Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 18

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quieto vivere, ma sì di animi che abbiano sicurezza di sè medesimi e
interna pace. Era Giovanni di quei _buoni uomini_ da lui sovente posti
in iscena, che fondarono la libertà per essi soli fatta possibile,
e la mantennero in mezzo agli urti delle ambizioni, pacati e forti
perchè cercavano insieme al proprio il comun bene, e il vero sempre in
ogni cosa. Innanzi però di separarci da lui, vogliamo qui trascrivere
un ragguaglio ch’egli ne diede accurato molto intorno allo stato di
Firenze ed alle forze della città ed alle Entrate e Spese pubbliche. Il
quale sebbene risguardi all’anno 1336, serbammo per non interrompere la
narrazione, a questo luogo dove incominciano tempi nuovi, risorgendo
la città in breve ora da quei mali che dall’anno 36 al 48 l’avevano
afflitta. Da molti fu allegata questa che oggi si chiamerebbe
statistica di Firenze; massimamente in quella parte la quale spetta
alle scuole pubbliche e alla coltura di questo popolo: e più altri
lumi sono da trarne circa alla pubblica economia ed alle tasse ed al
maneggio della civile amministrazione, materia amplissima agli studi
cui può servire l’Istoria nostra. Abbiamo un poco spostato qui l’ordine
delle materie per farne a tutti più chiara e agevole la lettura;
la quale se a molti non riesca nè ingrata nè inutile, avremo scusa
d’avere interrotto in questo luogo con le parole del Villani il nostro
racconto.

Il Comune di Firenze in questi tempi (1336) signoreggiava la città
d’Arezzo e il suo contado, Pistoia e il suo contado, Colle di Valdelsa
e la sua corte; e in ciascuna di queste terre avea fatto fare un
castello, e teneva diciotto castella murate del distretto e del contado
di Lucca: e del nostro contado e distretto quarantasei castella forti
e murate, senza quelle di propri cittadini; e più terre e ville senza
mura, che erano in grandissima quantità.
Troviamo diligentemente che in questi tempi avea in Firenze circa
venticinque mila uomini da portare arme da quindici anni infino in
settanta, tutti cittadini, intra’ quali millecinquecento cittadini
nobili e potenti che sodavano per grandi al Comune.[197] Erano in
Firenze da settantacinque cavalieri di corredo: bene troviamo che
innanzi che fosse fatto il secondo popolo che regge al presente, erano
i cavalieri più di dugentocinquanta: che poichè il popolo fu, i grandi
non ebbono stato nè signoria come prima, e però pochi si facevano
cavalieri. Stimavasi d’avere in Firenze da novanta mila bocche tra
uomini e femmine e fanciulli, per l’avviso del pane che bisognava nella
città: ragionavasi avere continui nella città da millecinquecento
uomini forestieri e viandanti e soldati; non contando i religiosi e
frati e monache rinchiusi, onde faremo menzione appresso. Stimavasi
avere in questi tempi nel contado e distretto di Firenze ottanta
mila uomini da arme. Troviamo dal Piovano che battezzava i fanciulli
(imperocchè ogni maschio che si battezzava in San Giovanni, per
averne il novero metteva una fava nera, e per ogni femmina una fava
bianca) che erano l’anno in questi tempi dalle cinquantacinque alle
sessanta centinaia, avanzando più il sesso mascolino che il femminino
da trecento in cinquecento per anno.[198] Troviamo i fanciulli e
fanciulle che stanno a leggere, da otto a dieci mila; i fanciulli che
stanno ad imparare l’abbaco e algorismo in sei scuole, da mille in
mille dugento. E quelli che stanno ad apprendere la grammatica e loica
in quattro grandi scuole, da cinquecento cinquanta in seicento. Le
chiese in Firenze e ne’ borghi, contando le badie e le chiese de’ Frati
religiosi, troviamo essere centodieci; tra le quali sono cinquantasette
parrocchie con popolo, cinque badie con due priori e con da ottanta
monaci; ventiquattro monasteri di monache con da cinquecento donne;
dieci regole di Frati; e da dugento cinquanta in trecento cappellani
preti. Trenta spedali con più di mille letta da allogare i poveri e
infermi.
