Storia della Repubblica di Firenze v. 1/3 - 08

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la prevalente massa dei minori faceva gran siepe attorno ad essi.
Certo che abolire i vassallaggi feudali e fare le leggi usbergo ai
deboli anzi che flagello in mano dei forti, erano cause se altre mai
giustissime e sante: ma gli uomini sogliono fare male anche le buone
cose; per il che i signori turbati o minacciati nelle possessioni loro
del contado, ed oggi angariati dove solevano angariare; e come quelli
ch’avevano l’arme in mano, ed un seguito di loro fedeli e contadini dei
quali aveano forse vantaggiato studiosamente le condizioni; i signori,
dico, anzichè potessero alla lunga fare col popolo buona compagnia,
venivano spesso alle ferite ed agli oltraggi ed agli omicidi,
massimamente nel contado inverso ai piccoli cittadini; ed allegando
quelli che prima erano diritti ed ora violenze, facevano forza nei
beni altrui. Viveano tuttora de’ magnati che aveano veduto il ceto
loro essere ogni cosa avanti al 1250, ed erano sempre in condizioni da
soverchiare quella civile egualità sopra la quale si voleva ora fondare
lo Stato: vi erano Comuni, dei quali il governo era in mano di militi
o nobili.[87] Quindi è che parve cosa giusta fare contr’essi leggi
disuguali e per sè ingiuste, dove le ire servivano di fonte al diritto.
Al che si offriva molto buona l’occasione, perchè i grandi aveano tra
loro brighe e discordie che le maggiori non ebbero mai dopo il ritorno
della parte guelfa. Guerra tra gli Adimari e i Tosinghi, tra i Rossi
e i Tornaquinci, tra i Bardi e i Mozzi, tra i Gherardini e i Manieri,
tra i Cavalcanti e i Buondelmonti, tra Frescobaldi e Frescobaldi, tra
Donati e Donati, ed in molte altre casate: prima le sêtte dei violenti
sè stessi offendono con le proprie mani, e indi periscono per le
altrui.
Correndo l’anno 1293 alcuni uomini dabbene, artigiani e mercatanti di
Firenze, si posero insieme cercando rimedi a quel disordine; e capo di
essi fu un valentuomo, antico e nobile cittadino ricco e possente, di
grande autorità presso i Guelfi, nominato Giano della Bella. Si trovò
egli dei Signori i quali entrarono in ufficio ai 15 di febbraio,[88]
e cogliendo l’opportunità dell’arbitrato ch’era consueto fare per la
correzione delle leggi, formarono quelli statuti contro a’ nobili che
furono chiamati Ordinamenti della giustizia. Per questi erano decretati
gastighi ai grandi che oltraggiassero i popolani, raddoppiando contro
loro le pene comuni; prescrivendo che l’un congiunto fosse tenuto per
l’altro, e che i maleficii si potessero provare per due testimoni di
pubblica fama; pena barbara e dettata dai feroci odii cittadineschi era
il disfare le case.
Gli Ordinamenti della giustizia furono in seguito ampliati, e ne
abbiamo assai redazioni. Lo Statuto Fiorentino comprende tutto intero
l’arsenale delle leggi e ordini contro ai grandi, e noi da esso abbiamo
tolti alcuni punti qui sotto notati, i quali sieno schiarimento a
questa materia.[89] Non potevano i magnati accusare nè testimoniare,
nè stare in giudizio contro a’ popolani senza il consenso dei Priori
(_Statut., Rub._ 43 _et alibi_); ma per contrario non si ammettevano
eccezioni a favor loro contro ai testimoni popolani: non abitare dove
commisero malefizi, nè presso ai ponti centocinquanta braccia (_Rub._
49, 50): non uscire di casa in tempo di rumore, nè altri andare
alle loro case; non assistere accompagnati da masnadieri in arme ai
funerali, monacazioni o nozze fuori della famiglia loro (_Rub._ 46,
47, 48): quando il Gonfaloniere andasse per la città in ufizio, alcun
grande non poteva mostrarsi in quel luogo (_Rub._ 44). La Rubrica
24, sotto il titolo _de causis faciendi magnates_, contiene la forma
del processo e del giudizio spettante ai Priori e ai Collegi delle
Arti, pel quale un uomo o una famiglia popolana erano fatti grandi;
il che faceva cadere sopra essi tutti i divieti dagli ufizi e tutte
le pene di chi fosse nato dentro a quell’ordine. Bastava un solo
testimonio _de visu_ e due di pubblica fama, o solamente quattro di
questi ultimi (_Rub._ 23): un tamburo o cassetta murata era posta
innanzi la casa dell’Esecutore per le denunzie segrete (_Rub._ 96).
