Bianchi; tornarono quelli che professavano
mantenersi Guelfi, il che volea dire stare col popolo delle Arti e non
permettere che i grandi rompessero gli ordini posti contro a loro. Si
trovò pertanto, partito appena il Cardinale, grande in Firenze la possa
dei Cavalcanti, dei Gherardini e dei Cerchi: di questi, Vieri pare non
fosse tornato in Firenze. Andò in Arezzo dopo l’esiglio e pubblicò
avviso, che chiunque avesse ad avere da lui, mandasse là e sarebbe
pagato cortesemente: dicesi che pagò più di 80 mila fiorini.[118]
Ma la fortezza dei ritornati era nelle case dei Cavalcanti presso a
Mercato Nuovo, dove oltre a quelle che abitava la famiglia loro assai
numerosa, molte ne avevano all’intorno; e i quattordici caporali
prima di partirsi aveano fatto consiglio di ridursi in quelle case
dei Cavalcanti e quindi combattere. Ma non furono voluti ricevere,
perch’era tra essi uno degli Uberti con altri spacciati Ghibellini,
ed i Cavalcanti anch’essi odiavano quella parte. Ora dunque di là
cominciava la mischia: non fece alcuna mossa Corso Donati perchè era
infermo di gotta, e per lo sdegno preso contro ai capi della parte
nera. I Medici e i Giugni primi assalirono i Bianchi: ma questi, bene
sostenuta la battaglia, prevalsero tanto co’ loro seguaci, che si
distesero per Mercato Vecchio fino a San Giovanni senza contrasto. Era
cresciuta ad essi la forza dalla città e dal contado; molta gente del
basso popolo gli seguiva, e i Ghibellini per la meglio si accostavano
a loro: di campagna erano venuti quei da Volognano signori di castella,
co’ loro amici; si disse, più di mille fanti. Pareano allora i Neri sul
punto d’essere cacciati, quando ser Neri Abati, priore di San Piero
Scheraggio, quello che noi già vedemmo gridato reo d’avvelenamento,
parente a quel Bocca traditore che avea fatto cadere a terra in Monte
Aperti la bandiera guelfa, per accordo fatto co’ Neri appiccò il fuoco
alle case di altri Abati: era fuoco lavorato, a quel che dissero; ed
in altri luoghi da altri fu appiccato nel tempo stesso. Le fiamme in
poco d’ora da Mercato Vecchio si estesero in Calimala; e con empito e
furia col conforto della tramontana, e per l’alimento che loro porse la
fusione di certe immagini di cera appese alla nostra Donna ch’era nella
loggia di Orto San Michele, in quel giorno distrussero oltre le case
degli Abati quelle dei Caponsacchi, degli Adimari, Toschi, Lamberti,
e moltissime altre; non che le botteghe di drappi di Calimala, tutte
quelle attorno a Mercato Vecchio sino a Mercato Nuovo, e le case dei
Cavalcanti, dei Gherardini, dei Pulci, degli Amidei, degli Amieri.
L’incendio si distese da Vacchereccia per la strada di Por Santa Maria
fino al Ponte Vecchio: giunse fin presso al Palagio della Signoria,
distrusse quello del Capitano e la torre dov’era la campana, che ruinò
con grande fracasso. Il danno di arnesi, tesori e mercatanzie fu senza
misura, perchè in quei luoghi erano quasi tutte le merci e cose care di
Firenze. Inoltre la città fu posta a ruba dagli armati, poichè mentre
le case ardevano si combatteva in più parti. I malandrini pubblicamente
correvano tra le fiamme rapinando ciò che potevano arraffare; nè alcuno
attentavasi a ridomandare il suo, chè ognuno paventava di peggio, e
tutti tremavano. Il Potestà con molti soldati venne in Mercato Nuovo,
ma non fece alcuna difesa, nè prestò aiuto: guardavano il fuoco,
e standosi a cavallo davano impedimento ai pedoni e a chi tentava
soccorrere. In quel giorno, che fu a’ 10 di giugno 1304, si trova
che oltre a 1700 case fossero guaste: erano anguste generalmente,
molte famiglie avendo più case attigue pei figli che via via si
ammogliavano.[119]
Per quell’incendio furono abbassate molto le antiche famiglie le quali
tenevano il primo cerchio, o (come scrivono) il _midollo_ e _torlo_,
della città di Firenze, quasi tutto arso e devastato. Nè credo io per
questo che un pensiero neroniano spingesse con animo deliberato la
nuova gente a disfare il nido dove buon numero degli antichi grandi
avevano stanza; ma certo è che allora ogni signoria di nobili può dirsi
che fosse interamente diradicata, e i nuovi ordini assodati. Dentro
alle città ed in Firenze massimamente erano come due campi nemici:
molto importava la postura dei caseggiati dove le schiatte viveano co’
loro consorti ed attorniate dai loro dipendenti, difese da torri che
si guardavano l’una l’altra così fattamente che la vicinanza spesso
faceva nascere le amicizie come le inimicizie; certi quasi direi punti
strategici atti al difendersi o all’aggredire faceano la forza d’alcune
famiglie. Quegli tra i grandi che vennero ultimi si posero oltrarno; e
possenti pei commerci, e uniti tra loro, vedremo più tardi che guerra
facessero. Ma qui nel centro del primo cerchio erano le case di molti
più vecchi e già scaduti signori, in mezzo a cui stavano alcuni dei più
recenti che si avevano procacciata grandezza col farsi Guelfi. I più di
questi erano divenuti Bianchi; e primi tra essi rimaneano i Gherardini,
grandissimi in contado; e soprattutti i Cavalcanti,[120] perchè oltre
a’ castelli e alle possessioni aveano gran numero di case in Firenze:
quindi è che l’assalto andò contro a loro più direttamente. Aveano
essi da principio voluto correre e metter fuoco alle case dei nemici,
ma la parte loro gli ritenne. Patirono danni maggiori d’ogni altro per
la molta entrata di pigioni che aveano in quel luogo frequentatissimo
di botteghe, e furono con gli altri fatti ribelli dopo al fuoco. Del
popolo molti aveano patito gravissimi danni, ma nulla fu a petto della
gran percossa ch’ebbero i nobili; i quali divisi tra loro, non che
provarsi in quel disfacimento a rompere gli ordini della giustizia,
ciascuna parte s’abbracciò col popolo per mantenersi quanto oramai
fosse possibile in istato. E qui, anticipando di poco i tempi, diremo
altre ruine dei Cavalcanti; i quali essendosi afforzati in certi loro
castelli di Val di Greve e di Val di Pesa (che uno, il più forte, avea
nome delle Stinche), il popolo uscito gli assaltò e disfece; e perchè
i prigionieri menati in Firenze furono chiusi dentro ad un carcere
di nuovo fabbricato, questo pigliò nome di carcere delle _Stinche_;
nome che durava fino ai giorni nostri. Feroci tempi, nei quali vivere
più non sapevano in città divisa altro che vinti nella oppressione, o
vincitori con prepotenza; quindi la parte troppo sovente stava in luogo
della patria, che pure amandola disfacevano a solo fine di possederla,
o costretti erano di abbandonarla.