Le botteghe dell’arte della Lana erano dugento o più, e facevano da
settanta in ottanta mila panni, che valevano da un milione e dugento
migliaia di fiorini d’oro; che bene il terzo rimaneva nella terra per
ovraggio, senza il guadagno de’ lanaioli, e viveanne più di trenta
mila persone. Ben troviamo che da trent’anni addietro erano trecento
botteghe o circa, e facevano per anno più di cento migliaia di panni;
ma erano più grossi e della metà valuta, perocchè allora non ci entrava
e non sapeano lavorare lana d’Inghilterra, come hanno fatto poi.[199]
I fondachi dell’arte di Calimala de’ panni franceschi e oltramontani
erano da venti, che faceano venire per anno più di dieci mila panni,
di valuta di trecento migliaia di fiorini d’oro, che tutti si vendeano
in Firenze, senza quelli che mandavano fuori di Firenze.[200] I banchi
de’ Cambiatori erano da ottanta. La moneta dell’oro che si batteva era
da trecentocinquanta migliaia di fiorini d’oro, e talora quattrocento
mila; e di danari da quattro piccioli l’uno si batteva l’anno circa
venti mila libbre. Il collegio de’ Giudici erano da ottanta; Notai
secento, Medici e Cerusichi sessanta; botteghe di Speziali cento,[201]
molti altri mercanti, merciai e di molte ragioni artefici. Erano da
trecento e più quegli che andavano fuori di Firenze a negoziare.[202]
Aveva allora in Firenze centoquarantasei forni; e troviamo per la
gabella della macinatura e per gli fornai, che ogni dì bisognava alla
città dentro centoquaranta moggia di grano; non contando che la maggior
parte de’ ricchi e nobili e agiati cittadini con loro famiglie stavano
quattro mesi l’anno in contado, e tali più: l’anno 1280, che era la
città in felice e buono stato, volea la settimana da ottocento moggia.
Di vino troviamo entra nella città da cinquantacinque mila cogna; e
quando vi è abbondanza, circa dieci mila più. Buoi e vitelle l’anno
quattro mila, castroni e pecore sessanta mila, capre e becchi venti
mila, porci trenta mila. Entrava del mese di luglio ogni anno per la
porta a San Friano quattro mila some di poponi.
In questi tempi avea in Firenze le infrascritte signorie forestiere,
che ciascuna teneva ragione e avea corda da tormentare; cioè il
Potestà, il Capitano e difensore del popolo e delle Arti, l’Esecutore
degli Ordinamenti della giustizia, il Capitano della guardia ovvero
Conservatore del popolo, il quale avea più balía che gli altri. Tutte
queste quattro signorie aveano arbitrio di punire personalmente: e
più, il giudice della ragione e dell’appellagione, il giudice sopra
le gabelle, l’ufficiale sopra gli ornamenti delle donne, l’ufficiale
della mercatanzia, l’ufficiale dell’arte della lana: di ufficiali
ecclesiastici, la corte del vescovo di Firenze, la corte del vescovo di
Fiesole, l’Inquisitore dell’eretica pravità.
La città era dentro bene situata e albergata di molte belle case, e al
continovo in questi tempi s’edificava a farle viepiù agiate e ricche,
recando di fuori belli esempli d’ogni miglioramento: avea chiese
cattedrali e di frati d’ogni regola e magnifichi monasteri. Oltre a
ciò, non v’era cittadino popolano o grande che non avesse edificato
o che non edificasse in contado grande e ricca possessione con belli
edifici e molto meglio che in città; e in questo ciascuno ci peccava,
e per le disordinate spese erano tenuti matti. E sì magnifica cosa era
a vedere, che i forestieri non usati a Firenze venendo di fuore, i più
credevano per li ricchi edifici e belli palagi i quali erano tre miglia
intorno, che tutti fossero della città a modo di Roma; senza i ricchi
palagi, torri, cortili e giardini murati più di lungi alla città, che
in altre contrade sarebbono chiamate castella. Insomma, si stimava che
d’intorno alla città sei miglia aveva tanti ricchi e nobili abituri che
due Firenze non ne avrebbono tanti.