Dovevano i grandi dare sicurtà per le offese e pel pagamento delle
multe a cui venissero condannati (_Rub._ 33): ma era proibito ad essi
fare accatto od imprestito per il detto pagamento, con pena anche ai
prestatori (_Rub._ 9 degli _Ordinamenti di giustizia_): i popolani non
denunzianti l’ingiuria sofferta dai grandi pagavano multa (_Statut.,
Rub._ 68); ma era permesso anche ai grandi battere in casa impunemente
i servi loro, e in ciò si stava al gius comune (_Rub._ 69). Minutamente
si provvedeva contro agli acquisti ed occupazioni di beni fatte dai
magnati a pregiudizio dei popolani o delle chiese e dei conventi. In
certi casi erano i grandi fatti sopraggrandi; il che importava, oltre
alla perdita di ogni beneficio o attenuazione ad essi concessa, anche
il divieto di abitare ulteriormente in quel luogo della città o del
contado dove solevano e dove erano per l’addietro le case loro (_Rub._
31). I popolani consorti dei magnati non potevano abitare nello stesso
quartiere in Firenze o nella stessa pievania in contado che i magnati
consorti loro, nè tenerli come tali, nè immischiarsi nelle loro brighe
(_Rub._ 23). I magnati che per favore divenivano popolani, avevano
obbligo di mutare le armi delle famiglie loro (_Rub._ 41).
A ciò queste leggi avessero certa e permanente esecuzione, ordinarono
contemporaneamente che al novero dei sei Priori fosse aggiunto un
Gonfaloniere di giustizia, da rinnovarsi ogni due mesi (cosicchè ogni
anno uno ne avesse ciaschedun sesto della città); a lui consegnando
il Gonfalone del popolo col campo bianco e la croce rossa, con mille
eletti pedoni, pronti a muovere ad ogni suo ordine e richiesta contro
ai grandi: e perchè la prima cosa a lui commessa era disfare le case,
troviamo oltre a’ fanti essere centocinquanta maestri di pietre e di
legname, e cinquanta picconieri armati di buoni picconi e di scuri e
di altri arnesi cosiffatti. Baldo Ruffoli fu il primo in quell’ufficio
di Gonfaloniere, che poi rimase e fu il supremo tra i magistrati della
Repubblica per tutto il tempo ch’essa ebbe vita: i vecchi Signori
con certi aggiunti o _arroti_ elessero i nuovi. Le Arti maggiori e
le minori rappresentate dai loro consoli ebbero Balía, per la quale
procedettero a cosiffatti ordinamenti. I mille pedoni del Gonfaloniere
furono in seguito aumentati fino al doppio, poi a quattromila;
cinquecento erano somministrati dai pivieri suburbani.
