Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 23

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d’Avignone, s’era in Italia ricondotto. La navigazione sua fu piena
di casi per le traversie del mare; talchè essendosi egli mosso a’
13 di settembre, non giunse a Corneto prima de’ 4 dicembre, avendo
anche fatto in Genova qualche indugio; tuttora incerto com’egli era
del tornare, attraversato dai cardinali e dai francesi della Corte,
cui troppo piaceva quello starsene appartati in quieta dimora, nè
come a Roma posti in alto con gli occhi addosso della cristianità.
Quivi alla fine si ricondusse Gregorio XI il giorno diciassettesimo
dell’anno 1377. Pigliava dipoi stanza in Anagni, dove lo raggiunsero
gli ambasciatori de’ Fiorentini per la pace, richiesti da lui non prima
fu egli disceso a Corneto. La Repubblica frattanto, usando la penna di
Coluccio Salutati, esortava con la facondia di molto aspre e concitate
parole i Banderesi di Roma, non facessero abbandono della libertà, che
è cara cosa più d’ogni altra; non si lasciassero trarre all’esca delle
curiali magnificenze, a prostrare quella dignità che invano dipoi si
crederebbero racquistare al sangue romano. Questo scriveva Coluccio
a’ 25 dicembre; ed ai 26 rendendo grazie alla regina Giovanna che
si era interposta premurosamente per la pace, protestava esserne la
Repubblica desiderosa. Le condizioni dal Papa offerte sin dal principio
furono tali, ch’era impossibile accettarle; imponeva l’abbandono de’
collegati, ed una multa che oltrepassava un milione di fiorini: ne
aveano offerti gli ambasciatori fino a settecento mila. Ma io non
so quale delle due parti fosse meno inclinevole alla pace, entrambi
cercando versare sull’altro l’odiosità del rifiuto. Da una lettera di
Coluccio (26 ottobre 1377) si vede che il Papa imponeva anche l’andata
in Corte, a chiedere perdonanza, di cento uomini fiorentini scelti da
lui, e cento delle altre città di Toscana. Laonde Coluccio nelle sue
lettere protestava più che mai essere necessario continuare la guerra,
a ciò animando i collegati, e al Cardinale di Firenze e a quel di
Cosenza molto vivamente denunziando l’avverso animo del Pontefice.[318]
A questo modo si protraeva quell’infruttuoso negoziare da oltre
sei mesi, quando Bologna fece pace con la Chiesa mantenendo le sue
libertà, ma disciogliendosi dalla Lega. Dal che Gregorio pigliato
animo, e sapendo essere in Firenze contrari molti a quella guerra,
mandava due frati nel predicare valenti, i quali cercassero innanzi
al popolo radunato mostrare il buon animo del Papa inverso della
città, e persuadere la pace. Parlarono questi, ma nel Palagio e ad una
congrega molto numerosa di richiesti dagli Otto medesimi, dei quali la
causa doveva essere giudicata: ciò almeno apparisce dal paragone degli
scrittori, i quali poi narrano che gli oratori fossero rinviati, con la
protesta di mantenere più salda che mai la difesa della libertà dagli
Otto propugnata con tanto merito nell’universale.[319] Pare altresì
che fosse allora nelle città di Toscana maggiore prontezza che per
lo innanzi, o almeno gli Otto vollero fare di tale consenso grande
e solenne dimostrazione. Radunati in Firenze gli ambasciatori delle
altre città, e in Palagio convitati con molto studio di magnificenza,
convennero tutti fare buona guerra, e che ad ogni deliberazione degli
Otto dovessero stare le altre città, come se fatte venissero dai
propri loro magistrati. Grande era l’animosità dalle due parti; il
che veggiamo da un’altra lettera di Coluccio ai Banderesi, dove gli
esorta a resistere con ogni sforzo al Pontefice, come avean fatto gli
antichi loro progenitori a Brenno e a Pirro e ad Annibale, offrendo
in nome della Repubblica e di Bernabò tre mila lance a soccorso loro.