ENTRATE DEL COMUNE.
Il Comune di Firenze di sue rendite assise ha piccola entrata, come
si potrà vedere, ma reggevasi in questi tempi per gabelle; e quando
bisognava per le guerre, si reggeva per prestanza e imposte sopra le
ricchezze de’ mercatanti e d’altri singolari cittadini, con guiderdoni
sopra le gabelle. E in questi tempi queste infrascritte gabelle furono
levate per noi diligentemente da’ registri del Comune; e, come potrete
vedere, montavano l’anno circa a trecento mila fiorini d’oro, talora
più talora meno: che sarebbe gran cosa a un reame, nè il re Roberto ha
d’entrata tanti, nè quello di Sicilia nè quello d’Aragona.
La gabella delle porte, di mercatanzia e vittuaglia e cose ch’entravano
e uscivano della città, fiorini novanta mila dugento d’oro. La
gabella del vino a minuto, pagandosi al terzo, fiorini cinquantotto
mila trecento. L’estimo del contado, a soldi dieci per lira l’anno,
fiorini trenta mila cento. La gabella del sale, vendendo a’ cittadini
lo staio soldi quaranta di piccioli, e a’ contadini soldi venti,
montava fiorini quattordici mila quattrocentocinquanta: queste quattro
gabelle erano deputate alla spesa della guerra di Lombardia. I beni
de’ rubelli sbanditi e condannati valeano l’anno fiorini settemila.
La gabella sopra i prestatori ed usurieri, fiorini tremila. I nobili
del contado pagavano l’anno fiorini duemila. La gabella de’ contratti
valeva l’anno fiorini ventimila.[203] La gabella delle bestie e del
macello della città, fiorini quindicimila; quella del macello del
contado, fiorini quattro mila quattrocento; quella delle pigioni valeva
l’anno fiorini quattro mila centocinquanta. La gabella della farina e
macinatura, fiorini quattro mila dugentocinquanta. Quella de’ cittadini
che vanno di fuori in signoria, valeva l’anno tre mila cinquecento.
La gabella delle accuse e scuse, fiorini mille quattrocento. Il
guadagno delle monete dell’oro, fatte le spese, valeva l’anno fiorini
duemila trecento; quello della moneta de’ quattrini e piccioli, pagato
l’ovraggio, fiorini mille cinquecento. I beni propri del Comune e
passaggi valevano l’anno fiorini mille secento. I mercati nella città
delle bestie vive, fiorini duemila. La gabella del segnare pesi, misure
e paci e beni in pagamento,[204] fiorini secento. La gabella della
spazzatura d’Orto San Michele e prestare bigonce, fiorini settecento
cinquanta.[205] La gabella delle pigioni del contado, fiorini
cinquecento cinquanta; quella de’ mercati del contado, fiorini duemila.
