Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 24

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Tale era (secondo pare a noi) la forma del pensiero dei Toscani fino
dai primi anni del nuovo idioma; e questo pensiero si esprimeva in
un dialetto assai più degli altri accosto al latino, che è dire alla
lingua solenne tuttavia della nazione; la qual vicinanza fece che da
tutti gli abitatori di questa fosse più inteso naturalmente, e che da
quello poi si traesse la lingua scritta via via nelle altre provincie
d’Italia, secondo che queste più avanzavano in coltura. Scrivendo
il toscano si avvicinavano al latino, compievano quello che in sè
aveano d’imperfetto, e correggevano quel che il dialetto loro avea
di straniero. I gai cortigiani della Sicilia e i dotti uomini della
centrale Bologna, aveano cercato sulla imitazione provenzale foggiare
la lingua nobile della poesia; ma questa pure male si annestava in quei
due luoghi ai patrii dialetti, nei quali doveano, scrivendo la prosa,
necessariamente ricadere: nè mai la lingua comune d’Italia, la lingua
dei libri, sarebbe stata o siciliana o bolognese. Ma quando viddero che
poteva una provincia d’Italia, senza distaccarsi dal proprio dialetto,
levare questo in dignità di lingua bastevole ad ogni genere di
scritture, conobbero il fine che altrove cercavano, in Toscana essere
ottenuto; e i libri toscani, che già molti erano ed insigni in prosa
ed in verso, pigliando corso, diedero nome a quella che poi fu lingua
scritta della nazione.
Ma questa sorta d’autorità nulla potendo sopra i parlari delle altre
provincie, si manteneva insufficiente; e da principio i Toscani stessi
poco s’arrischiavano a tanto presumere del loro dialetto. Dante che
giovane lo aveva usato nella _Vita Nuova_ senza che paresse a lui di
far male, quando più adulto si diede a scrivere il _Convivio_, fece
nel principio di quel libro lunga scusa per avere commentato in lingua
volgare le Canzoni che aveva composto in lingua volgare. Scriveva
egli poco dopo espressamente un altro libro che ha per titolo _De
Vulgari Eloquio_, e dettava questo in lingua latina: vitupera in esso
i parlari tutti dell’Italia, e più degli altri quello di Firenze,
cercando un volgare che sia comune alla nazione, e che distinto dai
plebei dialetti di ogni provincia, possa degnamente chiamarsi illustre,
curiale, cardinale, aulico, cortigiano. Ma prima occorreva, al nuovo
idioma tôrre via quel nome di volgare, per farlo capace di tante
insigni prerogative. E qui a me sembra aver Dante confuso talvolta
la lingua e lo stile nel concetto di quel libro, al quale non diede
giammai compimento, sebbene molti anni poi gli rimanessero di vita.