Ma peggio fu quando tornati essendo gli ambasciatori ai 4 d’ottobre,
ed in solenne radunata esposto quello che aveano fin qui operato,
deliberarono i Consigli che si facesse guerra a oltranza; e ad un
ambasciatore di Bernabò, che era rimasto in Anagni e offriva trattare
nel nome dei Fiorentini, risposero molto risolutamente se ne stesse,
e che pace non farebbero, e che ritiravano le condizioni da prima
offerte.[320] Gli Otto, che prima venivano confermati di sei in
sei mesi, ebbero rafferma d’un altro anno dopo la scadenza; che era
mostrare grande proposito e fermo animo alla guerra.
Allora trovati dottori canonici, i quali dannassero di nullità
l’Interdetto, ordinarono che agli 8 d’ottobre, festa di santa
Reparata, si riaprissero tutte le chiese in città e nel contado e nel
dominio, celebrandosi i divini uffici come in passato pubblicamente:
richiamarono i prelati e i preti semplici che si erano assentati
dalle chiese, minacciandoli di gravi multe se non tornassero; gli
ecclesiastici che per avere ubbidito si trovassero involti in processo
o avessero gastigo dal Papa, fossero difesi a spese del Comune e
compensati dei danni sofferti: quanto venissero osservate coteste
leggi, noi non sappiamo. A molti pareva non essere giusta la scomunica
a quel modo data e per motivi di quella fatta; nè in Firenze mancava
forse chi si accostasse alle sètte dei Fraticelli o di altrettali
novatori, che in Italia serpeggiarono tutto quel secolo. Delle
moltitudini era devoto e sincero l’animo, e l’affetto religioso aveasi
aperto sue proprie vie fin dal principio dell’Interdetto. «Parve
(scrive il cronista) che una compunzione venisse a tutti i cittadini,
e per molte chiese cantavansi laude ogni sera, ed uomini e femmine
infiniti vi andavano, e grandi spese vi si facevano: ed ancora s’andava
ogni dì a processione colle reliquie, e canti musicali, con tutto
il popolo dietro. Ancora si mossero molti giovani nobili e ricchi
e si convertieno, e feciono loro conventicole a Fiesole, e facevano
limosine, e quivi in digiuni e in orazioni dormivano in sulla paglia
e in terra, e convertivano peccatrici, e vestivanle, e monisteri
muravano: ed era questa cosa sì dilatata, che ben parea che volessero
vincere e aumiliare il Papa, e che voleano essere obbedienti alla
Chiesa.[321]» Ma gli Otto pigliarono in sospetto le radunate delle
compagnie dei disciplinati che si facevano nelle chiese dei frati, e a
questi vietarono sotto gravi pene fare dette radunate[322] dov’erano
certo molti di coloro ai quali spiaceva la guerra ed il vivere in
contumacia di Santa Chiesa, «e gli obbrobrii e i vituperi e le ingiurie
che tutto dì si facevano nelle persone degli ecclesiastici.[323]»
Era in Firenze a quei giorni Caterina Benincasa da Siena, che noi
veneriamo come santa, mirabile donna nella vita e negli scritti;
oratrice inviata privatamente in Avignone dai Fiorentini a Gregorio,
e presso lui grande promotrice del ricondurre la Sede in Roma e
mantenervela: con la parola e con le lettere fermava l’incerto animo
di lui, mostrando il male colà dov’era, senza mai palliarlo per via