Le condannagioni che si riscuotono, si ragiona vagliono fiorini
ventimila, e gli più anni montano troppo più. L’entrata de’ difetti
de’ soldati da cavallo e da piè valeva l’anno fiorini settemila.[206]
La gabella degli sporti delle case, fiorini settemila: quella delle
trecche e trecconi, fiorini quattrocentocinquanta. La gabella del
sodamento di portare l’arme valeva l’anno fiorini milletrecento
e soldi venti di piccioli per uno. L’entrata delle prigioni,[207]
fiorini mille. La gabella de’ messi, fiorini cento l’anno. Quella de’
foderi di legname che viene per Arno, fiorini cinquanta. La gabella
degli approvatori de’ sodamenti che si fanno, valeva l’anno fiorini
dugentocinquanta. Quella dei richiami de’ consoli delle Arti, la
parte del Comune si fa l’anno valere fiorini trecento. La gabella
sopra le possessioni del contado, fiorini......; quella delle zuffe
a mani vuote si fa l’anno fiorini.... La gabella di coloro che non
hanno case in Firenze, e vale il loro da fiorini mille in su,[208]
fiorini..... l’anno. Quella delle mulina e pescaie, fiorini..... Somma
da trecentomila di fiorini d’oro e più.

SPESE DEL COMUNE.
Sono qui notate quelle che appellavano spese ferme, cioè che erano di
necessità per anno: il fiorino d’oro valeva tre lire e soldi due di
piccioli.
Il salario del Potestà e di sua famiglia, l’anno, lire quindici mila
dugento quaranta di piccioli. Il salario del Capitano del Popolo
e di sua famiglia, lire cinque mila ottocento ottanta. Il salario
dell’Esecutore degli Ordini della giustizia contro a’ grandi con la
sua famiglia, lire quattro mila novecento. Il salario del Conservatore
del popolo e sopra gli sbanditi, con cinquanta cavalieri e cento
fanti, fiorini ottomila quattrocento d’oro l’anno: quest’ufficio non
è stanziale, se non come occorrono i tempi di bisogno. Il giudice
delle appellagioni sopra le ragioni del Comune, lire millecento.
L’ufficiale sopra gli ornamenti delle donne e altri divieti, lire
mille. L’ufficiale sopra la piazza d’Orto San Michele e della Badia,
lire milletrecento. L’ufficiale sopra la condotta de’ soldati, lire
mille. Gli ufficiali, notai e messi sopra i difetti de’ soldati,
lire dugentocinquanta. I camarlinghi della Camera del Comune e loro
ufficiali e massari e loro notai e frati che guardano gli atti del
Comune, mille quattrocento. Gli ufficiali sopra le rendite proprie
del Comune, lire dugento. I soprastanti e guardie delle prigioni, lire
ottocento. Le spese del mangiare e bere de’ signori Priori e di loro
famiglia costa l’anno lire tremila secento. I salari dei donzelli
e servitori del Comune, e campanai delle due torri, cioè quella de’
Priori e quella del Potestà, lire cinquecento cinquanta. Il Capitano,
con sessanta fanti che stanno al servizio e guardia de’ signori Priori,
lire cinque mila dugento. Il notaio forestiere sopra le Riformagioni
e il suo compagno, lire quattrocentocinquanta. Il cancelliere del
Comune e il suo compagno, lire quattrocentocinquanta. Per lo pasto de’
Lioni;[209] torchi e candele e panelli per li Priori, lire duemila
quattrocento. Il notaio che registra nel Palagio de’ Priori i fatti
del Comune, lire cento. I messi che servono tutte le signorie, per
loro salario, lire mille cinquecento. I trombatori, sei banditori del
Comune, naccherini, sveglia, cornamusa, cennamelle, trombette in numero
dieci con trombe d’argento, per loro salario, lire mille. Per limosine
a religiosi e spedali, l’anno, lire duemila seicento. Guardie, che
guardavano di notte alle porte della città, lire diecimila ottocento.