Riordinarono a questo effetto nel contado quelle che appellavano Leghe
del popolo, secondo abbiamo più sopra descritto. Si componevano esse
di comunelli e di parrocchie unite tra loro come in piccole federazioni
che s’amministravano da sè, ma governate da un vicario o capitano della
Repubblica, per mezzo del quale imponeva essa all’occorrenza le taglie
in uomini e in danaro.[90] Le aggregazioni erano mutabili, ma ogni
popolo doveva appartenere a una di esse leghe. Le quali avean obbligo
di stare a difesa di parte guelfa cacciando i ribelli e gli sbanditi,
o conducendoli nelle forze del Comune; opporsi a qualunque violenza e
incendi e rapine, facendo osservare contro a’ grandi gli Ordinamenti
della giustizia; venire al soccorso della città e del popolo di Firenze
armati e presti ad ogni chiamata. La Repubblica aveva le gabelle dei
mulini, gualchiere, mercati e pedaggi; insomma, quasi una signoria
feudale sopra le leghe, le quali da sè provvedevano alle interne
spese per via di tasse o penalità liberamente imposte ed amministrate:
eleggevano a questo fine i loro propri Gonfalonieri e Pennonieri ed un
Consiglio pel governo della lega; ma sopra questi era l’alta vigilanza
dei magistrati della Repubblica, la quale obbligava gli eletti ad
accettare gli ufizi e ad amministrarli sinceramente e virilmente.
Nello stesso anno 1293, per fortificare il governo del popolo e
per abbattere sempre più il potere dei grandi, chè spesso la guerra
gli rinvigoriva, i Fiorentini acconsentirono a fare pace co’ Pisani
affievoliti e abbassati dalla fortuna delle armi: i Pisani rimandassero
il conte Guido di Montefeltro riponendo i Guelfi, e avessero in Pisa i
Fiorentini libera franchigia, senza pagare gabella di loro mercatanzie.
A detta pace intervennero i Lucchesi ed i Senesi e tutte le terre della
lega guelfa di Toscana. In questo tempo era tanto il tranquillo stato,
che dì e notte non si chiudevano le porte della città; nè vi avea
gabelle; ma essendovi bisogno di moneta, anzichè porre balzelli, si
vendevano le mura vecchie e i terreni dentro e di fuori ai confinanti.
Ed il Comune rivendicò parecchie sue giurisdizioni sulle terre del
distretto.[91] Così nel cominciamento di questo nuovo Stato si fece
molto di bene al Comune, ed a ciascuno cui per l’addietro fossero
dai potenti state occupate le possessioni, furono restituite. Riebbe
il Comune per questo modo la giurisdizione intera di Poggibonsi, che
si reggeva prima da sè, e di Certaldo e di Gambassi e di Loro e di
altre terre, e molte possessioni state prima occupate dai Conti e
nel Mugello dagli Ubaldini, e in città lo spedale di sant’Eusebio,
nel quale i grandi avevano poste le mani. Il popolo era molto fiero e
caldo dentro e al di fuori, ed in signoria. L’autore di un maleficio
essendosi fuggito in Prato, mandarono i Signori un messo a richiederlo:
e perchè i Pratesi, allegando la libertà loro, negarono darlo, gli
condannarono a pagare lire diecimila e che lo rendessero. Stavano
sempre disubbidienti; ma quando udirono mosse le masnade dei Fiorentini
inverso Prato, diedero i danari e il malfattore.
De’ primi ad essere puniti, secondo le leggi novellamente poste, furono
i Galigai, uno dei quali rissando aveva ucciso in Francia un popolano.