Benchè vi si alleghino a condanna dei dialetti voci triviali e plebee,
il discorso di quel libro non viene a fermare le ragioni della lingua,
ma dell’eloquenza. «Compose un libretto in prosa latina, il quale egli
intitolò _De Vulgari Eloquentia_,» scrive il Boccaccio nella Vita
dell’Alighieri: e questi medesimo (cap. 19) dice contenervisi una
dottrina dell’_Eloquenza Volgare_, siccome aveva già nel _Convivio_
annunziato essere sua intenzione. Discorre, a guardarvi propriamente,
dell’alto stile, a scrivere il quale non vuole si mettano altro che
gli uomini eccellenti, nè vuole che in quello si trattino altre materie
all’infuori delle ottime e grandissime (Lib. II, cap. 1-2). Questo era
il volgare illustre secondo che Dante lo intese; era il linguaggio
conveniente ai sommi uomini per le somme cose, nè già una lingua ma
una scelta o _pesatura_ (_librata regula_; Lib. I, cap. 18) delle
voci o modi che sieno degni di quegli uomini e di quelle cose; era un
camminare con passo dantesco per le sommità di un idioma, non già un
pigliarlo sin giù dal fondo; era un ristringerlo anzichè ampliarlo. Ma
il libro non tratta veramente se non della lingua la quale è propria
della poesia; e negli esempi che Dante allega non si esce mai dalle
canzoni, adatte sol esse ai più nobili componimenti, siccome afferma
egli medesimo. In altro luogo (Lib. II, cap. 3-4), quell’alto stile
chiama egli tragico, distinguendolo da quello che è proprio della
commedia: questo nome diede egli allo stesso Poema suo, perchè non
poteva sempre in esso discorrere di alte cose; e le usuali pure dovendo
trattare, vedeasi costretto spesso allo scrivere usuale. Ma il volgare
illustre a Dante pareva (e certo a buon diritto) di avere usato nelle
Canzoni, pareagli lo avessero usato altri pochi, e tra essi alcuni dei
Provenzali. Dal che si vede come per esso, anzichè un idioma, venga
egli a porsi innanzi una forma di alto linguaggio per l’alta poesia,
la quale forma sia comune alle nazioni di sangue latino, avendo però
in ciascuna di esse una espressione tutta sua propria, che sia per
l’Italia da Sicilia alle Alpi l’illustre linguaggio dei maggiorenti
della nazione. Cotesta forma a lui pareva che fosse trovata pel nostro
idioma quanto alle Canzoni, siccome l’aveano trovata pel loro in
modo affine i Provenzali. Ma si tenga fermo che sempre innanzi gli
sta il latino, signore legittimo dell’alto stile ed eccellente; e il
vagheggiato _italiano illustre_ chiama in più luoghi _latino illustre_
(così ha il testo originale), ed in latino scriveva il trattato
dell’_Eloquenza Volgare_.
A questi concetti fu condotto l’Alighieri (quanto a me sembra) da più
motivi. Innanzi a tutti erano la mente altiera e l’indole signorile,
e quello intendere alla eccellenza che mai non si appaga delle cose
presenti, ma cerca il fine suo nella eternità dell’avvenire o nella
effigie ideale del passato. Ma questo sentire, il quale aveva come
suo centro nella grande anima del poeta, era comune in qualche parte a
quella età informata di scienze divine, e tutta nutrita delle memorie
di quella Roma dov’era la cima di ogni terrena grandezza. Quivi anche
vedevano gli esempi di quella perfezione dello stile al quale cercavano
allora di rinnalzarsi gli scrittori, non bene sapendo nè forse volendo
la nuova forma dell’idioma separare dall’antica, che sarebbe stato
dannarsi a una sorta d’inferiorità. Avevano essi già una lingua loro,
ma non sapevano che vi fosse o non volevano, sebbene lo stesso Dante
scriva che il volgare cercato da lui _andava peregrinando e albergando
negli umili asili_. In quell’immaturo levarsi che fecero allora i
popoli, il risorgimento ch’era nel pensiero e nella espressione pura di
esso, non rinveniva sufficiente rispondenza a sè nella vita, non aveva
nutrimento di scienza bastante; guardava le cose come fa la fantasia,
nè quelle poteva con giusta misura a sè medesimo definire. Quindi è che
Dante scrivendo in volgare cercasse il latino, perchè era la lingua
della religione e della scuola, e delle altezze a lui note del bello
poetico, lingua imperiale e pontificale; nè l’uomo che scrisse il libro
_de Monarchia_ poteva pensarlo altro che in latino. Ed egli sempre
molto latineggiava e più del dovere nella prosa: la terza cantica del
Poema, la quale voleva non fosse _Commedia_, mesce più delle altre alle
volgari frequenza di voci latine, che niuna perfezione di concetto nè
convenienza di poesia sembra alle volte giustificare. È l’Alighieri
certamente il sommo tra gli scrittori di nostra lingua, perchè fu il
sommo tra quanti avesse ingegni mai la nostra gente: ma quella lingua
che noi dobbiamo tanto ammirare e dalla quale tanto è da apprendere,
non possiamo tutta accettare nè fare nostra. Contendeva egli per
isforzare la lingua, siccome con la prepotenza del volere sforzava
il concetto, a condensarsi in quelle ultime profondità dove riposasse
il forte ingegno del pensatore congiunto alla viva immaginazione del
poeta. Veramente l’Alighieri fu sempre poeta dove anche tu vegga in
lui farsi innanzi il disputante nella Sorbona, poeta dove egli per la
coscienza della nobiltà sua troppo ami scostarsi dall’uso comune; ma
sembra allora che egli si piaccia di fare violenza alla stessa poesia,
cosicchè nei luoghi che molto furono disputati si trovi più spesso la
sottilità speculativa della mente che non la sostanza di quella poesia
ch’era in lui figlia dell’amore: alcune lezioni forse erano dubbie a
lui medesimo, che non pubblicava mentre visse l’intero Poema.