Il palio di sciamito che si corre l’anno per san Giovanni, e quelli
di panno per san Barnaba e per santa Reparata, costano l’anno fiorini
cento d’oro. Per ispese in spie e messi che vanno fuori per lo Comune,
lire milledugento. Per ambasciatori che vanno per lo Comune, stimati
l’anno fiorini cinquemila d’oro e più. Per castellani e guardie
di rôcche le quali si tengono per lo Comune di Firenze, fiorini
quattromila. Per fornire la Camera dell’arme di balestre, sagittamento
e palvesi, fiorini mille cinquecento d’oro. Somma l’opportune spese,
senza i soldati a cavallo e a piedi, fiorini quarantamila d’oro e più
l’anno. A’ soldati a cavallo e a piedi non ci ha regola nè numero
fermo, ch’erano talora più e talora meno, secondo i bisogni che
occorrevano al Comune; ma al continuo si può ragionare, senza quelli
della guerra di Lombardia, non facendo oste, da settecento in mille
cavalieri e altrettanti pedoni continuamente. Non facciamo conto delle
mura e de’ ponti e di Santa Reparata (cioè della fabbrica del Duomo),
e di più altri lavori di Comune, che non si possono mettere in numero
ordinario.[210]


CAPITOLO VI.
GUERRA CON L’ARCIVESCOVO DI MILANO. — TRATTATO CON L’IMPERATORE
CARLO IV. — IL MAGISTRATO DI PARTE GUELFA. — ALBIZZI E RICCI. [AN.
1349-1358.]

I nuovi acquisti che la Repubblica in molti anni aveva fatti e
componevano il distretto, erano per la cacciata del Duca d’Atene
perduti, come noi già notammo; ed a Firenze non rimaneva se non
l’antico suo contado, quale forse era anche nei secoli imperiali, ma
sgombro però dalle giurisdizioni baronali o dai castelli che d’ogni
parte ed a molto piccole distanze erano attorno alla città. Il danno
però non si deve credere che fosse quale sarebbe al tempo nostro il
farsi piccolo uno stato grande, perchè il nerbo della ricchezza era
dentro alla città stessa, componendosi l’entrate quasi interamente di
gabelle cittadine: i luoghi soggetti si amministravano da sè stessi,
perchè il diritto municipale era tenuto cosa inviolabile; e quel che
andasse alla Repubblica, portava il carico della guardia: veramente
il maggiore scapito era dei potenti cittadini che risedevano nelle
terre suddite o potestà o capitani, o con altro titolo ed ufizio;
e vi acquistavano clientele, e avvantaggiavano l’interesse loro.
Certamente la potenza della Repubblica fiorentina veniva ad essere
menomata di tutto il numero di quei soldati ch’essa imponeva in caso
di guerra per ciaschedun luogo del dominio, e questi dovevano tenere
in campo a spese loro: ma per tale rispetto avergli amici o averli
sudditi veniva quasi all’effetto stesso; e sino a tanto che le città
e le altre terre si governassero a parte guelfa o popolare, di cui
Firenze stava a capo, avevano queste necessità uguale di difenderla,
perchè i nemici erano comuni. Laonde bastava alla Repubblica mantenere
nelle terre circostanti le signorie popolari; ed agli acquisti era
condotta (quando non fosse dalle ambizioni) più che altro dal bisogno
di assicurare quella parte, e di opprimere la contraria. Tollerò quindi
pazientemente le fatte perdite, e le sudditanze cercò mutare in amistà,
finchè gli umori che in esse nutriva non facessero un’altra volta quei
luoghi medesimi cadere sotto alla tutela sua, o alla Repubblica non
abbisognasse per sua propria difensione porvi la mano ed assicurarsene.