Fin qui esponemmo le sorti dei Bianchi tornati in Firenze perchè
volevano rimanere Guelfi: rifacendoci ora un poco indietro, diremo
degli altri. Dopo l’esilio i fuorusciti, avuto in Siena dubbioso
favore, s’erano la maggior parte raccolti in Arezzo, città ghibellina
e che aveva per Potestà un uomo molto possente e riputato nella
sua parte, Uguccione della Faggiola, signorotto d’uno tra’ castelli
frequenti allora nei più alti gioghi dell’Appennino. Quivi dimorarono
oltre ad un anno i fuorusciti, e sotto l’ombra di Uguccione essendosi
data forma di governo regolare, elessero loro capitano Alessandro da
Romena dei conti Guidi, e intorno a lui dodici consiglieri, uno dei
quali fu Dante. Ma si era Uguccione in quel tempo rappacificato col
papa Bonifazio VIII; laonde i Bianchi d’Arezzo fecero capo a Scarpetta
degli Ordelaffi, signore in Forlì, che aiutandosi d’una Lega possente
in Romagna avea messo insieme quattro mila fanti e settecento cavalli;
ai quali aggiugnendosi i fuorusciti, deliberarono insieme uno sforzo
contro la Toscana. Aveano per loro gli Ubaldini di Mugello; nel
quale entrati assalirono il castello di Puliciano, ma con successo
infelicissimo, perchè molti dei loro essendo morti o presi, questi
ultimi ebbero iniquo supplizio dal crudele Potestà dei Fiorentini;
i quali avevano rinnovata contro ai ribelli la taglia o lega con gli
amici Guelfi di Toscana.[121]
In questo mezzo, quattordici della parte dominatrice in Firenze erano
stati da Benedetto XI citati a comparire in Perugia dinanzi a lui, per
quivi purgarsi della rifiutata pace e delle minaccie fatte al Cardinale
da Prato e dell’incendio. Corso Donati, benchè si fosse tenuto di
mezzo, andò con essi; andarono messer Rosso della Tosa, Geri Spini,
Betto Brunelleschi ed altri, con grande accompagnamento: ma sopravvenne
la morte di quel buon Pontefice; di che fu gran pianto, e uscirono
gravi e lunghi danni alla cristianità. Intanto però i fuorusciti,
pigliato animo dallo sdegno del Papa contro ai Caporali di Firenze
e dalla assenza di questi, s’erano acconciati co’ Ghibellini di Pisa
e con Tolosato degli Uberti che era Capitano allora in Pistoia. Gli
Uberti, rubelli da quarant’anni della patria loro e che non aveano
quivi trovato mercede nè misericordia, non s’abbassarono però mai,
e fuori tennero grande stato praticando con re e con signori quanto
potevano per la parte loro.[122] Si erano i Pisani avanzati fino a
Marti; muovea Tolosato da Pistoia con trecento cavalieri; quei di
Forlì, capitanati dal Baschiera dei Tosinghi,[123] giovane ardito che
avea seco 1200 uomini d’arme a cavallo e molti aiuti di Bolognesi,
Romagnuoli, Aretini, scendendo giù per l’Appennino, inopinatamente
furono alla Lastra sopra Montughi presso a Firenze due miglia. Nella
città era malferma ogni cosa: i reggitori, non sapendo bene quali
avessero amici o nemici, diceano parole umili, e spargevano essere
giusto richiamare gli sbanditi. Se quei della Lastra facevano impeto,
entravano forse nella città sprovveduta, dalla quale erano taluni
usciti a confortarli facessero presto. Ma indugiarono quella notte
per aspettare l’Uberti, che da Pistoia veniva per l’Alpe co’ suoi
cavalieri e molti soldati a piede. Poichè non lo vedevano comparire,
allo spuntare del giorno 20 luglio, il Baschiera dei Tosinghi, vinto
da volontà più che da ragione, come giovane, vedendosi con bella
gente, si cacciò innanzi ed entrò nei borghi di San Gallo senza
contrasto, chè allora non erano fatte le mura nuove nè i fossi, e
le vecchie, schiuse e rotte in più parti. Ruppero un serraglio, del
quale gli Aretini trassero il chiavistello e per dispetto portato ad
Arezzo lo posero nella loro maggior chiesa. I Bolognesi erano rimasti
alla Lastra, forse perchè a’ Guelfi ch’erano tra loro non piacea
l’impresa. Ma gli entrati, che furono oltre a 1200 cavalieri con molto
popolo di contadini che gli avevan seguitati, si schierarono in sul
Cafaggio presso alla chiesa dei Servi e fino a quella di San Marco,
con le insegne bianche spiegate e con le spade ignude e rami d’ulivo
gridando Pace. Il caldo era grande, sicchè parea che l’aria ardesse,
e il luogo mancante d’acqua per loro e pe’ cavalli. Alcuni de’ più
bramosi fuorusciti venuti alla Porta che si chiamava degli Spadai,
la ruppero, entrando con parte della loro gente fino presso alla
piazza di San Giovanni: e se la schiera grossa gli seguitava, quel dì
avrebbono avuto vittoria: imperocchè molti nella città gli aspettavano:
ma poichè seppero che insieme con gli usciti Guelfi bianchi era gran
forza di Ghibellini di Toscana e fuori, nemici antichi della città,
si mutarono per odio di quel nome e per temenza d’essere poi cacciati
e rubati, se in loro favore si fossero discoperti. Cotesti più degli
altri si mostrarono vivi alla difesa per non parere colpevoli; e così
forse dugento cavalieri e cinquecento pedoni raccoltisi intorno a San
Giovanni rispingeano fuori della porta gli avversari, quando avvenne
che ardesse per fuoco messovi un palagio presso alla porta; e il fuoco
cresceva. Quelli della schiera grossa rimasti in Cafaggio si crederono
traditi, e già fiaccati dalla sferza del sole e dalla sete, e avendo
sentito che i Bolognesi al primo annunzio di mala riuscita si erano
partiti dalla Lastra; tutti si misero in fuga, gettando l’armi senza
assalto o caccia di cittadini, che quasi non uscirono loro dietro.