A questo volgare illustre ben egli sentiva mancare autorità
sufficiente, _mancando in Italia un’aula o curia della quale fosse
proprio quello che a tutti è comune_ (Cap. 18). Ma (prosiegue egli)
noi pure abbiamo una corte, sebbene ella sia _corporalmente dispersa,
perchè le membra di quella che in Germania sono unite da un principe,
qui sono congiunte dal grazioso lume della ragione_. Intende egli
dunque il linguaggio degli uomini eccellenti, linguaggio di pochi:
ma siccome nel concetto di questo volgare illustre ne sembra egli
recarlo troppo in su, così nella estimazione dei vivi dialetti mette
ogni studio in abbassarli, di essi allegando voci triviali e facendone
tal peccato da condannarli tutti insieme siccome indegni ed incapaci
dell’alto stile. Ma veramente quel basso e brutto _introcque_, usato
una volta dall’Alighieri nel Poema, nè so perchè, non fu mai scritto,
ch’io sappia, nè dal Compagni, nè da Fra Giordano, nè dal Villani, nè
dal Cavalca, e nemmeno dal Latini, dal Malespini e dal Giamboni, che
sono più antichi. Così nel francese, che troppo si pone ad esemplare
di ogni lingua, certe parole degli impagliatori di Parigi non si
trovano usate mai, non dico nelle Orazioni del Bossuet, ma nemmeno
nelle Commedie del Molière. Se in quel giudizio la passione fece
trascorrere l’Alighieri, ben fu degno di lui l’accorgersi e giudicare
come in Italia mancasse alla lingua dei ben parlanti e degli scrittori
quell’uso autorevole che fosse da tutti spontaneamente consentito.
Nessuna eloquenza aveva bisogno d’altro idioma che di quel volgare;
ma non l’usavano, e i dottori scriveano e parlavano latino ogni volta
che voleasi essere autorevoli, latino la Chiesa, latino i Principi e
le Signorie: quella di Firenze non s’arrischiò al volgare fin dopo
alla metà del secolo XIV. Nè questa Repubblica ebbe mai pubblicità
d’arringhe, nè fama di uomini eloquenti: scriveano i cronisti e gli
ascetici per uso del popolo e perchè l’affetto a ciò gli spingeva,
scriveano la lingua da essi parlata: ma nè il Cavalca, nè il Villani,
tanto oggi noti per tutta Italia, credo io che fossero letti da persona
fuori dei confini della Toscana, o certamente letti da pochissimi: e
Dante medesimo vissuto in esilio, o ignorava che ci fossero, o non gli
aveva forse mai letti, e qual valore di lingua avessero non sapeva.