Nell’anno 1349 Colle di Valdelsa tornò in potere dei Fiorentini, i
quali ebbero in quella mossa d’un tratto solo anche San Gimignano,
nobile terra e cospicua sempre per le alte torri che ivi rimangono
in molto numero tuttavia, per gli edifici e per le pitture di cui
l’ornarono i buoni artisti che in essa ebbero nascimento:[211] la quale
però certo è che venne a decadere, perduto ch’ebbe con l’indipendenza
la pienezza della vita, e i vivi impulsi dati agli animi, e il sempre
intendere a maggiori cose, dal che i popoli si fanno illustri e poi
consumano sè medesimi. Matteo Villani scrive che i Sangimignanesi
d’allora in poi dimenticate le contenzioni vissero in pace, badando
ognuno a’ fatti suoi: anche Firenze alla sua volta, dopo il corso di
altri due secoli, ebbe in sorte la stessa pace. Vedemmo già come la
terra di Prato si fosse data in perpetuità al Duca di Calabria per non
volere la signoria de’ Fiorentini: ora nell’anno 1350 la comperarono
questi per diciassette mila cinquecento fiorini d’oro dalla regina
Giovanna di Napoli figlia di quel Duca, bisognosa di moneta e che
aveva altro da pensare: al quale mercato diede mano il gran Siniscalco
Niccolò Acciaiuoli fiorentino, ch’era ogni cosa in quella corte. E per
essere signoria libera, la recarono a contado; diedero l’estimo ai
Pratesi, e i privilegi come ai cittadini del Comune di Firenze: gli
antichi ordini annullarono ristringendo la giurisdizione dei Rettori
cittadini, e tirarono a Firenze presso alla corte del Potestà tutti i
giudizi di maggior conto: lo stesso fecero a San Gimignano. In Prato
soleva dominare la famiglia dei Guazzalotri;[212] sette di questi, i
Fiorentini perchè sapevano dovere essere malcontenti, tratti in Firenze
con lieve scusa, fecero tutti decapitare per sola iniqua ragion di
Stato. Ma il sangue sparso dei Guazzalotri tosto rimase dimenticato:
ebbero infamia i Veneziani da quello più illustre dei signori da
Carrara uccisi con tale parità di circostanze che raro incontrasi nelle
storie. Avuta Prato, i Fiorentini volsero l’animo a Pistoia. Ribelle
non era, perchè la dedizione era stata a tempo; ma ora cogliendo il
pretesto delle consuete divisioni, dapprima ottennero porvi guardia di
pochi soldati, con che giurassero mantenere lo stato presente; questi,
guidati da un leale cavaliere Andrea Salamoncelli da Lucca, stettero
contro a certo assalto che per sorpresa e con inganno i rettori di
Firenze vollero mattamente dare alla città.[213] Contro alla quale
andati poi con oste molto più numerosa (e vi furono tra gli altri
duemila cittadini di Firenze sotto sedici pennoni), ebbero Pistoia per
accordo nel mese d’aprile 1351; e postavi guardia, riformarono lo stato
di quella città, rimettendovi la famiglia dei Cancellieri, ch’erano più
guelfi e più amici dei Fiorentini.[214]
Il tempo stringeva, e questi avevano buon motivo ad assicurarsi di
Pistoia contro a un pericolo soprastante. Un gran delitto si commetteva
allora in Italia, e tale fu che ne rimanesse perenne infamia tra
le politiche scelleratezze di quella età: Giovanni de’ Pepoli, il
quale teneva dal padre trasmessa la signoria di Bologna, vendè per
dugentomila fiorini d’oro la patria sua all’arcivescovo di Milano
Giovanni Visconti. Era Milano città più atta a nutrire la potenza
che a vivere in libertà; di qui la grandezza della casa dei Visconti.