Dino Compagni, istorico di quei fatti e che fu il terzo Gonfaloniere di
giustizia, col gonfalone e le armi andò alle loro case ed a quelle dei
loro congiunti, e le fece disfare secondo le leggi. Questo principio
fu pernicioso ai Gonfalonieri seguenti (così Dino); perchè se le
disfacevano secondo le leggi, il popolo diceva che erano crudeli, e
che erano vili, se non le disfacevano bene affatto: quindi avvenne che
molti sformarono la giustizia per tema del popolo. Uno dei Buondelmonti
avendo commesso un maleficio di morte, gli furono disfatte le case per
modo che dipoi ne fu ristorato. Pochi maleficii si nascondevano, che
dagli avversari non fossero ritrovati; ma la giustizia però, o a dir
meglio le vendette, si facevano disegualmente. I giudici ossia tutta
la turba dei legisti che insieme ai rettori o magistrati forestieri
intervenivano nei giudizi, diversamente corrotti o parteggianti in
vario modo, ingarbugliavano le ragioni, ed era lagnanza che tenessero
sospese lungamente le questioni e ogni ragione si confondesse. Troppo
gran braccio dato ai giudici cresceva il male che era inerente alla
ingiustizia delle leggi, da cui pigliavano scusa i giudici a non
mantenerle. Ma i grandi di questo fortemente si dolevano, ed agli
esecutori di esse dicevano: «un caval corre e dà la coda nel viso
a un popolano; o in una calca uno darà di petto senza malizia ad un
altro, o più fanciulli di piccola età verranno a questione; gli uomini
gli accuseranno; e se battiamo un nostro fante, dobbiamo noi essere
disfatti?» Giano della Bella, uomo di grande animo e tanto ardito che
difendeva quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che altri
taceva, era tutto contro a’ colpevoli; e tanto era temuto dai rettori,
che non osavano nascondere i maleficii. Allora i grandi cominciarono a
parlare contro a lui, e abbominando le leggi, minacciavano di squartare
i popolani che reggevano. Tali minaccie rapportate furono cagione che
questi sempre più inacerbissero, e per paura e sdegno inasprissero le
leggi; sì che da ciascuna parte l’odio si raddoppiava.
Il magistrato di parte guelfa era la sede e la fortezza dove i grandi
ritenevano tuttora il grado che in altri uffici era loro dinegato;
e per lunghi anni vedremo noi contro agli artefici accesa la guerra
di quel magistrato, rifugio ultimo che rimanesse alla ingerenza dei
magnati. Quelli che ne erano capitani, solevano essere cavalieri; e
contro a questi aveva ordinato Giano, che le famiglie dove fossero
uomini aventi il grado di cavaliere, s’intendessero dei grandi e
fossero inabili ad essere dei Signori, o ad aver luogo nei Collegi:
queste famiglie furono trentatre.[92] Si trova altresì che Giano
volesse togliere ai Capitani di parte guelfa il suggello ed il mobile
o patrimonio della Parte, che era cresciuto in quegli anni, come era
stato l’intendimento della sua prima istituzione: ma ora Giano volea
quei beni recare in comune, non già che fosse egli poco guelfo, ma per
abbassare i grandi che dominavano quell’ufficio. Con essi andavano
uomini potenti, i quali non tutti erano nobili di sangue ma per
altri accidenti chiamati grandi,[93] e molti che aveano co’ magnati
parentela. A questi erano da aggiugnere non pochi uomini di famiglie
nobili per ambizione fatte di popolo, ma cui sarebbe piaciuto meglio
avere grado dalla nobiltà loro, che non sedere nei Consigli come
speziali o lanaioli. Tutti costoro male pativano l’uguaglianza delle
leggi, ed astiavano l’autorità di Giano, e la parte troppo grande
da lui toltasi nello Stato. Toccando quel tasto il quale sapevano
in Firenze essere il più sensitivo, spargevano ch’egli col togliere
forza al magistrato di parte guelfa volesse di cheto dare mano ai
Ghibellini e fargli salire di bel nuovo in signoria: in ogni tempo
questa fu l’arte dei potenti Guelfi, tenere il popolo a sè ubbidiente
con la paura dei Ghibellini; la quale valse allora non poco a sgominare
la parte stessa che era con Giano stata da prima, e per siffatti
sollevamenti a rigonfiare la feccia plebea. Era uno chiamato Pecora,
gran beccaio protetto dai Tosinghi, il quale faceva la sua parte con
falsi modi e nocivi alla Repubblica: tutti l’avevano in odio, persino
gli altri dei beccai, perchè le sue malizie usava senza timore,
minacciava i rettori e gli ufficiali, e profferivasi a malfare con
grande nerbo di uomini armati. Giano, ambizioso di stare contro a ogni
disordine egli solo, bentosto si ebbe tirato addosso molto gran piena
d’inimicizie; i grandi attizzavano le gelosie de’ falsi amici, e le
invidie popolari, e la malizia dei giudici, e le ree opere de’ beccai.