Se tutto il fatto della lingua non si voglia ristringere ai nomi delle
cose materiali, ne sembra gli uffici a quella prestati da un’autorità
comune estendersi a tutte le ragioni del parlare e dello scrivere,
conducendo effetti non piccoli sopra il pensiero della nazione. La
lingua italiana, ricca d’immagini com’ella è, può spesso mancare
di precisione o di evidenza, spettando a chi scrive cercarla da
sè, perchè non la trova bene accertata e resa facile da universale
consentimento. Ma questo avrebbesi dove fosse stata in Italia
un’autorità viva e comune, che oltre al valore ed all’opportunità di
certe voci o locuzioni figurate fermasse l’adatto collocamento loro,
da cui dipende spesso l’acquistare quelle figure cittadinanza, fatte
usuali nazionalmente e chiare a tutti come se fossero voci proprie. E
questa lingua, la quale dicono essere fatta per la poesia più che per
la prosa, sarebbe riuscita nel discorso andante di sè più sicura, per
essere meglio appresso tutti determinata. Inoltre, una lingua non è la
stessa quanto alla estensione sua in tutti i gradi della coltura e in
tutti gli uomini egualmente; ma certi nomi di cose astratte o modi che
vogliono a essere trovati più lungo lavoro e più esercizio della mente
e più suppellettile di cose imparate, discendono spesso dai primi gradi
negli inferiori, cosicchè divengano comuni almeno quanto loro basti
ad essere intesi da tutti gli uomini non affatto rozzi.[333] Il che
molto avviene nelle nazioni cristiane per l’opera intermedia del clero
e massimamente dei predicatori, costretti cercare ad alti pensieri una
espressione popolare, la quale si renda aperta a chiunque non ebbe
pratica nelle scuole: ma ciò non può farsi tra noi senza sforzo. Il
quale difetto impedisce anche a pro della lingua l’azione unificatrice
del teatro, e ciò tanto più in quanto che pigliando vita la commedia
dal comune favellare, non sa in Italia dove cercarselo; e riesce magra,
o nelle sue finezze, quando anche intesa, gustata poco.
Ma se una parte del vocabolario di una lingua la quale abbia avuto il
suo letterario e civile svolgimento, formata più in alto, discende
nel popolo dei meno colti, riceve anch’essa però dal basso le sue
leggi e si arricchisce del parlare figurato che esce (siccome fu
detto) ogni giorno dai mercati; perchè d’una lingua sostanza e forma
stanno nel popolo, cioè in tutti; e i più addottrinati, che sono
i pochi, non sanno altro che scegliere quanto alle figure la parte
che ad essi convenga, ed aggiugnervi le voci e i modi necessari a
quelle materie che i più ignorano, e cui manca linguaggio nell’uso
universale e quotidiano. Laonde una parte, che è senza misura maggiore
dell’altra, sale ogni giorno anche dal fondo più triviale a pigliar
forma nei sermoni e nelle arringhe solenni e nei libri, sebbene
remoti dalla capacità di quegli uomini dai quali quei modi e quelle
figure da prima furono generati. E senza di questi sarebbe la lingua
degli scrittori angusta e pallida, non avrebbe vita, nè grazia, nè
efficacia. Adoprano i Francesi nell’uso più scelto voci figurate,
le quali niuno vorrebbe usare nelle galanti conversazioni, se non ne
avessero chi le pronunzia e chi le ascolta dimenticata la etimologia.