Tolosato degli Uberti scontrati in Mugello i primi fuggenti cercò
ritenerli, ma fu invano. Nella disordinata fuga, molti trafelarono, e
molti presi furono impiccati nella piazza di San Gallo e sugli alberi
per la via. Tale fine ebbe quella impresa, dopo alla quale i fuorusciti
si dispersero tra’ Ghibellini cercando rifugio. La sorte istessa toccò
a Dante, sebbene dobbiamo tenere per certo non essere egli venuto con
gli altri contro a Firenze,[124] biasimando quella mossa, e fin da
principio avendo tenuto in piccola stima i Bianchi, tra’ quali gli
accadde avvolgersi perchè i contrari gli parevano essere peggiori.
Disdegnò il nome di ghibellino ed a sè fece parte da sè stesso, non
avendo egli dove posare, in mezzo ad un secolo insano e sconvolto, la
vita misera nè il pensiero.
Pistoia era sempre in mano dei Bianchi o piuttosto dei Ghibellini; e
Tolosato degli Uberti, che n’era Capitano, avea favore dagli Aretini
e dai Pisani e dai Bolognesi. Laonde i Fiorentini co’ Lucchesi
deliberarono di muovere contro a Pistoia grande guerra; ma la città
essendo ben munita di mura e di fossi, pigliaron partito di tenerla
stretta per assedio buona pezza. Dipoi elessero loro capitano a
quella impresa Roberto duca di Calabria primogenito del re Carlo
secondo di Napoli; e quegli nel mese d’aprile 1305 venne in Firenze
con molta baronia di cavalieri Aragonesi e Catalani a quivi pigliare
il bastone del comando. S’accendeva la guerra allora viepiù feroce:
i Pistoiesi uscendo fuori veniano spesso alle mani co’ nemici; nella
città era difetto di viveri; i governatori della terra mandavano fuori
fanciulli e poveri e donne di bassa condizione, ma gli assedianti
facevano agli uomini tagliare i piedi e alle femmine smozzicare il
naso. Gli usciti di Pistoia che conosceano le donne dei loro nemici,
più imbestiavano nel vituperarle; ma il Duca molte ne difese, maggior
pietà essendo negli uomini di guerra che nei parteggianti. Clemente
V, che era successo a Benedetto XI, persuaso dal Cardinal da Prato,
mandò in Firenze nel mese di settembre due suoi Legati a comandare si
levasse l’oste da Pistoia sotto pena di scomunica; e tosto il Duca
partitosi dall’assedio, si recò in Francia dove il Papa dimorava:
ma i Fiorentini disubbidirono al comandamento. Crescevano intanto le
difficoltà e le spese, per il che ordinarono una gravezza o taglia,
che si chiamò la Sega, sopra i Ghibellini o Bianchi, i quali dovevano
pagare ogni dì tanto per testa; chi tre lire, chi due, chi una, secondo
che parea loro potesse ciascuno sopportare; fossero al confine o in
città rimasti, doveano pagarla. E a tutti i padri che aveano figli
atti alle armi imposero altra taglia, se questi tra venti dì non si
appresentassero nell’oste. Molti contadini furono costretti militare
senza soldo. Fra queste miserie passò l’inverno. Ai Pistoiesi, ridotti
agli estremi, speranza sola era la disperazione; quando accostatosi
alla città il cardinale Napoleone degli Orsini legato del Papa, i
Fiorentini si consigliavano finalmente venire ai patti. Pistoia si
arrese il 10 aprile 1306, salve le persone. I vincitori guastarono le
muraglie della città, che erano bellissime; il contado andò diviso
tra’ Fiorentini e i Lucchesi, i quali partirono tra loro altresì la
signoria di Pistoia; chè i primi vi mandarono il Potestà, e i secondi
il Capitano. L’esercito tornò a Firenze, dove coi festeggiamenti
consueti fu celebrata una vittoria tardi acquistata e crudamente.[125]
Allora voltatisi a fortificarsi contro gli Ubaldini, perpetui nemici
che teneano l’Appennino con molte castella e infestavano il Mugello,
ruinarono la loro principal sede in Monte Accianico, fabbricando a
petto a questa una nuova terra che si chiamò della Scarperia, rifugio
e fortezza agli uomini del contado che prima stavano sotto a quei
signori.
Per queste vittorie, e perchè la guerra pone sempre in più alto grado
coloro ai quali spetta il governarla, parendo ai gelosi popolani
di Firenze che i loro grandi e possenti uomini troppo venissero in
baldanza, attesero a dare con nuove riforme più forza al popolo,
e ordinarono in miglior guisa le compagnie o milizie cittadine,
che rifatte dal Cardinale da Prato, aveano sempre per loro insegne
quelle delle Arti: ma ottennero adesso Gonfaloni loro propri, donde
nacque l’ordine dei Gonfalonieri di compagnie, d’allora in poi
tenuti dei primi ufficiali dello Stato: fu aggiunto alle insegne
il rastrello del re Carlo. Era in Firenze come in ogni altra città
libera il Potestà, cui s’apparteneva il diritto della spada, e nel
cui nome tuttora s’intitolavano gli atti pubblici, perchè egli solo
rappresentava, ma quasi per via di una legale finzione, l’imperiale
potestà, messa da parte, ma formalmente non mai abolita nei governi
popolari. Però scemava ogni giorno più l’autorità di quel magistrato,
alcuni amici a cavallo. Simone allora spinto da infernale pensiero lo
insegue, lo assale, lo rovescia da cavallo e lo uccide segandogli le
vene; perchè messer Niccolò abbandonato da’ suoi, che solo pensano a
scampare il figlio, non s’aspettava ciò dal nipote. Ma non andò questi
senza punizione, perchè l’assalito gli avea menato un colpo mortale in
un fianco, del quale Simone anch’egli spirava la notte seguente nella
chiesa di San Piero. Prima di morire, pentito pregava il padre ed i
suoi si rappacificassero co’ Cerchi. Grande fu il lutto di messer Corso
per la morte di quel giovane: egli era il primo di Firenze per cortesia
e valore, in lui ogni speranza del padre e della casata. Il Valois
intanto era andato in Roma a domandare danari al Papa; ma questi gli
rispose: io ti aveva mandato alle fonti dell’oro; se non ti sei cavato
la sete, tuo danno.