Quell’Arcivescovo possedeva tra Lombardia e Piemonte ventidue città;
aveva la mano nelle cose di Romagna fin presso a Roma, allora vuota
della sedia pontificia; e da Bologna distendeva le armi sue facendo
vista di occupare Pistoia, per indi invadere la Toscana. Il trattato
d’una lega con Siena e Perugia e con Mastino della Scala, pel quale
si tenne congresso in Arezzo, non ebbe effetto per le lungaggini
consuete dei Consigli, e per la morte di Mastino: il figlio di lui
si strinse invece all’Arcivescovo, il quale aveva già fatto lega
co’ Ghibellini di Lombardia e co’ signorotti di Toscana. Ma co’
Fiorentini tranquillava; ed essi contenti d’avere Prato e Pistoia, non
si provviddero altrimenti, e non elessero Capitano. Nemmanco avevano
posto guardia al forte passo della Sambuca, pel quale ad un tratto
Giovanni dei Visconti da Oleggio scendeva in gran forza giù nel piano
di Pistoia. Quivi gli giunsero ambasciatori del Comune di Firenze,
a’ quali rispose esser egli mandato dal suo signore a mettere pace
ed a cessare le divisioni, raddirizzando le cose di tutta Toscana:
gli ambasciatori se ne tornarono. E l’Oleggio, che al vedere Pistoia
essere ben guardata non ebbe animo d’assalirla, tirando innanzi
conduceva l’esercito a Campi e fin sotto alle mura di Firenze: dove
stato pochi giorni senza alcun pro, gli convenne per mancamento di
vettovaglia, volgendo addietro per la Valle di Marina, andare a porsi
nella pianura larga e doviziosa del Mugello; non senza essere infestato
molto prima d’entrarvi dai contadini volenterosi ma sprovveduti, che
abitavano quella valle. Di qui l’esercito del Biscione (questo nome gli
davano per la biscia ch’era l’arme dei Visconti) muoveva contro alla
Scarperia, e vi pose assedio: a spalle aveva gli Ubaldini che a lui
rendevano sicura la via di Bologna, intantochè i Tarlati e gli altri
Ghibellini di verso Arezzo si erano mossi: quell’indomabile vecchio di
Piero Saccone, in età allora di ottanta anni o più, disperse l’aiuto
dei Perugini ch’era avviato a soccorrere la Scarperia. I Fiorentini,
che da principio all’appressarsi dei nemici avevan sospetto di quei di
dentro la città, pigliato animo, inviavano quante più genti potessero,
ma senza ordine nè capo, alla volta del Mugello: ad un Visdomini e
ad un Medici venne fatto penetrare con loro gran lode nell’assediato
castello; il quale non bene per anche cinto di mura, ma di fossi e di
steccati, resisteva oltre a due mesi, tornando vani i molti assalti che
ad esso diedero gli inimici;[215] e nell’ottobre di quell’anno 1351,
tanto apparato di forze cadeva dinanzi a un ignobile castello e a una
Repubblica disarmata. Ma per questa era la volontà dei popoli, che alla
difesa del patrio suolo da sè bastavano; la potenza dell’Arcivescovo
non aveva fermezza d’ordini sufficienti nè a comporre uno Stato forte
nè a tentare le imprese grandi.
I Fiorentini contuttociò si reputavano mal sicuri, se tanta mole
di principato si mantenesse in Lombardia: quindi sprovvisti di ogni
altro aiuto, i Papi essendo in Avignone e le fortune dei re Angiovini
condotte al basso da una rea femmina; veduta ch’ebbero manomessa per
l’occupazione di Bologna la compagnia delle città libere delle quali
erano essi a capo, deliberarono accostarsi fra tutti i principi a
quell’uno, a cui dovesse più dare ombra il veder sorgere in Italia una
potenza di quella fatta: ed era questi l’Imperatore.[216] La famiglia
dei Visconti aveva nome di ghibellina: ma questo nome già invecchiato,
più non valeva che oppressione della vita popolare, senza concetto
di unità;[217] l’Italia s’era da cento anni avvezza a fare senza
l’Imperatore, e gli stessi Ghibellini veniano in fatto a disconoscere
quella suprema autorità che prima era la forza loro. Carlo IV di Boemia
voleva scendere in Italia a pigliare la corona, ma senza esercito
che lo accompagnasse, era contento di porre in salvo il principio del
diritto, rifugio ultimo delle potestà scadute; e si appagava d’ogni
omaggio, a lui parendo fare assai quando ottenesse di autenticare
le franchigie delle città che si reggevano a repubblica; usato modo
anche in Alemagna. Per queste cose ebbe Carlo IV dai suoi taccia di
semiguelfo; ed egualmente i Fiorentini quando era caso di mantenere o
d’ampliare lo Stato loro, non la guardavano per minuto. Aveano chiamato
già nell’anno 1308 il re d’Aragona contro a’ Pisani nella Sardegna, e
poi gli vedemmo sotto le mura di Lucca condurre le insegne ai Guelfi
odiose di Lodovico di Baviera: ma il patteggiarsi ora con Cesare tirava
seco altre conseguenze.