Eppure la lingua veramente cortigiana dei Francesi pigliava l’attuale
sua forma in Parigi circa alla metà del seicento, quando la _corte_ e
la _città_, divenute arbitre d’ogni cosa, rideano alle spese di tutto
il resto della nazione ogni sera nel teatro. Ma è qui da notare come
questa lingua fosse, per la natura sua e dei Francesi, capace fra tutte
a rendersi popolare. Sappiamo da Cesare che i Galli ebbero indole
aperta, facile il discorso; molto facevano conversando, e quel che
avean fatto si piacevano di raccontare. Quindi è che appena mutati in
Francesi, si dessero a scrivere in grande numero ogni secolo memorie o
ricordi personali, genere di storia dove ognuno tesse intorno a sè il
filo dei pubblici fatti, più viva delle altre sebbene più scarsamente
comprensiva, e tutta propria di quel popolo e di quella lingua. Queste
memorie furono certo grande esercizio dove i Francesi pigliarono usanza
di scrivere come si parla e leggere come si ascolta. Abbiamo notato due
altri generi di composizione dove si ascolta come si legge, che sono
il pulpito e il teatro; ma questi pure sembrano quasi avere bisogno
della lingua dei Francesi, la quale si alzava nei sacri oratori a un
genere d’eloquenza ignoto agli antichi, e che non ha pari tra le altre
nazioni. Nè accade dire come al teatro bene s’accomodi l’idioma che
ha sede in Parigi, arbitra in Francia d’ogni gusto e d’ogni cultura.
Nè altrove che in Roma si formavano la lingua e l’urbanità latina:
ma in Toscana erano città e repubbliche libere ed astiose tra loro
perfino dell’idioma, e ciascuna di Firenze; la quale non ebbe corte,
nè senato, nè fôro; sedeano i consigli a porte chiuse, i parlamenti in
piazza, gridavano armati e ubbidienti al cenno di pochi o all’impeto
plebeo. I dottori venuti di fuori latineggiavano; tutto il ceto dei
Ghibellini aveva in odio questo popolo d’artigiani montati in iscanno,
e co’ dileggi si consolava; Dante in esilio chiamava _insensata_
l’arroganza dei Toscani che a sè attribuivano l’illustre volgare.
Quindi è che la lingua del popolo di Firenze fin da’ suoi primordi ebbe
taccia di plebea; e simile accusa ebbe l’istoria di questa Repubblica
perchè ivi non era nè aula, nè curia, ma i pubblici fatti muoveano da
quelle botteghe istesse dove si lavoravano i panni e le sete. La fiera
puntura dell’esule ghibellino fu poi rinnovata dal buon frate Jacopo
Passavanti, il quale dannando anch’egli ciascuno dialetto d’Italia, dà
briga ai Toscani ed ai Fiorentini suoi perchè insudiciavano il patrio
idioma. Dannaronlo poscia i letterati più risolutamente scrivendo
in latino: vivea la contesa malaugurata, ed il Machiavelli con forte
discorso a Dante oppone Dante medesimo, a lui mostrando come avessero
egli e il Petrarca ed il Boccaccio scritti i libri loro non già in
toscano o in italiano, ma in vero e proprio fiorentino. Riprese vigore
siffatta contesa, perchè nei tempi del Machiavelli l’idea di nazione
con vano e pungente desiderio si provava a porre in discredito ogni
boria di provincia, e perchè il secolo inclinava al signorile; tantochè
il Tasso proverbia il popolo di Firenze che, stando a bottega, in sè
non aveva decoro e pregio di nobiltà. Ma vero è poi che in questo
popolo arguto e faceto ed esultante di sè medesimo e licenzioso,
gli ardimenti dei motti e delle triviali figure più abbondavano che
altrove, pigliando favore dalle grazie della lingua e dalla leggiadra
acutezza degli ingegni, i quali si diedero molto a quel genere di
componimenti quando le lettere avvilite più non si arrischiavano ai
forti subietti. I Fiorentini, fatti ambiziosi di queste più infime
particelle d’antico retaggio, si diedero troppo a porle in mostra,
e i vocabolari con troppo studio le registrarono; dal che poi venne
un ribellarsi contro allo scrivere dei Toscani ed alle più schiette
forme della lingua, la quale si fece povera per essere a tutta Italia
universale.