Chi guardi addentro in queste brutture, dirà le fazioni averne avuto la
prima colpa, Carlo ed il Papa l’odiosità, rei sopra ogni altro quelli
che trassero nella patria loro un principe forestiero con la sua corte
e le masnade; dirà il contegno del Valois quale potevasi attendere
da un venturiero, errore grave di Bonifazio in quei fatti essersi
ingerito. Cercava riunire in un sol fascio la parte guelfa; e al più
ambizioso dei pontefici doveva gradire l’idea vagheggiata da molti
suoi predecessori, di farsi arbitro della Toscana: ma infine Bonifazio
VIII, come aveano fatto Gregorio X e Niccolò III, mandò un legato a
fare opera di conciliazione; ed il Cardinale d’Acquasparta, se prima
aveva protetto i Neri, gli avversò poi quando le violenze più atroci
stettero dalla parte loro. Dante accusava il principe francese presente
e complice, quando egli fu bandito; e con le roventi parole ond’egli
macchiò Bonifazio, gli fece peggio che non gli facesse in Anagni più
tardi il fratello di questo Valois. Quali motivi personali avesse
Dante a sì fiero odio contro a Bonifazio, quel che avvenisse mentre
egli rimase in Roma ambasciatore o nella dimora che ivi protrasse
fino al gennaio dell’anno seguente, noi non sappiamo. L’esiglio non
venne a lui dal Papa, ma in quel tempo tra loro due qualcosa d’oscuro
dovette nascere, che da un lato accese in patria contro lui tante ire,
dall’altro gli aveva confitte nel cuore di quelle offese che sono dure
a ricordare, ma vendicarle pareva dolce all’iroso animo del poeta.
In quei giorni venne a luce una congiura, o vera o falsa che fosse,
della parte bianca con un certo barone francese chiamato Pier Ferrante
di Linguadoca[111] per ammazzare Carlo di Valois tornato allora in
Firenze. Laonde questi, radunato la notte un consiglio segreto di pochi
cittadini, trattò con essi di prendere certi creduti colpevoli e fare
loro mozzare il capo. Mandarono subito a cercare due Adimari padre e
figlio e Manetto Scali: ne andarono in traccia nei contorni di Firenze,
forando con ferri anco la paglia dei letti; ma non si trovarono, perchè
del consiglio taluni si erano allontanati a procurare che i nominati
nell’accusa avessero agio allo scampo. Giano de’ Cerchi figlio di
Vieri, sostenuto nel palagio da Carlo per averne danari, ebbe modo
di fuggire: i beni di tutti questi andarono al Comune, dal quale ebbe
Carlo ventiquattromila fiorini d’oro. Continuarono le condanne tutto
il tempo che il Valois dimorò in Firenze, e fu insino ai 4 d’aprile,
essendo allora Potestà messer Cante dei Gabbrielli da Gubbio, uno
di quei cavalieri i quali vennero dietro a Carlo; e si protrassero
le condanne anche poi nei seguenti mesi. Tra’ condannati fu Dante
Alighieri: abbiamo la prima sentenza contro lui e tre altri, data ai
27 gennaio, per la quale era egli dannato a pagare cinquemila fiorini
d’oro ed al confine. Dante era di Roma venuto in Siena, dove lo colse
la prima sentenza; la quale, per non essere egli comparso in giudizio,
fu aggravata con altro bando, che a’ 10 marzo ordinava gli fossero
tolti gli averi, disfatte le case ed egli stesso bruciato vivo qualora
avesse rotto il confine: fu poi compreso in quella condanna generale
che si trova pronunziata il giorno stesso della partenza di Carlo. Per
questa Cante de’ Gabbrielli condannava di nuovo le antiche famiglie
dei grandi ghibellini, e sbandiva e confinava molti dei Cerchi, dei
Cavalcanti e degli Scali, ed alcuni degli Adimari e dei Mozzi, e uomini
d’ogni qualità e grado, in tutto seicento, dei quali i nomi a noi
rimangono.[112] Tra questi era ser Petracco di Parenzo dall’Incisa,
stato cancelliere della Repubblica e notaio delle Riformagioni, cui
nacque in esilio Francesco Petrarca. Da prima richiesti e non comparsi,
ebbero da Cante de’ Gabbrielli condanna, per la quale andarono
stentando la vita per lo mondo chi in qua e chi in là. Furono i beni
loro messi in comune, le case disfatte;[113] e delle pietre di quelle
si trova che fossero edificate le nuove mura della città di Firenze:
non gli salvarono parentele antiche o recenti maritaggi. Dipoi, mentre
andavano i Fiorentini e i Lucchesi contro a Pistoia difesa francamente
da uno degli Uberti, in Firenze per altre carnificine altri erano
sostenuti e torturati e decollati. Il che più volte si ripeteva nel
seguente anno 1303, Folcieri da Calboli essendo in Firenze Potestà, e
potentissimo presso i Neri messer Musciatto Franzesi ricco banchiere
fiorentino, principale uomo presso i re di Francia.[114]
CAPITOLO VI.
PACE TENTATA DAL CARDINALE NICCOLÒ DA PRATO. — INCENDIO IN FIRENZE. —
ASSALTO DEI FUORUSCITI. — MORTE DI CORSO DONATI. [AN. 1303-1308.]
Il governo di Firenze per la cacciata dei Bianchi era venuto alle mani
di quelle famiglie, sia di grossi mercatanti o sia di nobili fatti
popolani, che si appellavano Guelfi neri e si tenevano Guelfi puri.