Nelle repubbliche emancipatesi dalla imperiale soggezione, il fatto
stava contro al diritto: dottrinalmente non rinnegavano esse quell’alta
sovranità che i legisti mantenevano e in questo popolo tanto guelfo
viveva sempre l’idea imperiale non di possesso ma di giurisdizione;
romano infine era l’Impero qual che si fosse l’imperatore, e le due
somme potestà si congegnavano per tal modo che l’una all’altra erano
necessarie. Le provvisioni della Repubblica troviamo sottoscritte da
notari e da cancellieri, i quali s’intitolano _imperiali auctoritate
notarius, imperiali auctoritate judex_. Certo che un principe alemanno
male si vede come avesse buone ragioni sulla Toscana, dappoichè ebbe
essa rinvenuto in sè medesima la sua vita; ma quale si fosse quella
imperiale supremazia, valeva però generalmente nella cristianità;[218]
e dove manchi o non sia ben ferma l’idea d’un diritto da tutti ammesso
e positivo, nè il comandare nè l’ubbidire avranno limite nè certezza,
ogni uomo facendo autore sè del suo diritto. Ora ai politici Fiorentini
sanare questa illegalità pareva essere cosa buona e da non perderne
l’occasione, taluni forse avendo anche nel più segreto pensiero loro
di tutte poi accomunare le forze vive della città, togliendo via quelle
esclusioni che molti ancora male pativano; ma quindi ebbero incremento,
se troppo male non ci apponiamo, le divisioni di nuovo sorte, che poi
turbarono la Repubblica.
Chiamato da quelli che tenevano lo Stato,[219] era venuto in Firenze
a trattare dell’accordo, verso la fine di quell’anno 1351, un tedesco
vicecancelliere di Carlo eletto re dei Romani; e dimorato segretamente
tutto quel verno in San Lorenzo, dove i commissari del Comune la
notte andavano a parlamentare seco, andò la pratica molto innanzi.
Ma non si venne a conclusione finchè nell’aprile dell’anno vegnente,
fatti certi come l’Arcivescovo, per corruttele e per minaccie[220]
nella corte Avignonese, avesse condotto il debole papa Clemente
VI a riconciliarsi seco ed assolverlo dalle scomuniche, fino ad
investirlo della città di Bologna e a lui mostrarsi molto propenso; i
Fiorentini, rimasti soli co’ Perugini e co’ Senesi contro alle forze
dell’Arcivescovo, si accordarono per la chiamata di Carlo in Italia,
e pubblicarono il trattato.[221] Promise il detto vicecancelliere
che dentro luglio verrebbe Carlo in Italia; ed oltre ai patti
consueti del fornire cavalieri e del pagare moneta, i Fiorentini
si obbligavano a riconoscerlo come Imperatore vero, con che egli
assolvesse quei tre Comuni dalla condennagione in che erano incorsi
fino dal tempo di Arrigo VII, gli privilegiasse dei dominii e terre
che essi avevano acquistate, mantenesse gli statuti della libertà dei
detti Comuni; i Priori di Firenze e i Nove di Siena si denominassero
vicari dell’Imperatore mentre che fossero in ufficio: promettevano
i Fiorentini pagare ogni anno in nome di censo danari ventisei per
focolare, tributo di sudditanza che le città istesse riscuotevano dai
luoghi minori secondo i patti di dedizione; e gli altri Comuni, quello
che era consueto all’Imperatore per antico. Subito poi furono mandati
a Praga a Carlo ambasciatori per la ratificazione del trattato: ma tra
le poche forze di lui da stare a petto de’ Visconti, e che gli dicevano
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