Ma la poesia dal suo primordio procedette sempre con passo più certo,
e fu cosa nazionale; laddove invece la prosa fuori che in Toscana
mancando tuttora di coltura letteraria, non ebbe linguaggio che fosse
accettato comunemente e divenisse la lingua scritta degli Italiani. Il
ch’era in fatto assai più agevole a conseguire nella poesia che tutta
lirica da principio, e paga d’esprimere i moti dell’animo, elegge e si
appropria di tutta la lingua poco gran numero di parole, di modi e di
forme; ma che però essendo eternamente inesauribile nel profondissimo
campo suo, a tutti s’appiglia, da tutti è compresa o abbagliatamente
divinata, da tutti accolta e consentita. Dai Siciliani ai Bolognesi e
indi al Cavalcanti, al sommo Alighieri ed a Cino da Pistoia, progrediva
per diritto cammino la lingua poetica della canzone; sole mancavano
quelle ultime e non mai superabili squisitezze che diede alla forma
Francesco Petrarca [n. 1304, m. 1374]. Quanto alla parlata espressione
della poesia, io dico esser egli nel nostro idioma scrittore perfetto;
in lui non appare mai l’eccessivo assottigliarsi per essere arguto,
nè studio faticoso di pienezza nè di brevità; ma neanche tu scorgi nei
suoi migliori componimenti, che sono gran numero, mai nulla di troppo:
una mirabile temperanza a lui era maestra di non mai alzarsi verso dove
non potesse la dolce sua tempra, senza però abbassarsi mai da quella
serena elevatezza che in lui mantennero l’amore e gli affetti virtuosi
dell’animo ed una vita nutrita sempre di nobili studi e naturalmente
dignitosa. Nato in Toscana e quivi rimasto fino ai nove anni, poi
vissuto in casa dei genitori in Avignone dove molti erano Fiorentini,
ebbe la favella dall’uso toscano; ma questa può dirsi mettesse in
disparte nella vita letteraria, che fu da lui tutta esercitata in
latino; e i versi che oggi fanno la sua gloria, o furono scritti
nell’età matura, o certamente in quella forbiti. Sono ricordanze
d’affetti presenti sempre all’anima del Poeta, che rigermogliano come
cosa viva, senza avere però mai la foga che odi bollire nel cuore
di Dante; passioni viventi nella fantasia, ma temperate dal freno
dell’arte che a sè le richiama per voglia d’esprimerle. Quindi è che
lo scrivere e il sentire del Petrarca sempre hanno qualcosa di più
generico, nè occorreva a lui pescare giù in fondo nelle attualità
dell’idioma: la lingua che aveva imparata dalla culla tornì da sè
stesso col pensiero e con lo studio; vagando per tutte le città
d’Italia, ebbe egli sempre innanzi agli occhi l’intera nazione: il
detto del Foscolo, che la lingua era al Petrarca insieme naturale e
forestiera, sta bene ad intenderlo del patrio dialetto che egli usò
meno degli altri Toscani; ma che era poi tutta la materia della lingua,
cui diede egli forma soprattutto nazionale. In quelle sue Rime non è
mai parola o modo che abbia del vecchio e non possa oggi essere usato
senza affettazione.
In tutta la vita niun altri fu meno di lui fiorentino, niuno fu
italiano al pari di lui. Si era egli fatto cittadino dell’Italia perchè
non avrebbe in essa voluto d’alcun luogo essere cittadino; nei pubblici
eventi non ebbe altra parte che di riprensore dei vizi comuni, egli
non guelfo nè ghibellino, senza odii nè punture di passioni che in
lui sanguinassero: l’amore per Laura fu il solo fatto della sua vita.