Si congiurarono contro lui; congreghe si facevano in casa dei grandi;
il partito d’uccidere Giano, più volte posto, non ebbe seguito; gli
artifiziosi consigli prevalsero. «Ed io (scrive Dino) gli palesai la
congiura un giorno che io era con molti, e tra essi dei falsi popolani,
per raunarci in Ognissanti, e Giano se n’andava a spasso per l’orto; e
mostraili come lo faceano nemico del popolo e degli artefici, e che il
popolo gli si volgerebbe contro.»
Così accesi erano gli animi, allorchè messer Corso Donati, de’ più
nobili e possenti cittadini di Firenze, ebbe parte in una zuffa nella
quale per alcuni suoi familiari e consorti era stato morto un popolano
ed alcuni altri feriti. Correndo il gennaio del 1295, fu presentata
l’accusa da ambe le parti, ed il processo era venuto innanzi al potestà
Gian di Lucino da Como, cavaliere di gran senno e bontà. Il popolo era
contro a messer Corso e attendeva che il Potestà lo condannasse. Già
il gonfalone della giustizia era stato tratto fuori, quando il Potestà
(dicono) ingannato da un suo giudice, assolvè il Donati e condannò
gli avversari suoi. Il popolo minuto credette che ciò avesse fatto
per danari, e uscendo a corsa dal palagio, gridò ad una voce: muoia
il Potestà! al fuoco, al fuoco! all’armi, all’armi! viva il popolo! Si
armarono allora e trassero a furia al palagio del Potestà con stipa per
ardere la porta. Giano, che era coi Priori, udendo il grido, esclamava:
io voglio andare a campare il Potestà dalle mani del popolo. E monta a
cavallo e si presenta alla moltitudine, esortandola di richiamarsi in
debito modo al Gonfaloniere di giustizia; ma la plebe forsennata gli
rivolta contro le lancie e lo costringe a tornare indietro. Anche i
Priori scendono in piazza col Gonfaloniere per attutare quel furore,
ma invano; chè il popolo invade il palagio, pone a ruba i cavalli e
gli arnesi del Potestà, straccia i processi, pone le mani addosso alla
sua famiglia, ed in quella rabbia commette di mille strane cose. Il
Potestà e la sua moglie, gentildonna di gran bellezza, menata da lui
di Lombardia, spaventati chiamando la morte si erano rifugiati nelle
case de’ Cerchi: messer Corso, che era pure nel palagio, non per anche
terminato, fuggì per i tetti. «Il dì seguente si radunò il Consiglio e
per onore della città fu deliberato, che le cose rubate si rendessero
al Potestà, e che del suo salario fosse pagato: e così fecesi, ed ei
partissi.»