Capi erano di quella parte i Della Tosa e i Brunelleschi, famiglie di
grandi, e Geri Spini gran mercatante e i Pazzi, diversi verisimilmente
o separati da quei di Valdarno: v’erano di grandi i Buondelmonti,
i Pulci, i Tornaquinci, i Bardi, i Rossi, i Nerli e parte dei
Gianfigliazzi e dei Frescobaldi. Vi erano di quelle famiglie di grossi
mercanti che primeggiarono dipoi sempre nella città e con altre sorte
dal popolo via via formarono la nobiltà nuova, Magalotti, Mancini,
Peruzzi, Antellesi, Baroncelli, Acciaiuoli, Alberti, Strozzi, Ricci,
Albizzi, Rucellai, Altoviti, Aldobrandini, Bordoni, Cambi, Medici,
Giugni ed altri. Corso Donati era con essi e soprastava per alto animo,
per grandi fatti e grande seguito; più ambizioso che partigiano, male
soffriva consorteria, ed era egli uno di quegli uomini che fanno il
male tutt’ad un tratto, ma poi sdegnano le basse arti ed i raggiri
delle fazioni. La schiatta e l’indole e i costumi lo inclinavano verso
i grandi; «pratico e domestico di nobili uomini e famoso per tutta
Italia;[115]» amato era anche dall’intima plebe usata vivere nella
dipendenza dei grandi signori, e che più ha in odio le mezzanità.
Quei nuovi uomini la opprimevano con gli smodati balzelli, e perfino
si diceva che alterassero le farine e molto avessero guadagnato su’
prezzi del grano venuto da fuori per la carestia che fu in quegli
anni; cosicchè il grido era, che si rivedessero le ragioni del Comune.
Corso Donati aveva seco Lottieri vescovo di Firenze, consorto ma
nemico a messer Rosso Della Tosa, che aveva lo Stato; e così la parte
contraria ebbe nome di parte del Vescovo, la quale cercava col mutare
il reggimento, rimettere i Bianchi. Al modo solito era guerra in
molti luoghi della città: furono armate le torri, ed in su quelle del
vescovado stava rizzata una manganella per gittare ai vicini. Corso
andò una volta in arme con molti all’assalto del palagio; durava la
zuffa più giorni. Era il febbraio del 1304, e grave pericolo avrebbe
corso la città se il Comune non avesse mandato per aiuto ai Lucchesi, i
quali subito vennero a Firenze in grande numero popolani e cavalieri.
Fu data loro piena balía, ed essi la esercitarono per sedici giorni,
finchè a certi Fiorentini essendone parso male e grande oltraggio ed
offesa, ciò diede occasione a nuovi ripetii:[116] con tuttociò le cose
quietarono per allora, e fu eletta la Signoria nuova.
Era morto Bonifazio VIII dell’insulto avuto in Anagni per mandato
di Filippo il Bello re di Francia, e del quale era stato orditore
Musciatto Franzesi dal suo castello di Staggia presso Poggibonsi. Il
nuovo papa Benedetto XI con buona intenzione mandò in Firenze paciere
il cardinale Niccolò da Prato dell’ordine de’ Predicatori, uomo a que’
tempi assai rinomato e d’origine ghibellino. Giunse egli nel marzo, ed
ebbe dal popolo balía per un anno con l’autorità di potere costringere
i cittadini alla pace, la quale fu fatta da principio con grande
festa e suonare le campane; ma non però tutti la volevano. Il vero
popolo la desiderava; ma i grassi popolani e i grandi che reggevano
lo Stato, forte temevano il ritorno dei fuorusciti fatti ribelli, dei
quali occupavano le possessioni. Il Cardinale rinnovò l’ordine delle
Compagnie armate del popolo, come erano state a tempo degli Anziani:
rimase quell’ordine e fu maggior forza alla parte popolare. Di più,
egli fece venire quattordici fra i caporali dei fuorusciti bianchi e
ghibellini per trattare con loro d’accordo: venuti, alloggiarono in
casa i Mozzi dove stavano rinchiusi da sbarre per non essere offesi:
i Ghibellini di dentro aveano frattanto levata la testa, e alcuni di
plebe furono visti baciare le armi degli Uberti. I Guelfi erano tra sè
divisi: ma taluni dei principali fecero di nascosto dire ai quattordici
caporali che si partissero, perchè altrimenti avrebbero il grosso
del popolo contro; e quelli sgombrarono. Dopo di che il Cardinale fu
consigliato fare una mossa inverso Pistoia, e rappacificare quella
terra sempre più feroce d’ogni altra nelle parti cittadine. Ma trovò
gli animi troppo duri; e a Prato istessa patria sua i Guazzalotri che
ivi dominavano, istigati dai reggitori di Firenze, se gli voltarono
contro e cacciarono i parenti di lui che sdegnato bandiva la croce
addosso a Prato. Faceva poi da Firenze muovere le armi contr’essa;
ma quella radunata di milizie diede nuovi sospetti, ed egli essendo
minacciato in casa e veggendo fallato lo scopo cui era venuto,
si partiva di Firenze ai 4 giugno, dopo avere dannato i cittadini
all’interdetto.
In mezzo a queste perturbazioni un fatto lugubre aveva lasciato molto
gli animi atterriti. A festeggiare il Cardinale da Prato, che era in
amore dei cittadini quando speravano per suo mezzo d’avere concordia,
si fecero per calendimaggio a gara l’una contrada dell’altra le usate
allegrezze, «come al buon tempo antico.» Infra gli altri, quelli di
Borgo san Frediano pensarono un gioco, ma odioso molto e spaventevole:
mandarono un bando che chiunque volesse sapere novelle dell’altro mondo
dovesse quel dì essere in sul ponte alla Carraia e d’intorno all’Arno:
quivi su barche e navicelli avevano fatta come una figura dell’inferno
con fuochi ed altre sembianze di tormenti, e uomini contraffatti a
demoni orribili a vedere e anime ignude messe a quei martorii con
tempesta di strida grandissime. Era il ponte alla Carraia allora di
legname da pila a pila; talchè per la gente che vi trasse si caricò
tanto, che rovinò in più parti e cadde con quelli che v’erano sopra.