di timide concessioni, e innanzi tutto ponendo la riforma dei pastori
con pio coraggio e con umile severità; avvalorando le riprensioni
col sempre tenersi dentro ai termini della riverenza, e temperandole
con l’affetto. Scriveva agli Otto e alla Signoria, non s’indurissero
nell’orgoglio e nella caparbietà, non mentissero alla coscienza, al
Papa andassero coll’ossequio dai figli dovuto al Padre comune; le
offese recate a lui e alla Chiesa riuscire in danni alla Repubblica;
non guastassero quei buoni semi che già parevale di aver posto nel mite
animo di Gregorio.[324] Scriveva al Papa gridando pace: racquisterebbe
con la benignità le anime, che sono il tesoro della Chiesa. «Con queste
guerre non veggo che possiate avere un’ora di bene; distruggesi quello
dei poverelli ne’ soldati, ed impedisce il santo vostro desiderio, il
quale avete della riformazione della Sposa vostra, riformarla dico
di buoni pastori. — Voi potreste dire, Santo Padre: per coscenzia
io son tenuto di conservare e racquistare quello della Santa Chiesa:
ohimè, confesso bene che egli è la verità; ma parmi che quella cosa
che è più cara, si debba meglio guardare. — Poniamo che siate tenuto
di conquistare e conservare il tesoro e la signoria delle città,
la quale la Chiesa ha perduto; molto maggiormente siete tenuto di
racquistare tante pecorelle, che sono uno tesoro nella Chiesa, e
troppo ne impoverisce quando ella le perde. — Procurate che nelle
vostre mani, quello che Dio permette per forza, si faccia con amore.
— La Chiesa perde e ha perduto li beni temporali per la guerra e per
lo mancamento delle virtù; che colà dove non è virtù, è sempre guerra
col suo Creatore, sicchè la guerra n’è cagione: ora dico, che a volere
racquistare quello ch’è perduto, non c’è altro rimedio se non col
contrario di quello con che è perduto; cioè racquistare con pace e con
virtù, come detto è.[325]»
Dimorò in Firenze santa Caterina quei mesi che furono alla Repubblica
i più torbidi, tenendosi ella più accosta alla setta dei Capitani
di parte guelfa: ai santi aggradano le città ordinate sotto un
principio di autorità, e qui aveva essa dei discepoli e degli amici
molto ferventi; e di là erano gli scomunicati. Trovo scritto che a
suggerimento di Niccolò Soderini, il quale insieme a Piero Canigiani e
a Stoldo Altoviti era dei suoi più devoti, esortasse ella i Capitani a
battere con le ammonizioni la parte degli Otto, riprovando però l’abuso
che essi ne fecero e i fini privati che a ciò gli movevano.[326] Per
le quali cose Marchionne Stefani mostra dubbio animo verso Caterina, e
morde i seguaci ch’ella ebbe in Firenze:[327] e quindi gli odii della
parte che aveva sua forza nelle Arti minori si dichiararono contro lei,
tantochè essendo ella rimasta nella città già insanguinata di guerra
civile, venne pur essa cercata a morte. Ma con la Santa si dee credere
s’intendessero molto bene quegli uomini di mezzo, i quali sono per
conto loro di pacata indole e sensata; e in ogni popolo questi sono il
maggior numero, benchè abbiano la minor voce; ma si riscuotono, e alle
cose danno sesto, quando esse volgono a ragione.