Le cose presenti giudicava per concetti generali; snudava le _piaghe
mortali_ d’Italia, ma poi s’accorgeva che il porvi le mani sarebbe
_indarno_, e sospirava. L’età precedente avea contenzioni furiose
ma degne degli alti intelletti; e quindi gl’ingegni più speculativi
mischiandosi in quelle, a sè acquistavano quella tempra che viene
dall’oprare, e ai loro concetti quella interezza che deriva dall’uso
continuo e vivo e pratico delle cose: i grandi uomini erano anche forti
cittadini, e il pensiero aveva sostanza nei fatti. Ma nell’Italia del
Petrarca, passioni infeconde nei migliori ingegni metteano disgusto
di sè medesime; egli con la mente figgendosi tutto nelle memorie
dell’antica Roma, di quella cercava risuscitare le lettere; faceva a sè
una vita d’uomo letterato: nuova cosa allora, ond’ebbe fama quale forse
niun altri godette mai, tranquilla, costante; libera dagli odii o poco
tocca dalle offese, delle quali era egli oltremodo sensitivo. E dopo la
morte fu egli il poeta dei secoli oziosi, cessati allora quando risorse
per tutta Italia universale e vivo l’amore della poesia dantesca.
Nessuno mai forse nella esterior vita ci appare beato più del Petrarca,
ma tutto aveva egli in sè medesimo le tempeste; natura morbida di
poeta, che negli studi solitari s’avvolgeva dentro sè medesima; nè
il sì nè il no mai gli suonavano interi nel cuore, e dentro all’animo
era un segreto conflitto di cure affannose: intorno a queste scrisse
un libro.[334] Mutando luogo di tratto in tratto, piacevagli con le
agiatezze della vita sostenere il grado che l’ingegno suo meritava,
e cui lo innalzarono le onoranze insolite in quella e in altre età;
non troppo i favori dei principi disdegnando nè il praticare spesso
nelle corti, egli non esule nè mendico, ma come per fare onore a chi
lo albergasse. Poneva talvolta fiducia breve in qualche principe o
capo di parte; sperò nel Colonna, sperò nel Rienzi; e quella Canzone
(_Spirto gentil_ ec.) che è tra le sue più belle, a quale dei due fosse
indiritta non è ben chiaro, tanto son validi gli argomenti da entrambe
le parti, quasi da credere che l’avesse prima ideata per animare a pro
d’Italia il Colonna, e poi finita quando il Tribuno tentava un’impresa
troppo rispondente ai voti ed ai sogni cari all’anima del Petrarca.
Vive egli oggi tutto nel Canzoniere, perchè la grande mole di
componimenti in lingua latina i quali empierono la sua vita, e quelle
medesime lettere alle quali dava egli nome di famigliari, altro non
sono che esercitazioni. Ma il secolo suo lodò a buon diritto e ammirò
in lui quella virtuosa elevatezza di pensieri e di giudizi che niuno
de’ suoi scritti smentisce giammai; ammirò il sapere, pel quale
sembrava fare egli rivivere l’antica Italia dalle sue ceneri cercando
libri per ogni dove, non senza dare anche mano allo studio delle greche
lettere innanzi a lui quasi obliate; ammirò nel suo scrivere quella
stessa copia che a noi sembra troppo ridondante, e quell’ozioso tener
dietro agli ornamenti delle sentenze e degli esempi ed alle imitate
lautezze di frasi per lo più raccolte nei pochi latini che a lui erano
familiari. Ma già in Italia sorgeva un secolo a cui piacevano queste
cose, cercando la vita dove non erano che memorie, e quella che stava
negli scrittori volgari tenendo a vile perchè volgare, e perch’ella era
espressione vera non della passata ma della presente Italia, qual’era
e quale i tempi ora la volevano. Tardi il Petrarca si fu accorto come
la gloria da lui ambita risedesse tutta in quelle rime che da principio
aveva egli meno apprezzate, e come non fosse corona vera del capo suo
quella ch’egli ebbe giovane ancora e con tanta festa in Campidoglio pel
poema latino dell’Affrica, da lui senza danno lasciato imperfetto, e
che infine a lui medesimo dispiaceva.