Molti vi annegarono o si guastarono le persone, molti (come per beffa
era ito il bando) andarono morti a sapere novelle dell’altro mondo, con
grande pianto e dolore di tutta la città, che ognuno credette avervi
perduto il figlio o il fratello.[117]
Per le paci fatte dal Cardinale da Prato erano tornati e rimanevano
in Firenze alcuni dei Bianchi; tornarono quelli che professavano
mantenersi Guelfi, il che volea dire stare col popolo delle Arti e non
permettere che i grandi rompessero gli ordini posti contro a loro. Si
trovò pertanto, partito appena il Cardinale, grande in Firenze la possa
dei Cavalcanti, dei Gherardini e dei Cerchi: di questi, Vieri pare non
fosse tornato in Firenze. Andò in Arezzo dopo l’esiglio e pubblicò
avviso, che chiunque avesse ad avere da lui, mandasse là e sarebbe
pagato cortesemente: dicesi che pagò più di 80 mila fiorini.[118]
Ma la fortezza dei ritornati era nelle case dei Cavalcanti presso a
Mercato Nuovo, dove oltre a quelle che abitava la famiglia loro assai
numerosa, molte ne avevano all’intorno; e i quattordici caporali
prima di partirsi aveano fatto consiglio di ridursi in quelle case
dei Cavalcanti e quindi combattere. Ma non furono voluti ricevere,
perch’era tra essi uno degli Uberti con altri spacciati Ghibellini,
ed i Cavalcanti anch’essi odiavano quella parte. Ora dunque di là
cominciava la mischia: non fece alcuna mossa Corso Donati perchè era
infermo di gotta, e per lo sdegno preso contro ai capi della parte
nera. I Medici e i Giugni primi assalirono i Bianchi: ma questi, bene
sostenuta la battaglia, prevalsero tanto co’ loro seguaci, che si
distesero per Mercato Vecchio fino a San Giovanni senza contrasto. Era
cresciuta ad essi la forza dalla città e dal contado; molta gente del
basso popolo gli seguiva, e i Ghibellini per la meglio si accostavano
a loro: di campagna erano venuti quei da Volognano signori di castella,
co’ loro amici; si disse, più di mille fanti. Pareano allora i Neri sul
punto d’essere cacciati, quando ser Neri Abati, priore di San Piero
Scheraggio, quello che noi già vedemmo gridato reo d’avvelenamento,
parente a quel Bocca traditore che avea fatto cadere a terra in Monte
Aperti la bandiera guelfa, per accordo fatto co’ Neri appiccò il fuoco
alle case di altri Abati: era fuoco lavorato, a quel che dissero; ed
in altri luoghi da altri fu appiccato nel tempo stesso. Le fiamme in
poco d’ora da Mercato Vecchio si estesero in Calimala; e con empito e
furia col conforto della tramontana, e per l’alimento che loro porse la
fusione di certe immagini di cera appese alla nostra Donna ch’era nella
loggia di Orto San Michele, in quel giorno distrussero oltre le case
degli Abati quelle dei Caponsacchi, degli Adimari, Toschi, Lamberti,
e moltissime altre; non che le botteghe di drappi di Calimala, tutte
quelle attorno a Mercato Vecchio sino a Mercato Nuovo, e le case dei
Cavalcanti, dei Gherardini, dei Pulci, degli Amidei, degli Amieri.
L’incendio si distese da Vacchereccia per la strada di Por Santa Maria
fino al Ponte Vecchio: giunse fin presso al Palagio della Signoria,
distrusse quello del Capitano e la torre dov’era la campana, che ruinò
con grande fracasso. Il danno di arnesi, tesori e mercatanzie fu senza
misura, perchè in quei luoghi erano quasi tutte le merci e cose care di
Firenze. Inoltre la città fu posta a ruba dagli armati, poichè mentre
le case ardevano si combatteva in più parti. I malandrini pubblicamente
correvano tra le fiamme rapinando ciò che potevano arraffare; nè alcuno
attentavasi a ridomandare il suo, chè ognuno paventava di peggio, e
tutti tremavano. Il Potestà con molti soldati venne in Mercato Nuovo,
ma non fece alcuna difesa, nè prestò aiuto: guardavano il fuoco,
e standosi a cavallo davano impedimento ai pedoni e a chi tentava
soccorrere. In quel giorno, che fu a’ 10 di giugno 1304, si trova
che oltre a 1700 case fossero guaste: erano anguste generalmente,
molte famiglie avendo più case attigue pei figli che via via si
ammogliavano.[119]
Per quell’incendio furono abbassate molto le antiche famiglie le quali
tenevano il primo cerchio, o (come scrivono) il _midollo_ e _torlo_,
della città di Firenze, quasi tutto arso e devastato. Nè credo io per
questo che un pensiero neroniano spingesse con animo deliberato la
nuova gente a disfare il nido dove buon numero degli antichi grandi
avevano stanza; ma certo è che allora ogni signoria di nobili può dirsi
che fosse interamente diradicata, e i nuovi ordini assodati. Dentro
alle città ed in Firenze massimamente erano come due campi nemici:
molto importava la postura dei caseggiati dove le schiatte viveano co’
loro consorti ed attorniate dai loro dipendenti, difese da torri che
si guardavano l’una l’altra così fattamente che la vicinanza spesso
faceva nascere le amicizie come le inimicizie; certi quasi direi punti
strategici atti al difendersi o all’aggredire faceano la forza d’alcune
famiglie. Quegli tra i grandi che vennero ultimi si posero oltrarno; e
possenti pei commerci, e uniti tra loro, vedremo più tardi che guerra
facessero. Ma qui nel centro del primo cerchio erano le case di molti
più vecchi e già scaduti signori, in mezzo a cui stavano alcuni dei più
recenti che si avevano procacciata grandezza col farsi Guelfi. I più di
questi erano divenuti Bianchi; e primi tra essi rimaneano i Gherardini,
grandissimi in contado; e soprattutti i Cavalcanti,[120] perchè oltre
a’ castelli e alle possessioni aveano gran numero di case in Firenze:
quindi è che l’assalto andò contro a loro più direttamente. Aveano
essi da principio voluto correre e metter fuoco alle case dei nemici,
ma la parte loro gli ritenne. Patirono danni maggiori d’ogni altro per
la molta entrata di pigioni che aveano in quel luogo frequentatissimo
di botteghe, e furono con gli altri fatti ribelli dopo al fuoco. Del
popolo molti aveano patito gravissimi danni, ma nulla fu a petto della
gran percossa ch’ebbero i nobili; i quali divisi tra loro, non che
provarsi in quel disfacimento a rompere gli ordini della giustizia,
ciascuna parte s’abbracciò col popolo per mantenersi quanto oramai
fosse possibile in istato. E qui, anticipando di poco i tempi, diremo
altre ruine dei Cavalcanti; i quali essendosi afforzati in certi loro
castelli di Val di Greve e di Val di Pesa (che uno, il più forte, avea
nome delle Stinche), il popolo uscito gli assaltò e disfece; e perchè
i prigionieri menati in Firenze furono chiusi dentro ad un carcere
di nuovo fabbricato, questo pigliò nome di carcere delle _Stinche_;
nome che durava fino ai giorni nostri. Feroci tempi, nei quali vivere
più non sapevano in città divisa altro che vinti nella oppressione, o
vincitori con prepotenza; quindi la parte troppo sovente stava in luogo
della patria, che pure amandola disfacevano a solo fine di possederla,
o costretti erano di abbandonarla.