Chi oggi potesse guardare addentro in questo popolo come egli era, io
credo verrebbe ad aggiungere qualcosa forse non disutile all’istoria
dell’umanità. Gli umori bollivano, e tutti i germi si maturavano a
indi produrre quell’intestino commovimento che venne a scuotere la
Repubblica. Avevano le ultime temerità degli Otto necessitato il
cacciarsi innanzi essi più sempre nella via loro, posti com’erano
in aperta guerra col maggior numero dei cherici, e il Papa essendo
tornato a Roma, e le città di Toscana divenute ora più vacillanti
ed inchinevoli alla pace. Il Papa era stato ricevuto a grande onore
dai Pisani nel suo passaggio, e s’adoperava Piero Gambacorti per la
conclusione d’un accordo, venuto egli di persona a questo effetto
in Firenze. Intanto si era la compagnia degli Otto venuta allora a
scompaginare per la morte di Giovanni Magalotti che tra essi aveva
le prime parti, onorato cittadino e assai lodato dagli scrittori:
fu egli sepolto, nonostante l’Interdetto, in Santa Croce; dove si
vede tuttora la lapide di lui, col motto _Libertas_ aggiunto allo
stemma di famiglia per concessione della Repubblica.[328] Pigliava il
suo luogo Simone Peruzzi, creato mentre era in Anagni ambasciatore:
l’esserci entrato cotesto uomo parve agli Otto grave offesa, ed ai
contrari gran vittoria. Di già erano le ammonizioni moltiplicate; la
Parte guelfa, che stava incontro a quella degli Otto, già cominciando
a prevalere: fu grande passo e molto ardito avere ammonito Giovanni
Dini, speziale grosso, uno degli Otto; il che annullava tutto il
prestigio di cui godevano: al quale atto si credè avere dato mano
lo stesso Peruzzi. Così avveniva che alla città stessero in capo due
magistrati che la tiravano in contrario senso, avendo entrambi fonde
radici, nè solamente nelle passioni degli ambiziosi o dei violenti,
ma bene ancora nella natura stessa delle cose, come erano queste per
gradi diversi sentite dagli uomini più onesti ancora e temperati. Gli
Otto venivano regalati dal Comune a segno di onore (com’era l’usanza)
di targhe e pennoni e vasellami d’argento; mentrechè la Parte guelfa
onorava nel modo stesso e regalava i Capitani che più andavano franchi
e si mostravano più acerbi intorno al fatto dell’ammonire. «Già da più
tempo era cominciata addosso agli Otto grande invidia, ed i contrari
facevano setta, intendendosi con certi grandi e facendosi forti al
palagio della Parte guelfa: nondimeno era tanta la grazia dei detti
Otto in tutto il popolo, che poche fave bianche ebbe ne’ Consigli la
petizione della loro rafferma, avendola essi stessi anche onestamente
contradetta.[329]» Ora quei mesi ultimi dell’anno 1377 viddero a un
tempo dagli Otto essere valicato ogni confine agli ardimenti loro; e
i Capitani di parte guelfa, moltiplicando le ammonizioni, tirare in
senso tutto contrario la Repubblica, la quale dovette bentosto esserne
lacerata.[330]
Ma ecco ad un tratto le cose volgere alla pace. Gregorio aveva a
praticarla mandato in Firenze il Vescovo d’Urbino; e tanto allora
prevalevano i nuovi consigli, che la Repubblica lo pregava andasse
a Milano, seco inviando ambasciatori perchè insieme operassero
che Bernabò volesse farsene mediatore. E questi, parendogli essere
occasione buona ad umiliare i Fiorentini, ed amicandosi il Pontefice
farsi arbitro in quel dissidio che a tutti i Principi dispiaceva, si
recò della persona sua indi a Sarzana; dove convennero gli ambasciatori
del Papa e dei Fiorentini, avendone anche mandati il re Carlo di
Francia e la regina Giovanna di Napoli a procurare l’accordo. Il
quale non era modo a conchiudere, se non che a condizioni dure assai
pe’ Fiorentini: restituissero alla Chiesa le giurisdizioni da essi
tolte e l’equivalente dei beni venduti; pagassero, in quattro o cinque
anni, ottocento mila fiorini d’oro. Già consentivano queste od altre
poco dissimili condizioni, tanto essendo il desiderio della pace
nella città, che un avviso falso la mise in festa ed in luminarie,
talchè ai magistrati convenne frenare quelle allegrezze. Ma giunse
invece annunzio certo della morte di Gregorio; per la quale fu il
congresso a un tratto disciolto, i Cardinali essendo corsi in Roma
al conclave che fu tanto fortunoso, ed origine alla cristianità di
lunghi mali. Il nuovo papa Urbano VI, travagliato dallo scisma, non
ebbe modo a far valere le condizioni prima imposte; ed ai Fiorentini
parve uscire con loro vantaggio dal duro passo cui vedevano condotta
essere la Repubblica. Tosto mandarono ad Urbano ambasciatori, prima
essendosi assoggettati alla osservanza dell’Interdetto; il quale fu
tolto via solamente dopo alcuni mesi, a condizioni poco gravose ai
Fiorentini.[331] Questi avevano anche ottenuto l’intento loro; e lo
stato della Chiesa, che la guerra aveva disciolto, rimase debole per lo
scisma, d’onde i politici avvisavano essersi aperte più larghe vie allo
ingrandirsi della Repubblica.[332]


CAPITOLO IX.