Ma quanto grande sia la inferiorità di questo secolo del Petrarca messo
a confronto di quello di Dante, si fa manifesto per la differenza
che tra essi corre nel concetto dell’amore. Laura è una donna ed il
Petrarca un innamorato; l’amore da lui portato alla somma altezza sua
e purità, tuttavia è amore co’ suoi affanni e le sue dubbiezze, che
«sana e ancide» e si avvolge per isquisite delicatezze nelle infinite
sue varietà di casi, per cui l’affetto tra quelle anime virtuose pure
ebbe una istoria. Laura santissima riposa sul margine delle dolci
acque, mentre «un nembo di fiori cuopre ad essa le vesti leggiadre e
il grembo e le treccie bionde:» è bella, ma tu puoi immaginare quella
bellezza, puoi ricordare donna veduta o donna pensata, e nella memoria
alzare i tuoi sino agli affetti del grande cantore. Ma la Beatrice
dell’Alighieri non è propriamente donna, ma visione; non fece tra gli
uomini altro che mostrarsi, saluta e passa «e gli occhi non l’ardiscono
guardare;» ma egli la vede dentro al cuore ed al pensiero, senza che
amore giammai la facesse accorta di lui; nè prima che in cielo, fu
mai tra essi conversazione. Le donne di Guido Cavalcanti e di Cino da
Pistoia hanno lo stesso carattere, sebbene in questo ultimo già un poco
scadente: col vivo lume della bellezza guidavano esse gli amanti loro
alle sommità dell’intelletto: questo alto ufficio avea l’amore. Ma il
Petrarca nelle ore del pentimento accusa l’amore suo lungo dei «giorni
perduti e delle notti spese vaneggiando,» e i giovanili suoi pianti
dice «non vuoti d’insania.» A Dante l’amore «nella mente ragionava,» ed
era salute a lui e difesa contra ogni suo vaneggiamento.
Coloro che aveano formato l’animo e il pensiero nei grandi fatti e
nelle contenzioni del secolo XIII, ebbero più forte l’educazione degli
affetti, donde poi nasce quella negli uomini delle volontà. Le quali
secondo che abbiano maggiore intensità e saldezza, secondo che sieno
o vòlte alle grandi, o inceppate nelle minute cose e da ogni nobile
ed alto segno disanimate, ne danno ragione dei vari caratteri per cui
si distinguono tra sè i periodi della istoria. Nei primi tempi che
seguitarono all’acquistata indipendenza e alla libertà fondata, ma
insieme all’insorgere vario e irrequieto delle ambizioni cittadine,
gli affetti e con essi le volontà degli uomini divenivano incerte e
divise, e quindi o guaste o intorpidite; e nei concetti degli scrittori
noi troviamo essere meno sicurezza, perchè era in essi minore altezza.
L’istoria di Giovanni Villani ebbe continuazione da Matteo, fratello,
minore a lui di molti anni. Giovanni ricordava le prime allegrezze
nella città di Firenze per la vittoria di Campaldino; aveva educato la
sua coscienza di storico in quelle primizie quando si cercavano e si
ottenevano le cose giuste, quando le passioni private sparivano confuse
in mezzo alle pubbliche e comuni, le quali infondevano alcunchè della
grandezza loro nei fatti singoli e nel modo per cui venivano giudicati.
Ma invece nei tempi da Matteo descritti guardavasi meno al fine ultimo
delle cose e a quella sostanza morale di esse che ne determina il
valore; solo fine era l’immediata riuscita, nè più rifulgono da una
che dall’altra parte il vero ed il buono. Nelle istorie del minor
fratello più non si rinvengono di quelle parole che ti s’improntano
nella mente; la lingua col volere essere più dotta era meno viva, ed
i costrutti più lavorati non serbano tanto lucida evidenza. In quella
medesima età intermedia della nostra lingua, scrittore eccellente fu
Iacopo Passavanti di quello stesso ordine domenicano che avea prodotto
i sommi autori della età prima. Non ha egli forse chi lo pareggi quanto
alla limpida semplicità del dettato, alla costante dolcezza dei suoni
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