Fin qui esponemmo le sorti dei Bianchi tornati in Firenze perchè
volevano rimanere Guelfi: rifacendoci ora un poco indietro, diremo
degli altri. Dopo l’esilio i fuorusciti, avuto in Siena dubbioso
favore, s’erano la maggior parte raccolti in Arezzo, città ghibellina
e che aveva per Potestà un uomo molto possente e riputato nella
sua parte, Uguccione della Faggiola, signorotto d’uno tra’ castelli
frequenti allora nei più alti gioghi dell’Appennino. Quivi dimorarono
oltre ad un anno i fuorusciti, e sotto l’ombra di Uguccione essendosi
data forma di governo regolare, elessero loro capitano Alessandro da
Romena dei conti Guidi, e intorno a lui dodici consiglieri, uno dei
quali fu Dante. Ma si era Uguccione in quel tempo rappacificato col
papa Bonifazio VIII; laonde i Bianchi d’Arezzo fecero capo a Scarpetta
degli Ordelaffi, signore in Forlì, che aiutandosi d’una Lega possente
in Romagna avea messo insieme quattro mila fanti e settecento cavalli;
ai quali aggiugnendosi i fuorusciti, deliberarono insieme uno sforzo
contro la Toscana. Aveano per loro gli Ubaldini di Mugello; nel
quale entrati assalirono il castello di Puliciano, ma con successo
infelicissimo, perchè molti dei loro essendo morti o presi, questi
ultimi ebbero iniquo supplizio dal crudele Potestà dei Fiorentini;
i quali avevano rinnovata contro ai ribelli la taglia o lega con gli
amici Guelfi di Toscana.[121]
In questo mezzo, quattordici della parte dominatrice in Firenze erano
stati da Benedetto XI citati a comparire in Perugia dinanzi a lui, per
quivi purgarsi della rifiutata pace e delle minaccie fatte al Cardinale
da Prato e dell’incendio. Corso Donati, benchè si fosse tenuto di
mezzo, andò con essi; andarono messer Rosso della Tosa, Geri Spini,
Betto Brunelleschi ed altri, con grande accompagnamento: ma sopravvenne
la morte di quel buon Pontefice; di che fu gran pianto, e uscirono
gravi e lunghi danni alla cristianità. Intanto però i fuorusciti,
pigliato animo dallo sdegno del Papa contro ai Caporali di Firenze
e dalla assenza di questi, s’erano acconciati co’ Ghibellini di Pisa
e con Tolosato degli Uberti che era Capitano allora in Pistoia. Gli
Uberti, rubelli da quarant’anni della patria loro e che non aveano
quivi trovato mercede nè misericordia, non s’abbassarono però mai,
e fuori tennero grande stato praticando con re e con signori quanto
potevano per la parte loro.[122] Si erano i Pisani avanzati fino a
Marti; muovea Tolosato da Pistoia con trecento cavalieri; quei di
Forlì, capitanati dal Baschiera dei Tosinghi,[123] giovane ardito che
avea seco 1200 uomini d’arme a cavallo e molti aiuti di Bolognesi,
Romagnuoli, Aretini, scendendo giù per l’Appennino, inopinatamente
furono alla Lastra sopra Montughi presso a Firenze due miglia. Nella
città era malferma ogni cosa: i reggitori, non sapendo bene quali
avessero amici o nemici, diceano parole umili, e spargevano essere
giusto richiamare gli sbanditi. Se quei della Lastra facevano impeto,
entravano forse nella città sprovveduta, dalla quale erano taluni
usciti a confortarli facessero presto. Ma indugiarono quella notte
per aspettare l’Uberti, che da Pistoia veniva per l’Alpe co’ suoi
cavalieri e molti soldati a piede. Poichè non lo vedevano comparire,
allo spuntare del giorno 20 luglio, il Baschiera dei Tosinghi, vinto
da volontà più che da ragione, come giovane, vedendosi con bella
gente, si cacciò innanzi ed entrò nei borghi di San Gallo senza
contrasto, chè allora non erano fatte le mura nuove nè i fossi, e
le vecchie, schiuse e rotte in più parti. Ruppero un serraglio, del
quale gli Aretini trassero il chiavistello e per dispetto portato ad
Arezzo lo posero nella loro maggior chiesa. I Bolognesi erano rimasti
alla Lastra, forse perchè a’ Guelfi ch’erano tra loro non piacea
l’impresa. Ma gli entrati, che furono oltre a 1200 cavalieri con molto
popolo di contadini che gli avevan seguitati, si schierarono in sul
Cafaggio presso alla chiesa dei Servi e fino a quella di San Marco,
con le insegne bianche spiegate e con le spade ignude e rami d’ulivo
gridando Pace. Il caldo era grande, sicchè parea che l’aria ardesse,
e il luogo mancante d’acqua per loro e pe’ cavalli. Alcuni de’ più
bramosi fuorusciti venuti alla Porta che si chiamava degli Spadai,
la ruppero, entrando con parte della loro gente fino presso alla
piazza di San Giovanni: e se la schiera grossa gli seguitava, quel dì
avrebbono avuto vittoria: imperocchè molti nella città gli aspettavano:
ma poichè seppero che insieme con gli usciti Guelfi bianchi era gran
forza di Ghibellini di Toscana e fuori, nemici antichi della città,
si mutarono per odio di quel nome e per temenza d’essere poi cacciati
e rubati, se in loro favore si fossero discoperti. Cotesti più degli
altri si mostrarono vivi alla difesa per non parere colpevoli; e così
forse dugento cavalieri e cinquecento pedoni raccoltisi intorno a San
Giovanni rispingeano fuori della porta gli avversari, quando avvenne
che ardesse per fuoco messovi un palagio presso alla porta; e il fuoco
cresceva. Quelli della schiera grossa rimasti in Cafaggio si crederono
traditi, e già fiaccati dalla sferza del sole e dalla sete, e avendo
sentito che i Bolognesi al primo annunzio di mala riuscita si erano
partiti dalla Lastra; tutti si misero in fuga, gettando l’armi senza
assalto o caccia di cittadini, che quasi non uscirono loro dietro.