La città rimase in gran disordine: i cittadini buoni biasimarono
quello che era stato fatto, altri ne dava la colpa a Giano cercando
cacciarlo o farlo mal capitare, e diceano: poichè cominciato abbiamo,
osiamo il resto. I grandi e i giudici e notai con molti popolani
grassi, amici e parenti de’ grandi, accordatisi contro lui, fecero
sì che i nuovi Priori loro aderenti formassero inquisizione contro a
Giano e suoi seguaci per aver messo la terra a romore. Ma il popolo
minuto per ciò grandemente conturbato si affollò attorno alla casa di
Giano, profferendosi di esser con lui in arme a difenderlo e correre
e combattere la terra. E già un suo fratello avea tratto in Orto san
Michele un gonfalone dell’arme del popolo; ma Giano vedendosi tradito
ed ingannato da quelli stessi che erano stati con lui a fare il popolo,
e conoscendo che la loro forza unita a quella dei grandi era molto
potente, e che tutti già si erano assembrati in arme attorno al palagio
dei Priori, abborrì dalla guerra civile. I Magalotti suoi parenti,
famiglia che aveva tra gli artefici grande seguito, lo consigliarono
che a cansare quei primi impeti si assentasse alquanti giorni dalla
città. Ed egli, cedendo al malo consiglio, si partì di Firenze il
3 marzo 1295: subito fu sbandito, e condannato negli averi e nella
persona, e la sua casa rubata e mezzo disfatta. Si aggiunse ai suoi
danni anche il papa Bonifazio VIII, come si rileva da un breve assai
violento contro a Giano, fino a bandire la scomunica contro a chiunque
lo favorisse; in essa involvendo tutta la città, nel caso che Giano
vi fosse tornato, e ordinando sotto le censure stesse il bando anche
di un suo fratello e di un nipote. Aveva egli l’anno innanzi avuto
in Pistoia, dov’era andato potestà, gravi dissidii col vescovo, pe’
quali perdette la potesteria; e pochi giorni innanzi l’esiglio da
Firenze, ebbe in Pistoia condanna di ribello egli ed una figlia di lui
maritata. L’istoria non mai si conosce tutta intera; e in questo fatto
noi troviamo Bonifazio sin da’ primi giorni del pontificato avere posto
le mani nelle cose di Firenze, e ordite già quelle intelligenze nella
città che indussero poi mutazioni tanto gravi.[94]
Moriva Giano esule in Francia. «Ciò fu gran danno alla città nostra,
scrive Giovanni Villani, e massimamente al popolo, perchè egli era il
più leale e diritto popolano, e amatore del bene comune, che uomo di
Firenze, e quegli che mettea del suo in comune e non ne traeva. Era
presuntuoso e volea le sue vendette fare, e fecene alcuna contro gli
Abati suoi vicini col braccio del Comune: e forse per gli detti peccati
fu per le medesime leggi, benchè a torto e senza colpa, giudicato.[95]»
Lasciava Giano di sè gran traccia nella Repubblica di Firenze, che
dall’ufficio del Gonfaloniere avrebbe pigliato maggiore forza e
stabilità, se era creato a più lungo tempo. Ma il voto di lui e del
Villani e del Compagni e degli altri buoni popolani, quello di mettere
in comune il governo dello Stato cosicchè ad esso partecipassero le
Arti maggiori e le minori e il popolo grasso e gli artefici minuti,
cotesto voto incontrò pure nuovi e diversi impedimenti. Negli anni
stessi era in Venezia Piero Gradenigo, pel quale mutavasi ivi il
politico reggimento, ma oppostamente a quel di Firenze. Qui ogni cosa
era per il popolo, tutto in Venezia per gli ottimati: parvero allora
le due maggiori tra le città libere d’Italia capitanare le divisioni
e la nazionale debolezza, la quale può dirsi che in quegli anni fosse
decretata.


CAPITOLO IV.
CERCHI E DONATI. — BIANCHI E NERI. [AN. 1295-1300.]

Bandito Giano della Bella, si venne ad accusare gli amici di lui,
i quali furono condannati chi in cinquecento lire e chi in mille.
La città rimase in grande discordia; chè prendendosi in disamina le
azioni di lui, variamente se ne parlava in biasimo e in lode. Intanto
i contrari occupavano gli ufficii: il Pecora beccaio, uomo bilingue,
seguitatore di male, lusinghiero, insomma tristo per ogni verso,
corrompeva il popolo minuto, ordiva congiure, e maliziosamente dava
ad intendere ai nuovi Signori che erano eletti per sua operazione.