LINGUA, LETTERE ED ARTI IN FIRENZE. PETRARCA, BOCCACCIO. [AN.
1322-1378.]

Con la morte dell’Alighieri finivano (a così dire) i tempi eroici
dell’istoria di Firenze, e insieme finiva il tempo eroico delle
lettere. Tale possiamo noi appellare quello in cui fu concetto il sacro
Poema, allora che il popolo ebbe cominciato la sua istoria; e l’alto
pensiero forse rimaneva librato in aria fuori del moto vario incessante
degli affetti, se l’Alighieri tenuto avesse lo stato in Firenze
insieme ai nobili del suo grado. Le lettere attinsero qui forza ed
ampiezza dalla vita popolare della quale erano espressione; e diedero
esse valore a fatti per sè angusti, ma noti al mondo e celebrati più
dell’istoria di grandi regni. Nè ciò avvenne perchè in Firenze a caso
nascessero scrittori versati nei retorici artifizi, leggiadri cultori
delle grazie della lingua: la lingua fu il primo fatto donde scaturiva
poi tutta l’istoria di questa provincia, e da quella ebbero i grandi
ingegni potenza bastante a farsi autori di grandi opere.
Varcato il mille dell’era nostra e le paure secolari che precedettero
a quell’anno, fermati i barbari in Europa e ciascuna gente dentro
a’ suoi confini, le nazioni cominciarono allora a sorgere, ed ognuna
fece benchè lentamente a sè la sua lingua. L’Italia faceva la propria
sua lingua anch’essa in quel secolo, che pure fu quello del nazionale
risorgimento: Milano ebbe allora i suoi giorni più gloriosi, Venezia
accrebbe il suo dominio, ed essa e Pisa e Genova riaprirono al
nome latino la via dell’Asia; Roma fu italiana quando il Papato si
emancipava dalla imperiale soggezione; Napoli e Sicilia, esclusi i
Greci e cacciati gli Arabi, si ergevano, e quasi che senza nordica
invasione, a regni fiorenti.
La lingua in Toscana, incerta per anche nei primi due secoli dopo
al mille, apparve ad un tratto nella seconda metà del terzo non più
fanciulla ma come fatta donna di sè medesima, e imperante con la
precoce bellezza sua agli altri dialetti, tra’ quali andava divisa
quella che pure in Italia già era lingua della nazione. Variavano
questi dialetti non tanto per le varie sorti condotte in Italia dalle
signorie straniere, ma più assai per le origini diverse dei popoli che
v’erano stati prima che il latino dominasse: dovette il toscano avere
fra tutti le migliori condizioni. Gli antichi abitatori della Italia
media fondarono Roma, o là entro mescolandosi la formarono; affini di
sangue e di favelle cotesti popoli, come aveano allora composto la
lingua latina, così dovettero nella italiana poi recare ingredienti
meglio omogenei tra sè stessi, e accenti e pronunzie meno dissonanti
dalle latine di quel che fosse dove ebbero stanza i Celti o gli Iberi,
e dove la lingua dei Romani dominatori trovando plebi parlanti sempre
gli antichi idiomi, soffriva maggiore alterazione. In tutti i luoghi
tenuti dai Galli mi credo io che la parola latina uscisse rattratta e
scorciata da vocali mute e suoni nasali, anzichè intera e dispiegata;
questo medesimo noi troviamo avvenire oggi dell’italiana. I Greci di
Puglia e di Sicilia, sebbene per linguaggio più accosti ai Romani, pure
appartenevano ad una famiglia che per la struttura del pensiero stava
da sè; gli Arabi lasciarono almen qualche traccia nella pronunzia dei
Siciliani.