Tolosato degli Uberti scontrati in Mugello i primi fuggenti cercò
ritenerli, ma fu invano. Nella disordinata fuga, molti trafelarono, e
molti presi furono impiccati nella piazza di San Gallo e sugli alberi
per la via. Tale fine ebbe quella impresa, dopo alla quale i fuorusciti
si dispersero tra’ Ghibellini cercando rifugio. La sorte istessa toccò
a Dante, sebbene dobbiamo tenere per certo non essere egli venuto con
gli altri contro a Firenze,[124] biasimando quella mossa, e fin da
principio avendo tenuto in piccola stima i Bianchi, tra’ quali gli
accadde avvolgersi perchè i contrari gli parevano essere peggiori.
Disdegnò il nome di ghibellino ed a sè fece parte da sè stesso, non
avendo egli dove posare, in mezzo ad un secolo insano e sconvolto, la
vita misera nè il pensiero.
Pistoia era sempre in mano dei Bianchi o piuttosto dei Ghibellini; e
Tolosato degli Uberti, che n’era Capitano, avea favore dagli Aretini
e dai Pisani e dai Bolognesi. Laonde i Fiorentini co’ Lucchesi
deliberarono di muovere contro a Pistoia grande guerra; ma la città
essendo ben munita di mura e di fossi, pigliaron partito di tenerla
stretta per assedio buona pezza. Dipoi elessero loro capitano a
quella impresa Roberto duca di Calabria primogenito del re Carlo
secondo di Napoli; e quegli nel mese d’aprile 1305 venne in Firenze
con molta baronia di cavalieri Aragonesi e Catalani a quivi pigliare
il bastone del comando. S’accendeva la guerra allora viepiù feroce:
i Pistoiesi uscendo fuori veniano spesso alle mani co’ nemici; nella
città era difetto di viveri; i governatori della terra mandavano fuori
fanciulli e poveri e donne di bassa condizione, ma gli assedianti
facevano agli uomini tagliare i piedi e alle femmine smozzicare il
naso. Gli usciti di Pistoia che conosceano le donne dei loro nemici,
più imbestiavano nel vituperarle; ma il Duca molte ne difese, maggior
pietà essendo negli uomini di guerra che nei parteggianti. Clemente
V, che era successo a Benedetto XI, persuaso dal Cardinal da Prato,
mandò in Firenze nel mese di settembre due suoi Legati a comandare si
levasse l’oste da Pistoia sotto pena di scomunica; e tosto il Duca
partitosi dall’assedio, si recò in Francia dove il Papa dimorava:
ma i Fiorentini disubbidirono al comandamento. Crescevano intanto le
difficoltà e le spese, per il che ordinarono una gravezza o taglia,
che si chiamò la Sega, sopra i Ghibellini o Bianchi, i quali dovevano
pagare ogni dì tanto per testa; chi tre lire, chi due, chi una, secondo
che parea loro potesse ciascuno sopportare; fossero al confine o in
città rimasti, doveano pagarla. E a tutti i padri che aveano figli
atti alle armi imposero altra taglia, se questi tra venti dì non si
appresentassero nell’oste. Molti contadini furono costretti militare
senza soldo. Fra queste miserie passò l’inverno. Ai Pistoiesi, ridotti
agli estremi, speranza sola era la disperazione; quando accostatosi
alla città il cardinale Napoleone degli Orsini legato del Papa, i
Fiorentini si consigliavano finalmente venire ai patti. Pistoia si
arrese il 10 aprile 1306, salve le persone. I vincitori guastarono le
muraglie della città, che erano bellissime; il contado andò diviso
tra’ Fiorentini e i Lucchesi, i quali partirono tra loro altresì la
signoria di Pistoia; chè i primi vi mandarono il Potestà, e i secondi
il Capitano. L’esercito tornò a Firenze, dove coi festeggiamenti
consueti fu celebrata una vittoria tardi acquistata e crudamente.[125]
Allora voltatisi a fortificarsi contro gli Ubaldini, perpetui nemici
che teneano l’Appennino con molte castella e infestavano il Mugello,
ruinarono la loro principal sede in Monte Accianico, fabbricando a
petto a questa una nuova terra che si chiamò della Scarperia, rifugio
e fortezza agli uomini del contado che prima stavano sotto a quei
signori.
Per queste vittorie, e perchè la guerra pone sempre in più alto grado
coloro ai quali spetta il governarla, parendo ai gelosi popolani
di Firenze che i loro grandi e possenti uomini troppo venissero in
baldanza, attesero a dare con nuove riforme più forza al popolo,
e ordinarono in miglior guisa le compagnie o milizie cittadine,
che rifatte dal Cardinale da Prato, aveano sempre per loro insegne
quelle delle Arti: ma ottennero adesso Gonfaloni loro propri, donde
nacque l’ordine dei Gonfalonieri di compagnie, d’allora in poi
tenuti dei primi ufficiali dello Stato: fu aggiunto alle insegne
il rastrello del re Carlo. Era in Firenze come in ogni altra città
libera il Potestà, cui s’apparteneva il diritto della spada, e nel
cui nome tuttora s’intitolavano gli atti pubblici, perchè egli solo
rappresentava, ma quasi per via di una legale finzione, l’imperiale
potestà, messa da parte, ma formalmente non mai abolita nei governi
popolari. Però scemava ogni giorno più l’autorità di quel magistrato,
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