Molti altri abbindolava promettendo loro ufficii: grande era del
corpo, ardito e sfacciato e gran ciarlatore, e diceva palesemente
chi erano stati i congiurati contro a Giano. Intanto, per voglia di
mal fare, non per amore di giustizia, pigliava a perseguitare questo
e quello; arringava spesso nei Consigli, e si millantava essere egli
che aveva liberata la città dal tiranno Giano, e che molte notti era
ito di queto con certo suo lanternino a sollecitare i congiurati ed a
conferir con loro in non so quale cantina sotterra. I pessimi cittadini
chiamarono Potestà un messer Monfiorito da Padova, povero gentiluomo,
acciò rendesse ragione come a loro piacesse. Egli e la famiglia
sua palesemente vendevano la giustizia, e non ne schifavano prezzo
piccolo o grande che fosse: ma finalmente cadde in tanto abominio che
i cittadini, non potendolo più soffrire, fecero pigliare lui e due
suoi famigli e metterli alla tortura. Confessò cose che produssero
vitupero e pericolo a molti; e nato disparere se dovesse più lungamente
torturarsi o no, vinse la prima sentenza; e però quel cattivo cantò
nuovamente sulla corda, sicchè nuova infamia ne raccolsero i rettori
e parecchie condanne in danari. Ad onta che i Padovani più volte
mandassero a domandare il Monfiorito, fu cacciato in prigione; e vi
sarebbe vilmente marcito, se certa donna degli Arrigucci che aveva il
marito in prigione con lui, non avesse loro fatto pervenire lime sorde
ed altri ferri, per cui si fuggirono.[96]
I grandi frattanto non si ristavano dal tentare novità in Firenze:
capi erano di quella parte Forese degli Adimari e Vanni de’ Mozzi e
Geri Spini, i quali una volta si appresentarono in arme sopra cavalli
coperti, co’ loro masnadieri e contadini; ma vista la forza del popolo
soperchiare, si ritrassero senza far nulla. Avevano pure chiamato in
Toscana un cavaliere Giovanni di Celona, che dall’Imperatore ebbe carta
e giurisdizione sulle terre che egli guadagnasse. Venne costui per
consentimento, come fu detto, di papa Bonifazio, e andò a posarsi in
Arezzo con cinquecento cavalli; ma poco fece, e per trenta mila fiorini
d’oro che a lui diedero i Fiorentini, si partiva. E questi frattanto,
i quali avevano fatto lega con gli amici guelfi di Toscana, per
afforzarsi da quella parte edificarono nel Valdarno di sopra i castelli
di San Giovanni e di Castel Franco, dove si rifuggissero i vassalli dei
vicini signori e tutti quelli che amavano la parte guelfa ed il viver
libero. In Firenze erano anni prosperi; e allora ebbero cominciamento
il grande tempio di Santa Maria del Fiore e quello di Santa Croce ed
altri, e il Palagio del popolo per abitazione della Signoria. Ma (dice
il Villani) la grassezza partorì superbia e corruzione, per la quale
furono finite le feste e le allegrezze dei Fiorentini, che infino a
quei tempi stavano in molte delizie e morbidezze. Dalla discordia dei
Buondelmonti cogli Amidei, già gran tempo, erano sorte le maledette
parti Guelfa e Ghibellina; ora dalle discordie di due altre famiglie, i
Cerchi e i Donati, sorsero le parti Bianca e Nera: rinnovamento sotto
altro nome delle fazioni medesime. Firenze la quale ogni dì montava
per il numero di genti, chè aveva dentro più di trenta mila cittadini
atti alle armi e più di settanta mila distrettuali in contado,[97]
e buona cavalleria e franco popolo e ricchezze; signoreggiando quasi
tutta Toscana, non paventando nè dell’Impero nè dei propri fuorusciti;
Firenze la quale poteva a tutti gli Stati d’Italia colle sue forze
rispondere; essa medesima colle proprie mani si fece quel male che dal
di fuori non paventava. Era la famiglia dei Cerchi di nuova schiatta,
ma buoni mercatanti e gran ricchi: tenevano molti familiari e cavalli,