Se dunque puro tra tutti gli altri dovette riuscire il parlare dei
Toscani quanto all’esteriore sua forma; il pensiero mi pare dovesse
per le cagioni medesime avere qual cosa di meglio nutrito, sì per la
potenza delle tradizioni e sì per averle serbate più vive nel fondo
istesso di questo popolo. Gli Etruschi avevano dato a Roma per la
maggior parte i riti e i simboli, quelle cose insomma che risguardando
a religione, in sè comprendono le maggiori profondità dell’affetto
e le altezze del pensiero; niuno gli agguagliava de’ popoli italici
in quello che spetta alla filosofia ed alle arti. Reggeasi l’Etruria
per federazione libera, che è forma difficile a conservare, nè si
conviene ad altri che a popolo maturo ed esperto e molto innanzi in
civiltà: la quale forma potè durare dopo anche perduta la politica
indipendenza; e le arti fiorirono, allora forse venute essendo al loro
massimo incremento: sotto alla dominazione dei Romani Arezzo crebbe,
Volterra si mantenne, Firenze nacque, Pistoia emerse dalle acque solite
a cuoprire nei secoli antichi le valli Toscane. Poco in Etruria si
combatterono le guerre civili e poco altresì quelle dei barbari che
più tardi invasero l’Italia: io non so come quel Radagasio, duce poco
noto di genti avanzate da eserciti maggiori, venisse a morire nei monti
di Fiesole. Non mai la Toscana prestò buon cammino ai grossi eserciti,
nè campo adatto a imprese grandi; il suolo magro e impaludato, e posto
fuori delle vie battute, fece ai condottieri germanici questa piacere
meno di tutte le altre provincie d’Italia; talchè le feudali signorie
non vi ebbero mai grande incremento, e la mistura di sangue barbarico
dovette qui essere più scarsa che altrove.
Il popolo dunque rimase latino più che altro in Italia; e così
le lettere pigliarono quivi la forma latina, che è quanto dire
latino-greca pel grande impero esercitato dall’arte dei Greci sul
pensare degli uomini colti e sullo scrivere dei Romani. Il greco
intelletto, fra tutti limpidissimo, congiugnendo in semplici forme il
bello ed il vero, metteva sopra una via piana ed ampia la filosofia,
le lettere e le arti: serbando fede a quei primi veri che hanno
consenso in tutti gli uomini, e frenando le troppo fantastiche
divagazioni degli intelletti, quell’arte educava il senso pratico
dei Romani; i quali divennero maestri di scienza civile e politica,
perchè all’immediata intelligenza dei fatti congiunsero una più vera
nozione di ciò che spetti alla interiore natura degli uomini, e meno
alterata la tradizione di quelle leggi per cui si regola l’universo.
Notammo altrove come la scienza dei Greci e le istituzioni dei Romani
tanto più valessero quanto più essendosi lontanate dalle orientali
degenerazioni dei veri divini, seguivano meglio il natural lume, ossia
quella filosofia perenne la quale sta fuori di tutti i sistemi; dal
che avvenne che l’insegnamento cristiano trovasse le menti degli uomini
meglio a riceverlo preparate.
Poco fece la Toscana parlare di sè innanzi al mille: poi la dominazione
potente e simpatica della contessa Matilde chiamava l’antica gente
a contrapporsi alla Germanica prevalenza; talchè si può dire questo
popolo essere stato fin d’allora guelfo, in quanto ch’egli era
difensore degli uomini e delle forme e tradizioni nazionali contro ai
nuovi ordini che seco i barbari conducevano. Così la Toscana fu meno
feudale e più cittadina: seguiva le parti del romano seggio; cresceva
in quelli anni di monasteri e d’abbazie, fondate sovente negli ermi
gioghi dell’Appennino, dove riuscivano più benefiche; ma qui non fu
grande possanza di abbati che s’agguagliassero ai baroni. Ed in Firenze
il vescovado, smembrato forse da quello di Fiesole, non ha istoria
nei più antichi tempi: in questa Repubblica troviamo il ceto degli
ecclesiastici mantenersi in buona grazia dell’universale, perchè non
faceva parte da sè, ma quali che fossero i commovimenti dello Stato,
volle e seppe essere cittadino.
Tutte queste erano condizioni per cui nel popolo di Toscana la lingua
e le lettere pigliassero vita più italiana ed al tempo stesso più
religiosa e popolare. Nelle altre genti la poesia, o nacque senza
religione, come nel cantare feroce e barbaro dei Niebelungi; o peggio
aveva suo principio dalla satira, il che vuol dire dalla negazione;
poesia disciolta da ogni freno di costume e spesso incredula fino
all’empietà. Ma qui tra noi la poesia nasceva cristiana: l’ode al Sole
di San Francesco fu la prima voce modulata che mettesse la lingua
nostra, e fu preludio al Divin Poema. Bene ebbe fede nell’idioma
volgare colui che osava da una piccola città dell’Umbria chiamare per
tutto il mondo gli uomini del volgo a stringersi in grande comunità
religiosa: erano i primi anni del forte secolo tredicesimo, che vidde
sul fine le città ordinarsi in questa parte d’Italia sotto al governo
degli Artefici, e i servi alla gleba divenire contadini, e i _poveri_ e
i _deboli_ difesi da una legge più civile usare parola libera e sicura;
in tutti gli ordini diffusa la vita, gli affetti possenti, e volti
gli animi alle grandi cose. Francesco di Assisi, Tommaso d’Aquino,
Bonaventura di Bagnorea e Dante uscirono dall’Italia media; nè altri
ebbe azione maggiore di questi sul pensiero e sulla vita durante
quel secolo: nel corso del quale il popolo si innalzava, la scienza
cristiana compieva l’ordinamento suo, venivano a luce, cristiane di
spirito latine di forma, le umane lettere e la poesia. In quella gran
lotta che fu tra ’l Papato e Casa Sveva alte passioni teneano eccitate
le menti degli uomini; finì la contesa, e indi a pochi anni il nuovo
secolo trovò alquanto più circoscritte le ingerenze nel mondo civile
di quelle due potestà supreme che, l’una all’altra necessarie, tra sè
disputavano l’impero sul mondo.
Ma già le nazioni si erano formate, e i popoli ambivano il governo
di sè stessi, e i laici entrarono alla partecipazione della scienza.
Muovevano allora le contese giù dal basso, dal fondo istesso delle
nazioni: ma nei Comuni che si emancipavano, le passioni municipali
avevano in cima un alto principio ed un pensiero che risguardava a
tutta intera l’umanità. Ciò fu nei primi anni sino alla fallita impresa
d’Arrigo VII in Italia; ed in quelli anni l’istoria di Firenze fu
grande perchè, capo ed anima delle città guelfe, mostrò essa prima
in quel precoce ma tanto più splendido e ammirabile svolgimento suo,
mostrò all’Europa quello che fosse il nuovo popolo e quel che valesse.