sfoggiavano in vesti ed in suppellettili, superbi per grande e numeroso
parentado; ma uomini rozzi e salvatichi, siccome gente venuta di
picciol tempo in grande stato e potere: avevano comprato il palazzo
dei conti Guidi, il quale era presso alle case dei Pazzi e dei Donati
in quel sesto di porta San Piero che si chiamò Sesto degli Scandali,
perchè ivi la vicinanza di molte famiglie possenti era occasione di
gelosie, ogni sesto avendo suoi propri uffiziali e quasi in sè le
passioni di una piccola repubblichetta. I Donati erano gentiluomini
e guerrieri; ma di poca ricchezza e possanza, sebbene capo di quella
famiglia fosse un uomo assai formidabile, Corso, il cui nome stava
in alto fino dalla giornata di Campaldino: talchè per la bizzarra
salvatichezza degli uni e la superba invidia degli altri nacque sdegno
tra le due casate. Tra gli avversari si lanciavano motti pungenti;
e perchè Vieri, capo della famiglia de’ Cerchi e chiaro anch’egli in
Campaldino, era di poca malizia e poco bel parlatore, quando si sapeva
che avesse parlato nelle ragunate de’ suoi, Corso diceva _ha ragghiato
oggi l’asino di Porta:_ e i motti si risapevano, nè mancavano giullari
che gli rapportassero anche l’un cento peggiori del vero.[98]
La divisione ebbe nuova esca dal seme di parte Bianca e Nera, venuto
di Pistoia, dove un legnaggio di nobili e possenti uomini, ch’erano
i maggiori di quella città, poco prima si era diviso in due parti,
l’una detta dei Cancellieri bianchi, l’altra dei Cancellieri neri. I
Fiorentini, per timore che di ciò non sorgesse ribellione a danno dei
Guelfi, s’intromisero tra le due parti, e tolta per sè la signoria
della città, sconsigliatamente mandarono a confino in Firenze questi
e quelli: così gli odii pistoiesi passati a Firenze moltiplicarono la
contaminazione. I Cerchi divennero capi di parte bianca, e i Donati
di parte nera.[99] I cittadini grandi, e popolani e artefici minuti,
viepiù si partirono; gli stessi uomini di chiesa diedero l’anima chi
ad una setta chi all’altra. Quella dei Cerchi era la più numerosa, e
pel grande seguito che avea, pareva che fosse in loro potere la città:
erano ben veduti dagli artefici perchè di buona condizione e molto
serviziati, e per la memoria di Giano della Bella cui avevano aderito:
i Ghibellini gli amavano perchè meno duri nel mantenere le leggi: e
allora si trova che i Cerchi disertando le raunate della parte guelfa,
più si accostarono ai popolani e alla Signoria. Delle maggiori famiglie
avevano seco gli Scali e tutti i Cavalcanti e gli Adimari, parte dei
Mozzi, dei Bardi, dei Nerli, dei Frescobaldi, dei Rossi; i Mannelli, i
Malespini, i Falconieri. Tutti i mezzani stavano con essi, e i migliori
uomini che volevano con Dino Compagni l’egualità e la pace, e i fieri
ingegni di Dante Alighieri e di Guido Cavalcanti per l’ampio concetto
che si avevano formato del viver libero e civile. Cotesti già un poco
infino d’allora si accostavano al ghibellinesimo, perchè i grandi e
possenti Ghibellini essendo iti in bando, rimanevano di quella parte
in Firenze le sole famiglie di minor conto, e con esse molti del
minuto popolo, i quali educati alle antiche clientele in casa dei
grandi, vivevano male sotto alla meno lauta e spesso più dura signoria
dei grossi mercanti. Co’ Donati erano quasi tutti questi, nobiltà
nuova e popolana che già intendeva in sè ristringere signorilmente lo
Stato, unita co’ grandi Guelfi, ed insieme con essi volendo imporsi
al popolo degli artefici. Aveva questa parte le sue maggiori aderenze
fuori, e credito e amicizie co’ signori: la seguitavano in Firenze,
tra gli altri, i Pazzi, i Visdomini, i Buondelmonti, i Tornaquinci, i
Gianfigliazzi, i Brunelleschi, gli Acciaiuoli, e con molta parte delle
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