Certo è che i popoli dell’Italia, levatisi innanzi a che si facesse
la nazione, furono strumenti a più discioglierla; e di tale colpa si
rendeva quello di Firenze più reo d’ogni altro verso i secoli avvenire:
ma chi oggi oserebbe a questa e alle altre città italiane fare peccato
di quella ampiezza di vita civile, e delle potenti fecondità del
pensiero donde ebbe il mondo tanto gran luce? Nasceva una lingua che in
sè accoglieva tutto il buon senso greco-latino sorretto e innalzato dal
buon senso dei cristiani; sorgevano le arti, manifestazione comprensiva
del vero semplice e del bello insieme congiunti, linguaggio sommario
e viva espressione del retto sentire di quel popolo, di mezzo al quale
usciva il Poeta che cielo e terra scorreva mirando a un solo fine, la
rettitudine.
Chi guardi al concetto del Divin Poema dirà questo essere opera
compiuta, come sarebbe un vasto cerchio che si richiuda in sè medesimo.
Gli stessi caratteri ebbe la _Somma_ di san Tommaso, guida interiore
dell’Alighieri: e questi due libri mai non furono agguagliati per
quello che spetta ad universale comprensione: pigliava il Poeta in
germe le idee che il gran Dottore conduceva per tutta l’ampiezza dei
filosofici svolgimenti. La vita dell’animo e l’altezza del pensiero
Dante ebbe dal secolo nel quale era nato; e il nuovo secolo di già
sorto apriva a lui, benchè sdegnoso, nuova esperienza della umanità.
Nato e cresciuto in tempi ruvidi, scrittore di lingua per anche
inesperta, bene eleggeva egli Virgilio a esterna guida, dietro a lui
cercando la poesia nelle virtù riposte che ha in sè la parola, e quella
splendente serenità dello stile in che sta il sommo della bellezza.
Di pari passo con la poesia, la prosa toscana continuava il moto
impresso dagli alti ingegni che la iniziarono; e grande fu il numero
dei cronisti, dei traduttori dai libri classici o dalla Bibbia o dai
Padri, e degli ascetici moralisti. Erano scrittori popolari, seguaci
di quella stessa filosofia perenne che piacque a Leibnizio, che oggi
Augusto Conti ed altri seco a noi riconducono, e dalla quale a Dante
mai, per quanta in lui fosse l’alterezza dell’ingegno, non cadde in
pensiero di menomamente dipartirsi: quella evidente sincerità della
frase, quella parola che va direttamente a cogliere il segno, le doti
insomma che invidiamo agli autori del trecento, non sono grazie della
lingua esterne o casuali, ma sono espressioni di sani intelletti e di
dottrine che bene rispondono al comun senso della umanità. In questa
Italia, che pure dicono qualcosa recasse nella civiltà moderna, mai
non si produssero o poco allignarono quelli intelletti che di sè
fanno centro del mondo e di là si mettono a ricomporlo; non le arcane
scienze, i paradossi, i sistemi, non il dubbio d’Abelardo, non le
temerarie sottilità dello Scoto, non le dottrine dissolutrici, non le
troppo rigide, non la superstizione crudele o fanatica: certe infantili
credulità, meno disviano dalla dirittura gli umani intelletti, che non
l’alterato o incerto giudizio circa alla sostanza delle cose. Vero
è che, poco gli ingegni italiani (eccetto quelli di greca origine),
ed i Toscani meno degli altri, si aguzzarono in filosofia, paghi di
averne in sè medesimi l’idea sommaria e molto credenti alle universali
tradizioni: il quale metodo gli condusse fino a Galileo ed alla sua
scuola, che nella esperimentazione teneva pur sempre fermo il concetto
degli universali, e che le scienze fisiche e le razionali faceva andare
di pari passo insieme congiunte in amichevole compagnia. Ma quando
i sistemi tennero il campo, e quando l’analisi volle sola dominare
tutta la scienza; allora l’ingegno dei Toscani cadde da quell’antica
operosità sua, quasi che avesse compiuto l’ufficio che poteva egli
prestare nel mondo oramai vôlto ad altre vie.
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